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Roma caput football, il derby della capitale

Roma città eterna, come eterna è la rivalità tra le due squadre della capitale. Lazio e Roma. Due modi di vivere diversi, due universi che non si incontrano tra loro. Se non, almeno per adesso, per condividere lo stadio.
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Derby della Capitale – Illustrazione di Tacchetti di Provincia

Nel XX secolo il calcio riesce a compiere l’impresa che, nei millenni precedenti, non era riuscita agli eserciti di mezzo mondo: dividere l’anima di Roma, spezzandola di netto in due parti.

In principio fu la Lazio, fondata nel 1900 al Rione Prati come società podistica da nove ragazzi, capeggiati da Luigi Bigiarelli, giovane sottufficiale dei bersaglieri. Sceglie lo stadio della Rondinella come campo di gioco e comincia a disputare i suoi primi campionati.

Dopo, molto dopo, nel 1927 Italo Foschi, sulle indicazioni della Carta di Viareggio appena stipulata per normare il gioco del pallone, stanco di vedere la città di Roma rappresentata dalla sola Lazio, allora espressione della medio-alta borghesia della capitale, sceglie di fondare una nuova squadra, che prenda il nome della città stessa e che sia espressione del popolo.

Il primo campo sarà il Motovelodromo Appio, ma ben presto ci si sposterà nell’iconico impianto del quartiere Testaccio, da sempre polmone del tifo giallorosso.

L’8 dicembre 1929 il primo derby, subito accesissimo, vinto dai più giovani giallorossi per 1-0 grazie alla rete del centravanti Rodolfo Volk.

Da lì in poi inizia una lunga storia. La storia del derby, forse, più sentito d’Italia. Il derby della Capitale.

Universi paralleli della stessa urbe

A Roma le due anime, quella biancoceleste e quella giallorossa, mal convivono.

Qui non è come a Milano, dove sovente tifosi di Inter e Milan si conoscono perfettamente tra di loro, ridendo e scherzando sulle rispettive fedi calcistiche. Qui non è come a Genova, dove la conformazione stessa della città, stretta e rannicchiata sul mare, costringe genoani e sampdoriani a condividere la vita quotidiana. Non è nemmeno come a Torino, città dove è pulsante il cuore granata, e dove la Juventus è semplice ospite, raccogliendo tuttavia migliaia di tifosi dal resto d’Italia.

Qui è diverso.

Se tu sei laziale e io sono romanista, non abbiamo assolutamente nulla da dirci.

Costretti dalla burocrazia italiana, dalla persistente mancanza di fondi e dal poco coraggio delle varie amministrazioni comunali, a condividere lo Stadio, l’Olimpico, le cose in comune tra Lazio e Roma finiscono qui.

I giallorossi sono da sempre stati, come abbiamo visto, espressione del tifo “popolare”. E hanno legato la propria storia ai grandi eroi. Difficile trovare un altro club i cui componenti, spesso nati e cresciuti nella capitale, abbiano saputo identificarsi al 100% con la propria maglia. Da Totti a Di Bartolomei, da Giannini a Bruno Conti, da De Rossi a Fulvio Fuffo Bernardini. Orgoglio della Roma, e orgoglio di Roma. Giocatori che hanno saputo, nelle diverse epoche, cucire lo stemma della Lupa nel cuore dei propri tifosi.

La Lazio, dal canto suo, ha un po’ perso quella storica connotazione borghese di inizio secolo. I laziali hanno sempre malvisto i cugini, più numerosi fin dal principio, dal momento che la curva giallorossa ha, fin dalla propria fondazione, accolto tra le proprie braccia i supporters di tutte e 3 le squadre che hanno contribuito a farla nascere: Alba, Roman e Fortitudo. Meno legati, sempre rispetto ai cugini, ai simboli storici della città (dal gladiatore al Colosseo), ma fieri della propria identità.

Anche i biancocelesti hanno avuto le proprie bandiere. Come dimenticarsi di Pino Wilson, di Vincenzo D’Amico, di Giorgio Chinaglia, di Paolo Di Canio? Spesso passati alla storia del club, oltre che per il numero di presenze o gol, anche e proprio per come, in campo, hanno saputo trasmettere la lazialità ai propri avversari.

Scorrono ancora nella memoria: il dito di Chinaglia, puntato verso la curva giallorossa, dopo un gol nel derby, o le due esultanze di Di Canio, di completo scherno nei confronti della Sud Romanista, in due momenti storici separati da quasi 20 anni.

“Vincere qui è diverso”

A livello di bacheca, le due squadre della Capitale non hanno praticamente mai saputo stare al passo con le più titolate avversarie del Nord: Milan, Inter, Juventus e Torino, negli anni, hanno vinto molto, molto di più.

Ma c’è un motivo se, chiunque abbia negli anni vestito la maglia di Lazio e/o Roma, ha sempre sostenuto che “vincere qui è diverso”.

“Uno scudetto vinto a Roma ne vale 10 vinti in altre piazze”. Così parlò Francesco Totti.

Il primo titolo di una squadra della Capitale viene vinto dalla Roma, nel 1942.

Poi, 32 anni più tardi, ecco che anche la Lazio rompe gli indugi, portandosi a casa uno storico tricolore. È la Lazio della “Banda Maestrelli”, dal nome dell’indimenticato tecnico capace di condurre un gruppo di pazzi fino al vertice del calcio italiano. Oltre a bomber Chinaglia, a capitan Wilson e a Vincenzo D’Amico, di quella squadra fanno parte indimenticati campioni, come Felice Pulici, Mario Frustalupi, Luciano Re Cecconi. Che giocatore, Re Cecconi!

La Roma tornerà poi a vincere nel 1982, dopo che Bruno Conti (ma non Roberto Pruzzo, escluso per far posto a Paolo Rossi) ha alzato al cielo la Coppa Del Mondo, con l’Italia di Enzo Bearzot.

Spettacolare anche questa Roma, guidata in panchina dall’arguzia dello svedese Nils Liedholm. In porta Franco Tancredi. Difesa con Sebino Nela, Pietro Vierchowood e Aldo Maldera, appena dietro capitan Di Bartolomei, a fare il libero. Centrocampo stellare, con il brasiliano Falcao, l’austriaco Prohaska e Carletto Ancelotti. Davanti, insieme a Conti e Pruzzo, un sottovalutatissimo Maurizio Iorio.

Cragnotti vs Sensi

Sono tuttavia gli anni a cavallo tra il ’90 e il 2000 però, probabilmente, a portare maggior fasto sia alle due squadre sia alla sfida tra esse stesse.

I due proprietari, Cragnotti e Sensi, in maniera molto diversa, costruiscono delle autentiche corazzate, capaci di tornare a giocarsi lo scudetto con le solite rivali.

Da un lato la Lazio, piena dei soldi del patron della Cirio, riesce a piazzare colpi da capogiro nel calciomercato. Nel giro di pochi anni arrivano, alla corte del tecnico Sven Goran Eriksson, fenomeni assoluti, come Juan Sebastian Veron, Roberto Mancini, Hernan Crespo, Diego Pablo Simeone, Marcelo Salas, Pavel Nedved.

Nel 2000 arriva anche lo scudetto, desiderato, tanto agognato quanto meritato. Vinto alla radio, con i tifosi biancocelesti che hanno già invaso il prato dell’Olimpico, in attesa del fischio finale della gara tra Perugia e Juventus, ritardata per il diluvio universale abbattutosi sul Curi.

Dall’altro l’appassionatissimo presidente giallorosso Franco Sensi riesce, con la forza delle idee, a cambiare volto alla sua Roma, da troppi anni impelagata nella mediocrità del mezzo classifica.

Nel 1999 in panchina arriva Fabio Capello, un guru, un maestro che cambierà il modo di vivere e pensare il calcio a Roma e alla Roma. Dopo aver assistito, impotenti, alla festa degli odiati cugini, l’anno dopo tocca alla Maggica invadere le strade della Capitale, per festeggiare uno Scudetto da delirio. Il trio offensivo composto da Montella, Totti e Batistuta fa impazzire le retroguardie italiane. Al resto pensano gli altri ragazzi, di assoluto valore sia come singoli che come gruppo: Cafu e Candela sulle fasce, Tommasi ed Emerson in mezzo, il muro Walter Samuel in difesa.

Lulic 71

Ancor più recente la sfida, probabilmente, più storica tra le due squadre.

Il 26 maggio 2013, infatti, il beffardo calendario di Coppa Italia mette di fronte proprio Roma e Lazio in finale, in una partita da disputarsi in uno Stadio Olimpico, manco a dirlo, gremito all’inverosimile.

Si intuisce subito, da ambo le parti, che questa sarà La Partita. Non c’è ritorno.

Mai era accaduto che un derby della Capitale mettesse in palio un trofeo.

Partita tesissima, quasi a scacchi tra i due allenatori, Aurelio Andreazzoli da una parte e Vladimir Petkovic dall’altra.

Serve un guizzo, un episodio. E al 71esimo minuto il bosniaco Senad Lulic iscrive il suo nome a quello dei grandi eroi della storia di Roma, tra gladiatori, imperatori, politici e attori dello spettacolo.

Su un traversone a mezzaltezza, molto teso, dalla destra, di Candreva, l’estremo difensore giallorosso Lobont riesce solo a sbucciare la traiettoria, mettendo fuori tempo Castan, che stava provando il disperato recupero. Sulla sfera si avventa proprio Lulic, capitano in pectore della Lazio, che insacca la rete che spedisce la coppa dalle parti di Formello.

La Lazio vince quella Coppa, e vendica, diversi anni dopo, la “manita” subita dai cugini nel 2002. 5 a 1, la sconfitta più cocente nella storia del derby del Colosseo, con poker di Montella e rete di Totti dedicata alla moglie Ilary.

Ancora oggi, tra le mura della Capitale, non è raro imbattersi nella scritta “Lulic 71”, eterno scherno che una parte di Roma fa a quella avversa.

Il Derby di sangue

Anche in questo caso, purtroppo, non manca l’episodio di sangue, che va a macchiare indelebilmente la storia sportiva di questa grande sfida.

Nessuno a Roma dimentica quel 28 ottobre 1979, quando un razzo nautico, partito dal settore giallorosso, colpisce all’occhio il tifoso laziale Vincenzo Paparelli, dopo aver attraversato tutto il campo. Cala subito il silenzio, con il povero Vincenzo che si accascia al suolo di fronte agli occhi attoniti della moglie Wanda.

La corsa frenetica verso l’ospedale Santo Spirito si rivela, purtroppo, inutile. Vincenzo Paparelli muore durante il tragitto.

Si decide di far comunque disputare la partita, per timori di possibili ulteriori scontri tra le due tifoserie. Ciò scatena l’ira del tifo laziale, e sia Wilson che Giordano dovranno adoperarsi per parecchi minuti, per tentare di placare il lancio di oggetti di ogni tipo verso il terreno di gioco.

Nemmeno un mese dopo, sempre all’Olimpico, si disputerà un amichevole tra due compagini miste, di giocatori biancocelesti e giallorossi, per ricordare l’accaduto. “Romani” contro “Resto d’Italia”. Ma la macchia è, ancora oggi, troppo difficile da cancellare.

Non è la prima volta che si gioca una partita a ranghi unificati, tra le due squadre. Sovente, nella prima metà del secolo, i giocatori delle due compagini si univano per difendere un unico vessillo, quello dell’urbe. La prima volta nel 1928, contro i cecoslovacchi del Viktoria Zizkov. L’ultima volta proprio in occasione del derby amichevole, in onore di Paparelli.

Perché da quel giorno Roma-Lazio, il derby della Capitale, acquisirà ulteriore significato. È La Partita, quella che ogni tifoso va a cercare nel calendario, all’inizio della stagione. Il momento in cui un’intera città si ferma. In cui anche la classifica non conta più. È un contesto a parte, è vivere o morire.

Ciò che, al di là dei titoli, rende Roma la capitale del Calcio Italiano.

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