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Alberto Malesani, ricordatevi di lui

La troppa spontaneità di cui ha sempre goduto spesso offusca la memoria di uno dei più bravi e promettenti allenatori che il calcio italiano abbia partorito negli ultimi 30 anni.
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Alberto Malesani - Illustrazione Tacchetti di Provincia

“L’ultimo allenatore a vincere in Europa. Dighelo! Che se lo ricorda”

Quante volte abbiamo visto e rivisto questa sfuriata di Alberto Malesani, ai microfoni di Monica Vanali, dopo un derby di Verona vinto dal suo Hellas, e che lo ha visto protagonista di una sfrenata corsa sotto la curva degli ultras scaligeri per festeggiare?

Una delle tante scenate del tecnico, nato nel quartiere veronese di San Michele Extra. Spesso oggi viene più ricordato per quelle, piuttosto che per altro. Quella in conferenza stampa, mentre allena il Panathinaikos, in Grecia, ammettiamo che rimane effettivamente epica.

Ma quello che sta dicendo, e il credito che sta rivendicando, quella sera, in un italiano che inevitabilmente si mischia con il dialetto veneto, è esattamente ciò che di ingiusto c’è nel suo finale di carriera.

Perché effettivamente il suo Parma è stata l’ultima squadra italiana, allenata da un allenatore italiano, a vincere la prestigiosa Coppa Uefa.

E allora la sua rabbia è giustificata e comprensibile. Ci dimentichiamo spesso del Malesani allenatore. Perché spesso sovrastato dall’Alberto personaggio, che ha avuto, come unico difetto, ammesso e non concesso che lo si possa considerare come tale, un eccesso di spontaneità.

Dalle ali messe ai Mussi, alle 3 coppe in 4 mesi

Alberto Malesani è il precursore del miracolo-Chievo. È lui infatti a mettere le ali ai Mussi, a cui Luigi Del Neri insegnerà poi effettivamente a volare, nel panorama della serie A.

Dopo gli inizi da allenatore di quartiere, da alternare con gli impegni lavorativi come dipendente della Canon, viene chiamato dal Chievo Verona per fare inizialmente da factotum. Si occupa principalmente del settore giovanile, ma anche di campagne abbonamenti, forniture, e talvolta interviene anche nelle decisioni di mercato.

Nel 1990/91 diventa allenatore della Primavera. Subito dopo collaboratore dell’allenatore della Prima Squadra Carlo De Angelis (ed è in questo momento che sceglie di abbandonare il lavoro per dedicarsi interamente al calcio), fino a prenderne il posto, e a guidare il Chievo a una storica promozione in Serie B (salvandolo poi negli anni seguenti).

Su di lui scommette Vittorio Cecchi Gori, che gli affida la panchina di una Fiorentina stellare, con Rui Costa, Batistuta ed Edmundo. Porta i viola in coppa Uefa, ma ciò non gli basta per essere riconfermato, con l’arrivo di Trapattoni in sua sostituzione.

Vola a Parma, quindi. Dove scrive definitivamente il suo più bel capolavoro. Prima il quarto posto, valido per la qualificazione in Champions. Poi le 3 coppe vinte in 4 mesi: Coppa Italia, Coppa Uefa e Supercoppa Italiana. Appuntando la città ducale nella mappa dell’elite del calcio europeo.

Umanità e disciplina tattica

Pare l’inizio di una fertilissima carriera, per questo giovane allenatore. Che colpisce tutti, oltre che per la sua già citata spontaneità, soprattutto nelle vittorie, ma anche per la briosità delle squadre da lui allenate.

Il modello è chiaramente quello dell’Ajax, conosciuto nel corso di alcune trasferte lavorative proprio ad Amsterdam. Il modulo di riferimento è il 3-4-3, che spesso muta in 3-4-1-2 nel momento in cui decide di dare più libertà a trequartisti come Rui Costa o Juan Sebastian Veron.

A fare la differenza poi, anche, la cura dei dettagli, e la gestione dello spogliatoio.

Malesani non è il classico sergente di ferro, dallo sguardo severo e sempre pronto ad urlare ai propri giocatori. Pretende tanto da loro, ma lo fa cercando un atteggiamento più paterno.

Consapevole, forse, di non essere stato un fenomeno dal calciatore (zero le presenze tra i professionisti).

E quando il tuo curriculum non è sufficiente per farti seguire a prescindere dai tuoi ragazzi, devi saper entrare nella loro mente, convincerli a credere nella causa per cui giocano, a investire sul lavoro da lui dettato.

Il resto lo fa Alberto. Inteso come essere umano, e non solo come allenatore. La sua genuinità e la sua spontaneità, tipica di chi è partito da molto distante, costruendosi pezzo dopo pezzo il proprio percorso, e che ora vuole godersi ogni momento, una volta giunto ai vertici della propria ambizione.

Il declino

Arriva però il calcio, con i suoi inesorabili turning point, a cambiare tutto, o quasi.

Nel 2000 Alberto Malesani è vittima di un tremendo incidente automobilistico, che fortunatamente lo lascia quasi del tutto indenne. Ma dopo un lungo recupero, è come se qualcosa in lui fosse cambiato, come se si fosse smarrita la polverina magica in grado di farlo volare.

A Parma arrivano un po’ di problemi, che conducono al suo esonero, e al suo primo periodo da “allenatore disoccupato”.

Sceglie quindi di tornare a casa, per guidare la squadra della sua città: l’Hellas Verona. Nella prima parte di campionato sembra essere tornata la sua squadra, con un cammino che porterebbe i gialloblù alle coppe europee. Nel girone di ritorno, tuttavia, si spegne un misterioso interruttore che trascina l’Hellas fino a una clamorosa retrocessione.

Dopo un anno di B in gialloblù, lo chiama il Modena, di nuovo in serie A. Copia e incolla dell’esperienza precedente: inizio incoraggiante, con i canarini in zona Uefa. Poi buio totale, ed esonero in favore di Gianfranco Bellotto.

Da lì in poi è un lunghissimo girovagare, alla ricerca dell’Alberto perduto. 8 squadre in 9 anni, con alcune esperienze che si chiudono nel giro di appena qualche giornata.

Un declino anche a livello di immagine, dato da alcune (legittime) risposte a giornalisti che lo definivano “mollo”, oppure praticamente esonerato in diretta tv. Gli ha risposto come ha sempre risposto a tutti, da San Michele Extra in avanti. Senza peli sulla lingua, senza spaventarsi dal poter risultare anche antipatico ai più.

“Dighelo, che se lo ricorda”

Tutto questo provoca in lui un certo disgusto, un disinnamoramento dal mondo che ha amato più di tutti, quello del calcio.

Capisce che oramai, per tutti, non è più il giovane allenatore di provincia, in grado di portare il Chievo in paradiso, la Fiorentina tra le “7 sorelle” e il Parma sul tetto d’Europa.

È diventato una sorta di macchietta, agli occhi dei più. E questo non gli sta bene.

Decide così di ritirarsi, nelle sue campagne, in compagnia dell’ottimo vino prodotto dalla sua famiglia.

Deluso da un mondo del calcio che lo ha dimenticato. E a cui lui vorrebbe solamente dire:

“L’ultimo allenatore italiano a vincere in Europa! Dighelo! Che se lo ricorda”

Leggi anche la storia di un altro allenatore veneto dal carattere più pacato, scopri Francesco Guidolin

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