Juan Sebastián Verón, de padre a hijo
In Argentina la realtà supera spesso l’immaginazione. È l’effetto di quella “mistica” che permea tutto: il sorso di mate al mattino, i calici di Malbec, l’amore, il calcio, la vita.
In Argentina può succedere che un club, nato da un gruppo di studenti dissidenti del Club de Gimnasia de La Plata, venga soprannominato “il Pincha” o “Los Pincharratas” (cioè i pungi topo). Può succedere che l’origine dell’apodo sia dibattuta ma che entrambe le versioni, sia quella che fa derivare l’epiteto dalla specializzazione in medicina di alcuni dei fondatori - che quindi conducevano studi anatomici sui ratti- sia quella collegata ad un celebre tifoso, Felipe Montedonica - che per racimolare qualche pesos allontanava i roditori dalla frutta del mercato- siano credibili.
Succede anche che questa squadra, che prenderà il nome di Estudiantes de la Plata, diventerà una delle quattro squadre argentine a vincere più di una Copa Libertadores e che, il trait d’union tra il club e la competizione, sia una famiglia argentina originaria proprio di La Plata: la famiglia Verón.
La promessa
Juan Ramón Verón, detto “la bruja”, la strega, a causa del volto un po' arcigno che lo contraddistingue, è già una leggenda assoluta dell’Estudiantes quando nasce il piccolo Juan Sebastian. È il 9 Marzo 1975, una data da cerchio rosso sul calendario perché Ramón, quel giorno, non solo diventa papà, ma gioca anche il suo ultimo derby di La Plata. Diciotto anni più tardi, l’ormai non più piccolo Juan Sebastián, fa il suo esordio proprio con l’Estudiantes. Per tutti è, da subito, “la Brujita” (la piccola strega).
È una stagione difficile perché i biancorossi retrocedono al termine di un campionato disastroso. Verón comincia subito a scalare le gerarchie e l’anno successivo riporta la squadra della sua città nuovamente in Primera. Le qualità del giovane centrocampista sono subito evidenti e l’Estudiantes è una realtà troppo in difficoltà per potersi permettere un talento così ingombrante.
L’anno successivo passa alla corte del Boca Juniors dove ha il privilegio di giocare con due monumenti del calcio argentino: Claudio Caniggia e Diego Armando Maradona. In Argentina, come su detto, nulla sembra accadere per caso: Verón , in forza al Boca, diventa presto un obiettivo di mercato in Italia. Cosa c’è di strano, profetico o misterioso in questa trattativa? Che a prelevarlo dagli Xeneizes (i genovesi, come sono chiamati giocatori e tifosi del Boca) è proprio una squadra genovese, la Sampdoria.
È Sven Goran Eriksson, allora tecnico blucerchiato, ad essersene innamorato. L’investimento è importante: 6 miliardi per un ventenne quasi sconosciuto ai più. Juan Sebastián lascia l’Argentina nel 1996, non prima di aver fatto una promessa a papà Ramón: “... tornerò a giocare qui, prima o poi…”.
Un parterre di talenti
La Serie A in cui approda Verón è, in quel momento, il miglior campionato del mondo. È l’epoca delle cosiddette “Sette Sorelle”, cioè le squadre che dominano il palcoscenico italiano ed internazionale: Inter, Milan, Juventus, Roma, Lazio, Fiorentina, Parma.
Il destino di Juan Sebastián è quello di essere protagonista lì dove conta, dove la concorrenza è altissima e la posta in gioco scotta. Dopo due anni alla Sampdoria cambia regione e si sposta in Emilia: Calisto Tanzi ne vuole fare il perno del centrocampo di un Parma ricco di talenti incredibili. In quella squadra giocano, tra gli altri, Buffon, Crespo, Cannavaro, Thuram, Chiesa, Asprilla. Verón gioca solo un anno con “i ducali” ma vince i suoi primi trofei in carriera: la Coppa Italia e la Coppa Uefa. In estate la Lazio di Cragnotti mette sul piatto ben 52 miliardi di lire e l’argentino passa, quindi, alla Lazio dove ritrova il suo ex compagno Roberto Mancini e mister Eriksson, colui che l’aveva portato in Italia.
È a Roma, sponda biancoceleste, che avviene la reazione alchemica tra talento e duttilità: Verón diventa il cuore pulsante di un centrocampo sontuoso in un “undici” incredibile. Eriksson giocherà gran parte della stagione con un 4-5-1 moderatamente fluido di cui Almeyda è il vertice basso, intoccabile e inamovibile, Simeone l’agonista a fare da raccordo e Verón il creatore di gioco, libero di spaziare sulla trequarti, principalmente verso la sinistra, per favorire le incursioni di Pavel Nedved. “La Brujita” gioca un calcio particolare: non è un trequartista puro e neanche un regista da costruzione.
Verón è il diapason del gioco laziale. È lui che dà il “la” alle principali azioni offensive. Brilla quando si fa vedere tra le linee, dettando i tempi dell’uscita prima di rompere la linea avversaria con un unico, grande, imperativo: la verticalità. È, a tutti gli effetti, un giocatore verticale, fisicamente, con i suoi 186 cm di altezza e mentalmente, con le sue giocate in profondità.
A rivedere gli highlights delle sue giocate in quella stagione ci si rende conto di quanto Verón sia già un giocatore proiettato nel futuro: è capace di giocate offensive dall’elevato tasso tecnico, ma anche di importanti coperture. Quando è in serata è letteralmente ingiocabile. Orchestra la manovra, dribbla, lancia da distanze notevoli, contrasta con vigoria, ha i tempi di inserimento di una mezzala di spinta e la gestione del possesso di un volante. Il tiro, poi, è un’arma difficilmente sottovalutabile. Quando vedi calciare Verón sembra che la palla non cambi mai traiettoria, come se avanzasse facendo “saltare” i frame del replay.
La sua prima annata alla Lazio si concluderà con tre trofei: il Campionato, la Coppa Italia e la Supercoppa Uefa, vinta nell’estate del 1999 contro quella che, due anni dopo, sarà la sua nuova squadra.
La fredda Albione
Il passaggio allo United è favorito dalla forte volontà di Sir Alex Ferguson. Il tecnico scozzese si è innamorato delle sue giocate, della capacità di dare qualità e sostanza a centrocampo. In lui vede il partner ideale di Scholes. Appena atterrato a Manchester “riceve le chiavi del centrocampo” del club.
Si sa, tra argentini e inglesi non scorre buon sangue. Il rapporto tra i due popoli ci ha regalato lo sport che amiamo: gli inglesi lo hanno messo al mondo, gli argentini lo hanno cresciuto, accudito, amato. Nonostante questo, però, Inghilterra e Argentina restano due binari paralleli incapaci di incontrarsi.
Verón è iconico: la fascetta sempre presente sotto il ginocchio destro, i calzettoni abbassati, la testa calva, lo sguardo “cattivo”, il pizzetto. Quando scende in campo l’aura è percepibile ma, in terra di Albione, giocherà a corrente alternata. A nulla servono gli sforzi di Ferguson: il tecnico prova a schierarlo ovunque e litiga anche con la stampa per difendere il suo pupillo. L’idillio, nonostante le giocate non manchino, non si troverà mai. Dopo due stagioni e una Premier League conquistata, il Manchester lo cede al Chelsea dove vivrà il peggior periodo della sua carriera. In maglia Blues non riuscirà mai ad essere la “brujita” e comincia, ingenerosamente, ad essere etichettato come “bollito”.
Non è, però, dello stesso avviso Massimo Moratti che, “regala” il centrocampista al nuovo tecnico nerazzurro, una vecchia conoscenza dell’argentino: Roberto Mancini. Con l’Inter Verón torna a giocare ad un buon livello, vince lo Scudetto del post Calciopoli, due Coppa Italia e la Supercoppa Italiana del 2005, siglando la rete decisiva ai danni della Juventus.
Risorgere
La vecchia promessa fatta a papà Juan Ramón diventa, all’età di trentun’anni, un tarlo difficile da allontanare e, così, appena ne ha l’occasione, ritorna all’Estudiantes.
Qui, nella sua casa, vive una seconda giovinezza. Il ritmo più compassato del calcio argentino gli consente di diventare di nuovo il metronomo del gioco e questo, con i piedi che gli ha donato madre natura, non può significare altro che una cosa: spettacolo. Sono anni meravigliosi: l’Estudiantes vince due volte il Campionato di Apertura e conquista la Copa Libertadores che mancava da quel terzo successo consecutivo del 1970. Ricordate il trait d’union tra Libertadores ed Estudiantes? Indovinate chi era il protagonista di quel “three-peat” sudamericano? Juan Ramón Verón, proprio lui, leader dell’attacco dei “los pincharratas”.
“La brujita” chiuderà, neanche a dirlo, la sua carriera in maglia biancorossa dopo aver annunciato e annullato il ritiro a più riprese. Da quando ha smesso ricopre il ruolo di presidente dell’Estudiantes, consolidando ancor di più questo legame indissolubile tra la sua famiglia e il club. Un legame che ricorda un po' quello che è la famiglia Maldini per il Milan, se togliamo i più recenti dissapori.
In Italia diremmo, citando Antonello Venditti, “...certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano…”. In Argentina, no, perché queste straordinarie storie sono pane quotidiano, legna pronta ad alimentare il “sacro” fuoco de “la mistica”, motore inesauribile di storie, aneddoti e indimenticabili leggende.
Racconto a cura di Emilio Picciano