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Abel Balbo, sogno di una notte di mezza estate

La cronaca di un’estate, del colpo di fulmine di un presidente. Le gioie, le difficoltà, le reti del killer dell’area di rigore.
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L’estate del novantatré è appiccicosa, si consuma tra l’eco dei TG di “Mani Pulite” e il cemento rovente delle città. La Prima Repubblica si sta sciogliendo come un ghiacciolo al sole, portandosi via un intero sistema di potere, e l’Italia si guarda allo specchio con un misto di paura e speranza. 

Roma, muta e sconquassata dalla bagarre politica, vive la sua estate di transizione, inquieta e sognatrice. La presidenza è passata da poco dalle mani di Ciarrapico a quelle di un uomo viscerale e ambizioso, Franco Sensi, che promette di riportare la squadra dove merita. Non può competere con i budget faraonici del nord, non ancora. Non può comprare il calciatore copertina. Deve avere un’idea. E l'idea è quella di trovare un centravanti vero, un finalizzatore, un uomo che trasformi in oro la passione della gente. In un mercato di trequartisti e artisti, la Roma cerca un operaio del gol. 

L’uomo ideale è un argentino, ha un volto severo e una fama da killer dell'area di rigore. Il suo nome è Abel Balbo, ed è la scommessa di Sensi per lanciare il guanto di sfida a un campionato di giganti.

Come Mario Kempes

Quando Abel inizia a giocare a calcio, lo fa in una piccola realtà locale del suo paese natale, Empalme Villa Constitución, piccola città della provincia di Santa Fe, in Argentina. Inizia a giocare come mezzala offensiva ma, ben presto, appare evidente che il suo più grande talento è quello di fare goal. 

Il Newell’s Old Boys decide di ingaggiarlo e di farne un attaccante. La formazione “leprosa” lo porta ad esordire a vent’anni in prima squadra. Siamo sul finire degli anni ‘80 e gli osservatori italiani guardano al Sud-America come la terra promessa per scovare le “vene aurifere” dei talenti del futuro. È il Verona ad innamorarsi di quel giovane attaccante dalla chioma folta e lunga, un look che ricorda quello del centravanti argentino per eccellenza, Mario Kempes.

Con gli scaligeri, però, Abel non giocherà mai. Osvaldo Bagnoli, tecnico del Verona, non è convinto dell’operazione e lo manda in prestito: il sogno Italia, per Balbo, verrà solamente ritardato di un anno, il tempo necessario ad andare in doppia cifra con la maglia del River Plate.

Sarà l’Udinese di Pozzo, neopromosso in Serie A, ad assicurarsi le reti del bomber argentino. Con i bianconeri giocherà quattro stagioni, l’ultima, quella 1992-93, è quella della definitiva consacrazione, quella che farà battere il cuore al Presidente Sensi. 

Folle città

Quando Abel arriva a Roma, lo aspetta un uomo che parla in dialetto e mastica calcio e vita con la stessa, ruvida saggezza. È Carlo Mazzone. Lo guarda, lo studia, e prima ancora del centravanti vede l’uomo. Vede la sensibilità dietro la mascella volitiva, l’ansia di prestazione che si nasconde nei silenzi. E decide di diventarne padre, prima che allenatore. 

La sua Roma è pragmatica, diretta, una squadra che non si specchia ma combatte. Una squadra che sa come liberare il suo nove. E a Trigoria, nello stesso periodo, comincia a sentirsi spesso  “guarda quello che fa sto ragazzino qui”. Il ragazzino si chiama Francesco Totti e sta dando i primi calci della sua leggenda. 

Balbo non è certamente un esteta, non ricama, non chiede il pallone sui piedi per iniziare un’azione personale. Balbo vive in attesa. La sua intelligenza è una scienza dell'anticipo, una comprensione quasi telepatica dello spazio vuoto. Il suo movimento è un’arte sottrattiva: non aggiunge, ma toglie zolle al marcatore, si smarca con un passo, una finta di corpo, un contromovimento. E poi c’è il tiro. Secco, immediato, violento. Un gesto che non contempla il dubbio. Quando la Roma attacca, lui è il punto fermo, l’uomo che finalizza il lavoro di Giannini, che trasforma in oro gli strappi di Fonseca.

Il 27 novembre 1994 diventa la sua consacrazione romana. È il giorno del derby. La pioggia batte sull'Olimpico, il presidente Sensi trema in tribuna. Bastano due minuti. Un'azione confusa, un pallone che spiove in area. Balbo è lì. Dove deve essere. Si coordina in un fazzoletto, è una sentenza. È l’inizio di un 3-0 che entra nella carne viva della città. La sua corsa sulla pista bagnata verso la Sud è la liberazione di un popolo. Quel giorno, Balbo smette di essere un grande acquisto e diventa un simbolo. Diventa il capitano. A fine partita è lo stesso Mazzone a correre verso i suoi tifosi, una corsa ben diversa da quella rabbiosa con cui passerà alla storia qualche anno dopo contro l’Atalanta.

Sotto la guida di Mazzone, Balbo continuerà inesorabilmente a fare quello che sa fare meglio: goal. È costantemente in doppia cifra e, ogni anno, tra i migliori marcatori del campionato. 

Poi, l’idillio si spezza. Mazzone se ne va, e al suo posto arriva proprio l’uomo di quel derby: Zdeněk Zeman. È uno scontro tra universi. Il calcio protettivo e umano di Mazzone viene sostituito dall’utopia scientifica del boemo. I gradoni, la fatica disumana, gli schemi mandati a memoria. Per Balbo, che vive di sensazioni, di letture del momento, di un rapporto quasi filiale con il suo allenatore, è un cortocircuito. Zeman non chiede di interpretare, ma di eseguire. Il suo centravanti deve essere il primo difensore, deve muoversi in sincrono con catene laterali che salgono a una velocità folle. I gol arrivano, perché la macchina di Zeman produce occasioni con una serialità impressionante e Balbo resta un killer. Ma l'uomo soffre. Si sente un ingranaggio, non più il centro. Il rapporto si logora, fino all'insulto plateale al momento di un cambio, un “laziale” urlato a mezza bocca che è la fine di tutto. A malincuore, lascia Roma.

Vincere per poi tornare

Balbo lascia Roma con l'amaro in bocca di un rapporto logoro e approda in un'utopia di provincia. Il Parma di fine millennio non è una squadra di calcio, è un'anomalia del sistema. È un gioiello nato dalla potenza economica della Parmalat, una collezione di futuri campioni del mondo e di talenti purissimi. Quando Abel Balbo varca i cancelli di Collecchio, si trova in una corte di re. Adesso è una delle tante opzioni di lusso in un attacco che comprende la furia di Enrico Chiesa e l'istinto felino di un giovane Hernán Crespo. Alle loro spalle, la regia visionaria di Verón; a proteggerli, la gioventù arrogante di Buffon, la potenza di Thuram, l'intelligenza di Cannavaro.

Per Balbo è una sfida di adattamento. Il suo ruolo cambia. Diventa un interprete prezioso nel calcio verticale e adrenalinico di Alberto Malesani. È un calcio che non aspetta, che aggredisce, che cerca la porta con una furia quasi incosciente. In questo sistema, l'intelligenza di Balbo nel muoversi senza palla, la sua capacità di attaccare il primo palo, diventano armi tattiche letali.  Quel Parma, gonfio di speranze e talento vincerà la Coppa Italia e la Coppa Uefa, un trofeo che rappresenta la realizzazione di un sogno che, agli occhi di molti, sembrava un utopia. Quei due titoli, sono i primi trofei dell’esperienza europea di Balbo.

Passano gli anni, da Parma, a Firenze, ma Roma resta un richiamo, una ferita aperta. E nell'estate del 2000, accade l'imprevedibile. Torna. Sa di non essere più il re, il titolare inamovibile. Il trono adesso appartiene a un altro argentino, Gabriel Batistuta. Accanto a lui, l’elettricità di Montella e la classe sconfinata di Totti. Balbo, adesso, è un rincalzo. Anche a Parma aveva giocato da subentrante, rappresentando la prima alternativa ad un altro argentino con il vizio del gol, Hernan Crespo. A Parma, aveva vinto i primi trofei della sua carriera europea: la Coppa Italia e la storica Coppa Uefa del 1998-99.

Quando ritorna a Roma, sulla panchina c’è Fabio Capello, un altro uomo che bada al sodo. Non gli chiede gol a grappoli, ma serietà, esperienza, peso specifico dentro uno spogliatoio che deve sopportare la pressione di un’intera carriera. Abel accetta il ruolo con una maturità che sorprende. Non è più il finalizzatore designato, ma il custode del fuoco. La sua presenza è un esempio. Si allena in silenzio, si fa trovare pronto. Gioca scampoli di partita, ma il suo contributo è un collante invisibile che tiene insieme il gruppo. La gente dello stadio lo ama di un amore nuovo, diverso. Non più l'ammirazione per il bomber implacabile, ma la gratitudine per l'uomo che è tornato per restituire qualcosa. 

Lo Scudetto arriva, ed è anche suo, nonostante il campo non lo vedrà quasi mai. È il lieto fine che la sua storia romana merita. L’uomo con la faccia malinconica, sceso a Fiumicino quasi un decennio prima, ora alza le braccia al cielo del Circo Massimo. Ha trovato il suo porto, ha chiuso il cerchio. 

Con la Roma giocherà le ultime partite della sua carriera prima di chiuderla, definitivamente, in Argentina, con la maglia dell’altra big albiceleste, il Boca.  È la Roma, però, a restare indelebile nel suo cuore. In giallorosso si è espresso al meglio, in giallorosso si è sentito davvero vivo, in giallorosso si è emozionato quando la Sud, sulle note di No Limit dei 2Unlimited, intonava “ Abel Balbo, Abel Balbo, Abel Balbo, Balbo, Balbo”.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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