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Gabriel Omar Batistuta, il tiro che faceva rumore

Pochi giocatori sono così identificativi di un ruolo come Gabriel Omar Batistuta. Batigol è un nove autentico, puro, arcaico. E’ l’icona più fulgida di un centravanti che non esiste più.
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Gabriel Omar Batistuta - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Febbraio 1988, campo di allenamento del Newell’s Old Boys, Rosario, Argentina. È l’allenamento della terza squadra. L’allenatore, Mastroianni, chiede ai giovani di palleggiare in cerchio. Poi interrompe l’allenamento con un fischio e rivolto verso il nuovo arrivato tuona “Con cosa hai imparato a palleggiare a Reconquista? Con dei cocomeri?”. La risposta non si fa attendere “Non sarò certo Maradona, mister, ma mi dia una porta e vedrà”. Quella frase, letta oggi, sembra un autentico vaticinio. All’epoca, invece, è soltanto il rigurgito di rabbia del giovane Gabriel Omar Batistuta.

El gordo

La carriera di Batistuta ha un incipit non convenzionale. Il piccolo Gabriel è un argentino atipico: i suoi capelli biondi sono una rarità in Argentina (per questo viene soprannominato gringo) e, a differenza dei suoi coetanei, non ama il calcio. Ci gioca, chiaramente, ma per lui non è nient’altro che uno svago, un modo per stare con i suoi amici. Inizia a giocare a sedici anni quando capisce che non ha spazio nel basket e nella pallavolo, sport che preferisce di gran lunga. Ma, mai, né quando indossa la maglia del “Grupo Alegria”, la sua prima squadra amatoriale, né quando inizia a giocare per il centro sportivo Platense di Reconquista, pensa che fare il calciatore sarà il suo futuro. 

Nella sua autobiografia, uscita nel 1997, dirà che, a spingerlo a prendere il calcio sul serio, è stato un poster di Maradona regalatogli dal suo amico Pitti Lorenzini. Ma, la prima fase della sua carriera, gli dà quasi ragione: il calcio non sembra affatto il suo futuro. 

Gabriel Omar si trasferisce a Rosario per giocare nelle giovanili del Newell’s Old Boys ma è acerbo, senza esperienza, senza quella formazione calcistica che i suoi coetanei iniziano contemporaneamente alla scuola dell’obbligo. Al Newell’s ci arriva perchè Jorge Bernardo Griffa vede in lui delle qualità che nessun altro immagina neanche lontanamente.  Vedo questo ragazzone che ha una potenza assurda. È fortissimo anche di testa, è uno che spacca il pallone, ma che nemmeno sa dove andare. Non ha nulla del calciatore, ma sento che in lui c'è un qualcosa di speciale” dirà Griffa in una trasmissione televisiva. Il talent scout non è soltanto l’uomo che porta Batistuta a Rosario ma anche quello che lo convince a continuare quando Gabriel pensa di mollare tutto. 

Un anno prima, d’altronde, “el Gringo” ha conosciuto Irina Fernández e se ne è innamorato. Gabriel sente il peso della distanza e non è così incline, per usare un eufemismo, all’allenamento. In quegli anni viene soprannominato “El Gordo” o “El camión” per sottolineare la sua scarsa forma fisica e il bagaglio tecnico limitato. Nonostante Gabriel cominci a fare i primi gol in Argentina, il Newell’s lo cede in prestito al Deportivo Italiano, squadra fondata da emigranti italiani. È qui che Batistuta conosce per la prima volta l’Italia e lo fa nel segno del gol. Finirà il Torneo di Viareggio come capocannoniere e qui vedrà prendere vita quel famoso poster che aveva appeso in camera: incontra, per la prima volta nella sua vita, Diego Armando Maradona.

Superclasico

L’esperienza “italiana” dura pochi mesi: il River lo acquista per sostituire Balbo. Con i Los Millonarios, però, continua il suo rapporto non idilliaco con il mondo del calcio. Sulla panchina del River c’è Daniel Passarella, autentico totem argentino famoso per essere un “sergente di ferro”. Il rapporto tra i due non trova mai punti di incontro. Il mister non ha fiducia nel suo attaccante che, ben presto, finisce ai margini della rosa. 

Bati non indosserà mai più la maglia del River e, senza alcun ripensamento, firma un accordo con i rivali del Boca Juniors. Qui trova finalmente la fiducia che crede di meritare: mister Oscar Tabarez lo protegge, lo catechizza, lo posiziona al centro dell’attacco, spostandolo da quella fascia che poco gli compete. Al centro dell’attacco, Batistuta comincia inesorabilmente la sua trasformazione in “Batigol” e, con la maglia Xeneize, ha tempo anche per prendersi la sua rivincita ai danni di Passarella. È il 20 Marzo 1991 e al Monumental si gioca il Superclasico River-Boca

In 90 minuti Batistuta regala un saggio delle sue qualità: si procura un rigore, lo calcia, lo segna. Qualche minuto più tardi scaraventa di testa un suggerimento di un ispiratissimo Latorre: doppietta. Batistuta esulta in maniera sfrenata, corre in direzione della curva “azul y oro”, si inginocchia. Le telecamere non riescono più ad inquadrarlo e la regia televisiva vira l’obiettivo verso il tecnico del River: nello sguardo del Kaiser Passarella c’è la consapevolezza di aver perso un talento.

 

Ora, come dicevamo, la carriera di Batistuta è quasi un unicum nel panorama argentino per tanti motivi. A renderla atipica non sono solo la chioma bionda, l’approccio disinteressato, la “passione” sbocciata tardi ma, anche e soprattutto, la sua esplosione. Siamo abituati a vedere talenti argentini (ma vale lo stesso in tutto il Sud-America) esplodere da giovanissimi in patria, diventare idoli dei rispettivi club per poi partire alla ricerca dell’El Dorado che, nella maggior parte dei casi, è rappresentato da un club europeo (spesso anche con risultati disastrosi). 

“Batigol”, invece, passa dal River al Boca senza creare moti rivoluzionari (che, da quelle parti, sono all’ordine del giorno per “tradimenti” del genere) e, dello stesso Boca, non sarà mai un’icona. Le reti siglate con la squadra del “maestro” Tabarez gli regalano, però, la prima convocazione in nazionale. 

L’esordio avviene il 27 giugno 1991: il CT Alfio Basile lo schiera subito titolare. Pochi giorni dopo lo convoca per la Copa America: è l’estate della consacrazione. Durante il ritiro lega particolarmente con il “Cholo” Simeone, tra i due nasce, quasi per gioco, una scommessa: Diego, passato in Italia da un anno, promette a Gabriel di portarlo nel “Belaese” se sarà decisivo nella competizione. Entrambi non sanno che quella scommessa diventerà, prestissimo, realtà. 

La Copa America è, infatti, trasmessa in diretta tv anche in Italia e rappresenta, perciò, un’autentica vetrina internazionale. Batistuta, praticamente all’esordio assoluto in una competizione ufficiale, segna sei reti in altrettante partite, diventa capocannoniere e regala all’Argentina il suo tredicesimo titolo. Contemporaneamente a Firenze, Vittorio Cecchi Gori, presidente della Fiorentina, si innamora di quel centravanti dalla folta chioma. 

Prendi 3 prendi 1

L’infatuazione di Vittorio Cecchi Gori diventa autentica ossessione. La Fiorentina è già diventata proprietaria di Latorre e si è assicurata le prestazioni di Antonio Mohamed. Entrambi partecipano al trionfo in Copa America con Gabriel. Cecchi Gori, però, vuole Batistuta subito e arriva a mettere sul piatto tutti e due i neo acquisti. Morale della favola: Gabriel Omar passa immediatamente in maglia viola, Latorre e Mohamed al Boca.

La trattativa finisce su tutti i giornali, descritta quasi come un “colpo di testa” del patron fiorentino. Pochi, in quel preciso momento, avrebbero scommesso così tanto su Batistuta. “L’1x3 di Cecchi Gori” diventerà, presto, il più grande colpo di mercato dell’intera storia della Fiorentina. 

Gli esordi di Batistuta sono caratterizzati da due grandi costanti: un difficile periodo di ambientamento e l’esplosione definitiva nei big match. Firenze non smentisce la “tradizione”. Nel girone di andata, infatti, realizza soltanto tre reti, decisamente poche per le aspettative che quel colpo “tanto sudato” aveva generato intorno al bomber. La partita della svolta è la sfida alla Juventus, acerrima e storica rivale della Viola. Dopo soli sette minuti, di testa, Batistuta segna il gol del vantaggio: da quel momento in poi, non smetterà più di segnare. 

Ha segnato Batistuta, ha segnato la Fiorentina

Il Re leone”, così verrà chiamato in Italia per la sua ipnotica chioma, diventa presto uno dei più grandi attaccanti al mondo. È impossibile non associare la maglia viola con lo sponsor Nintendo alle sue gesta eroiche. Batistuta quando entra in campo ha un’aura diversa dagli altri: ha un viso “religioso”, è serafico, sembra sempre in controllo. 

La calma di Gabriel è un equilibrio soltanto apparente, un accumulo di pressione destinato ad esplodere non appena il piede destro di “Batigol” colpisce il pallone per calciare e Gabriel è libero di scatenare la sua “mitraglia”, esultanza che diventa praticamente il suo marchio di fabbrica. 

Batistuta ha una forza spaventosa. Quando colpisce il pallone, di piede e di testa, si sente il botto. Sa chi mi ricorda? Riva. Solo Riva riusciva a fare quel dum” dirà Claudio Ranieri in risposta alle critiche sulla presunta tecnica limitata del bomber. Batistuta è, per tutta la sua carriera, al centro di un grande equivoco: come si può definire “tecnicamente limitato” un attaccante capace di segnare di testa, al volo, dalla distanza, in acrobazia, di precisione, di rapina? 

Batistuta non conosce distanze, opposizioni e, soprattutto non sente il peso “dello stadio”. Segna nella maggior parte dei big match a cui prende parte, ammutolisce monumenti del calcio con la semplicità di chi gioca a calcetto in settimana. 

Emblematica è la partita d’andata della semifinale di Coppa delle Coppe del 1997. Batistuta con i gigliati ha già vinto, l’anno precedente, la Coppa Italia e, qualche mese prima la Supercoppa italiana segnando una doppietta incredibile contro il Milan del “mago” Savićević. 

La Fiorentina si gioca l’accesso in finale contro il Barcellona di Ronaldo, indiscutibilmente il più grande giocatore del mondo in quel momento. E’ il ‘62 quando Batigol riceve palla in area, controlla di petto, la sistema con il ginocchio destro per poi far partire un missile terra aria dal limite dell’area. Gol. Il Camp Nou cala in un silenzio gelido. Batistuta alza le braccia al cielo, poi avvicina un dito al naso per “simulare” l’insolito silenzio dei centomila spettatori ammutoliti. 

“In quel momento ha parlato Batistuta, ha parlato la Fiorentina” dirà nella sua autobiografia come a sottolineare la sua determinazione, la sua voglia di rivalsa, il suo attaccamento alla viola.

Ritardi

La carriera di Batistuta è un continuo rincorrere il tempo perso in gioventù. Si è affermato tardi per gli standard e quindi molte delle sue “prime volte” le vive in età matura. Ha quasi trent’anni quando gioca per la prima volta la Champions League. Anche qui, nonostante l’inesperienza, darà prova della sua proverbiale potenza in una delle partite più iconiche della storia della Fiorentina. 

È il 27 Ottobre 1999 e a Wembley la Fiorentina si gioca l’accesso alla seconda fase a gironi della Champions contro l’Arsenal di Wenger. La partita è un’autentica battaglia. Gli stadi inglesi fanno tremare le gambe, si sa. Ma Batigol non ha paura: al 75’ riceve palla al vertice destro dell’area, si allunga la palla sul destro e da posizione quasi impossibile scaraventa la palla in rete. È un tiro angolatissimo, di una potenza inaudita che regala la vittoria alla squadra di Firenze.

Poco importa che la Fiorentina sarà eliminata in entrambe le occasioni, che lo scudetto resterà per i viola una chimera, quelle gioie, quei momenti di pura passione, quel legame indissolubile del “Re leone” con il giglio, sono patrimonio indimenticabile all’ombra della Cupola del Brunelleschi.

“Delle volte mi dico che non è giusto che non ho vinto questo trofeo o quell’altro; la fortuna che ho avuto è che ho sempre dato quello che potevo, non mi sono mai concesso il lusso di finire una partita pensando: “se avessi fatto questo o quello, avrei ottenuto qualcosa in più”» dirà sulla sua carriera. 

Anche lo Scudetto arriverà in tarda età: Batistuta saluta Firenze nell’estate del 2000 per trasferirsi alla Roma. È l’ultimo treno per provare a vincere quel tanto ambito titolo che, un attaccante del suo calibro, merita. È un’annata splendida caratterizzata da ben 20 reti in campionato che sanciscono la vittoria della squadra della capitale. Batistuta ha ormai trentuno anni, gli acciacchi cominciano a diminuire la sua incisività. 

Sono gli ultimi squilli di tromba della sua carriera. 

Monumento

Parlare di Batistuta in riferimento alle vittorie e delusioni con l’Albiceleste, al singolo Scudetto vinto, alle tante annate in cui poteva raccogliere qualcosa in più è terribilmente riduttivo. 

Batigol è icona , simbolo del calcio degli anni ‘90, esempio lampante del talento sconfinato che offriva il campionato italiano, di un prototipo di attaccante che oggi non esiste più. Pochi centravanti sono riusciti in carriera ad entrare così tanto nel cuore dei tifosi da essere universalmente amati. È un privilegio che, di solito, è riservato ai campioni generazionali, ai grandi capitani, a quelli che hanno vinto tutto. Batistuta non si può fregiare di nessuno di questi titoli. 

Batistuta è, citando Andrea Romano nel suo “Batistuta, l’ultimo centravanti”, “un attaccante quasi preistorico capace di attraversare un calcio in mutazione e diventarne dominatore”, è il centravanti che ha messo a tacere i pregiudizi, che ha fatto impazzire i detrattori, che ha spinto giornalisti su giornalisti a valutazioni ingenerose crollate al cospetto dei fatti. 

Perchè il rumore del calcio di Batigol è un suono che il nostro timpano non può dimenticare, un’onda che martello, incudine e staffa continuano ancora oggi a far vibrare nelle nostre orecchie.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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