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Osvaldo Bagnoli, pane, amore e catenaccio

Alcune delle più spettacolari imprese del nostro calcio sono da ricondurre alla visionarietà di Osvaldo Bagnoli. Non solo lo scudetto con l’Hellas e la vittoria ad Anfield con il Genoa. Ma anche tante lezioni di calcio e di stile, lasciateci in eredità dal “Mago della Bovisa”
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Osvaldo Bagnoli - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Il mondo del calcio si ricorderà di lui per lo straordinario, storico, nonché unico nel suo genere, scudetto vinto alla guida dell’Hellas Verona nella stagione 1984-85. Lo stesso anno in cui Ferlaino porta il più forte giocatore al mondo, Diego Armando Maradona, a Napoli, il Tricolore lo vince la squadra gialloblù. Primo e unico successo nella propria storia.

In realtà Osvaldo Bagnoli è stato molto molto di più per il nostro football.

Un innovatore, fiero sostenitore di quel “catenaccio” oggi inteso quasi sempre con accezione negativa. Ma che ha condotto le sue squadre a imprese fino ad allora definite impossibili.

Un ispiratore per molti tecnici, anche per un campione del Mondo come Enzo Bearzot.

Un fine conoscitore di uomini, dal momento che intorno alle caratteristiche, tecniche e personali, di ciascun giocatore era in grado di ritagliare un vestito su misura.

È stato soprattutto un uomo tutto d’un pezzo, mai disposto a scendere a compromessi, e per questo ricordato con estremo affetto in tutte le piazze in cui ha allenato, non solo a Verona, dove è piuttosto scontato.

Lo hanno soprannominato “il mago della Bovisa”. Scopriamo insieme il perché.

La scuola della Bovisa

Si gioca a calcio alla Bovisa, quartiere proletario dell’hinterland milanese. Per strada, come in una qualsiasi parrocchia di provincia.

Se sei cresciuto qui, ci sono due cose che sono e rimarranno insite dentro di te.

In primis, non ci sono distinzioni di nessun tipo tra gli esseri umani. Belli o brutti, forti o scarsi, giovani o meno giovani. Conta quello che vuoi fare e puoi dare. Ti va di giocare a pallone? Allora mettiti le scarpe e buttati in campo.

In secondo luogo, i problemi si affrontano, non si schivano né tantomeno si rimandano. Ci si guarda in faccia, ci si parla e si trova una soluzione. Da uomini veri, alla vecchia maniera.

Alla Bovisa è cresciuto Osvaldo Bagnoli, che ha sempre rivendicato, con giusto orgoglio, le proprie origini.

Una più che onesta carriera a centrocampo, da mezzala o mediano, trascorsa principalmente al Nord, anche se una delle parentesi più lunghe e felici è geolocalizzata a Catanzaro, dove ha militato dal 1961 al 1964.

Passato poi a fare l’allenatore, con i risultati che vedremo.

Che Bagnoli sia sempre stato “uno della Bovisa”, prima ancora di diventarne “il mago”, lo si capisce ripercorrendone le vicissitudini.

A Verona costruisce la squadra che vincerà il tricolore scegliendo, di fatto, tra gli scarti delle altre. In questo modo Garella non è più un portiere sbadato e anche un po’ brutto da vedere, ma un formidabile paratutto. Di Gennaro passa da eterna promessa in maglia viola a cervello insostituibile. Fanna, oggetto misterioso alla Juventus, diviene un autentico aratro sulla fascia, percorsa su e giù così tante volte.

Ma a raccontarci meglio Osvaldo Bagnoli da un punto di vista umano è soprattutto la prima esperienza, che il mister trascorre alla Solbiatese, dove è stato di fatto raccomandato dall’amico Carlo Pedroli. All’ottava giornata del girone di ritorno, durante l’intervallo di un match difficile, il presidente della squadra va negli spogliatoi per dare un consiglio tattico al proprio giovane allenatore. Che di tutta risposta, indica al proprio datore di lavoro che “quella è la porta”.

Verrà esonerato il giorno stesso, prima ancora di sedersi a tavola per la cena.

Le imprese “giovanili”

L’arrivo di Bagnoli a Verona non è per niente casuale.

Il tecnico, negli anni precedenti, si è già distinto per delle autentiche imprese.

La prima, in realtà, solo sfiorata, alla guida del Como. Squadra già spacciata quando arriva lui, per sostituire Cancian, ma che a momenti non compie il miracolo, grazie ai suoi 15 punti in 18 partite.

Poi quello che il mister ha sempre rivendicato come un proprio capolavoro: la salvezza ottenuta, in serie B, con il Rimini, stagione sportiva 1977-78.

Quindi, dopo aver accettato, senza storcere eccessivamente il naso, di scendere fino alla C2, la promozione conquistata con il Fano, che gli serve come vetrina per tornare in serie B a pilotare il Cesena, condotto alla promozione nel giro di due anni.

Nel 1981 lo chiama il presidente Celestino Guidotti, per prendere il comando di un Hellas Verona salvatosi disperatamente in serie B all’ultima giornata l’anno precedente.

Bagnoli non vuole fallire, in una piazza che conosce, avendoci già trascorso degli anni importanti come giocatore. Ma riceve importanti rassicurazioni: ci sarà una poderosa campagna acquisti per rinforzare la squadra, e si proverà a tornare il prima possibile in serie A.

Ecco, il primo tassello di quello che poi verrà ricordato in eterno come “il Verona di Bagnoli” viene posto il 13 giugno 1982. Mentre in tutta Italia regna lo scetticismo nei confronti della Nazionale di Bearzot, pronta a iniziare, il giorno dopo, il proprio cammino ai Mondiali di Spagna 1982, quasi in contemporanea con la partita inaugurale, persa dai campioni in carica dell’Argentina contro il sorprendente Belgio, l’Hellas Verona pareggia in casa con il Brescia, e ottiene la matematica promozione in serie A.

Il Verona di Bagnoli

Non serve nemmeno dilungarsi troppo, per raccontare cosa sia stato il Verona negli anni successivi.

Nelle pietre della storia del gioco è inciso tutto in maniera indelebile.

È scritto del quarto posto, con tanto di finale di Coppa Italia, al primo anno nella massima serie, grazie a una formazione di “scarti” delle big (oltre ai già citati Garella, Fanna e Di Gennaro anche Volpati, Tricella e Marangon).

È scritto di come si ritrovi quasi tra i piedi il brasiliano Dirceu, acquisto di spessore del club, che tuttavia lui non ha chiesto. E di come poi riesce, senza colpo ferire, a ritagliargli intorno una collocazione tattica nel proprio sistema di gioco.

È scritto del sesto posto dell’anno successivo, nonostante le partenze dei pezzi più pregiati (incluso lo stesso Dirceu), rimpiazzati da giocatori semisconosciuti (da Galderisi a Bruni, passando per lo stopper Silvano Fontolan). Il tutto accompagnato da una ulteriore finale di Coppa Italia e dal debutto nelle coppe europee.

È scritto di come poi, nell’estate del 1984, due acquisti stranieri cambino letteralmente volto alla squadra, fino a condurla a un titolo straordinario. Lo statuario Hans-Pieter Briegel, difensore tedesco arrivato dal Kaiserslautern, e il geniale Preben Elkjaer Larsen, punta danese scovata in Belgio, nel Lokeren.

È scritto pure dello scandaloso arbitraggio di Wurz, costato all’Hellas una precoce eliminazione nella successiva Coppa dei Campioni, perpetrata nientemeno che dalla Juventus.

Ma è scritto anche di come il comandante Bagnoli tenga ben fisso, nella sua mano, il timone del Verona anche mentre lo scafo cola inesorabilmente a picco, vessato dai debiti della società. Potrebbe andarsene, Osvaldo, attirato dalle tante voci di mercato sul suo conto. Invece se ne sta al suo posto, e retrocede con i suoi ragazzi, dando pure la disponibilità per un eventuale ricostruzione.

Ma come tutte le favole, anche quella tra il Mago della Bovisa e l’Hellas Verona è oramai terminata.

Il miracolo di Anfield

Prima di tornare nella sua Milano, e di andare a San Siro da protagonista alla guida dell’Inter, Bagnoli fa in tempo a scrivere un’altra memorabile pagina del nostro football.

Il suo Genoa è infatti la prima squadra italiana nella storia a espugnare il tempio di Anfield, battendo il Liverpool 2-1 grazie alla doppietta del Pato Aguilera, che vanifica il momentaneo pareggio di Ian Rush. Prima di venire eliminato dall’Ajax di Van Gaal, alle porte della finale.

Poi Bagnoli viene contattato dal Milan, impegnato a sostituire Arrigo Sacchi. Ma Berlusconi si oppone, rifiutandosi categoricamente di avere un allenatore “di sinistra”.

Va all’Inter quindi, fortemente voluto dall’altro presidente della Milano calcistica, Ernesto Pellegrini.

Tutto abbastanza bene il primo anno, con il suo micidiale contropiede che ben si sposa con le caratteristiche dei due attaccanti, Ruben Sosa e Totò Schillaci. I nerazzurri chiudono secondi dietro il Milan di Capello, vero e proprio rullo compressore.

Male l’anno dopo, quando il Biscione acquista dall’Ajax Win Jonk e Dennis Bergkamp. Due olandesi cresciuti nella scuola del calcio totale, e che mal si adattano alla dottrina del tecnico milanese.

Una sconfitta interna con la Lazio gli costa il secondo esonero in carriera (dopo quello con la Solbiatese). “Si dimetta” gli dice Pellegrini. “E lei si vergogni” la risposta di Bagnoli, che chiuderà lì la propria carriera.

La Bovisa, d’altronde, il suo Mago lo ha nel frattempo trovato.

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