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Mario Kempes, "No diga gol, diga Kempes"

Mario Alberto Kempes è stato un cortocircuito. È stato tutto e niente: delantero ed enganche, genialità e pragmatismo, sottovalutato e simbolo. Ritratto personale di un’icona assoluta.
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Mario Kempes - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Da bambino avevo imparato che il “dieci” era il giocatore di fantasia, spesso brevilineo, agile fisicamente ma ancor più di testa. Vedevo in Zidane una rara eccezione ma Zizou, oltre alle doti fisiche, aveva un tocco di palla che era una dichiarazione di pace tra popoli in guerra. Ero alla prima alfabetizzazione calcistica quando ho visto per la prima volta Mario Alberto Kempes. 

Il primo ricordo lo associo a un regalo di mio padre. Era un VHS dedicato ai “100 Gol più belli del calcio” edito da Mondadori. Non sono neanche sicuro che Kempes fosse davvero presente in quella cassetta ma la mia memoria ne è convinta. Riesco a ricordarmi benissimo, però, cosa ho pensato la prima volta che l’ho visto esultare con la maglia numero dieci: Kempes violava tutte le regole sul calcio che stavo imparando come uno “scolaretto”. 

Quel giocatore con la maglia albiceleste che esultava, rialzandosi dal prato coperto di papelitos, era completamente diverso dai canoni che mi ero costruito e che il calcio mi aveva, fino a quel momento, insegnato.  

Piacere, Carlos Aguilera

Il piccolo Mario cresce a Bell Ville, piccola cittadina in provincia di Cordoba. Sono i primi anni Settanta. “Marito” studia, racimola qualche soldo facendo il carpentiere e, nel tempo libero, come la quasi totalità delle persone in Argentina, gioca a calcio. A Bell Ville, poi, è impossibile non essere appasionati di “fulbo” perchè è qui che nel 1931 viene brevettata la Superball, il primo pallone senza le cuciture in superficie. 

Sempre a Bell Ville ci sono ben due monumenti dedicati all’invenzione e a novembre si celebra la Fiesta Nacional de la Pelota de Fútbol. In un contesto del genere è sinceramente difficile restare indifferenti “al pallone”. Kempes gioca in una piccola realtà locale, il Talleres de Bell Ville, quando comincia a farsi notare per la spiccata capacità di fare gol. Il suo datore di lavoro lo raccomanda ad un provino per l’Instituto Atlético Central Córdoba a cui Marito decide di partecipare. 

Il giorno della selezione, quando gli chiedono come si chiama, risponde “Carlos Aguilera” e “Mi dispiace, signore, non lo conosco” a chi gli chiedeva se conoscesse un giovane talento della sua stessa città, tale Mario Kempes. Marito teme che quella raccomandazione possa compromettere il provino e, poi, vuole giocarsi le sue carte alla pari con gli altri esaminandi. Nei primi quindici minuti di partita segna subito due gol, stregando gli osservatori del club. 

Pochi giorni dopo a casa Kempes arriva la chiamata del club: Carlos, cioè Mario, è un nuovo giocatore dell’Instituto.

El Matador

L’impatto di Marito è devastante, con lui l’Instituto conquista la Liga Cordobesa e la qualificazione al torneo Nacional del 1973. In massima divisione gioca tredici partite in cui realizza undici gol. Alla sua prima esperienza nel massimo campionato argentino è già tra i migliori marcatori in circolazione. Giocherà solo un anno per la squadra di Cordoba perchè, ad inizio 1974, è il Rosario Central ad acquistarne il cartellino. 

Kempes non ha ancora compiuto vent’anni ma le sue qualità tecniche, la sua capacità di capire il gioco del calcio, il senso della posizione sono degne di un veterano. Il suo nuovo allenatore, “El Maestro” Carlos Griguol, comincia a schierarlo sulla sinistra, più decentrato rispetto a dove era abituato a giocare. Cresce, così, la sua capacità di creare gioco senza perdere in alcun modo la vena realizzativa. La sua fame di gol, la freddezza con cui realizza ogni occasione creata gli valgono presto il soprannome di “Matador” e la convocazione ai Mondiali del 1974. 

Il peso delle aspettative, però, pesa sulle spalle del giovane attaccante che non riesce a segnare neanche un gol in tutta la competizione. Il bottino personale in patria, però, è fuori scala: in soli tre anni colleziona 97 reti in 123 presenze diventando il centravanti più richiesto del paese.  

Quelli passati erano stati anni di magra: dal ritiro di Sivori non era ancora nato un nuovo talento generazionale; con “Marito”, invece, l’Argentina può tornare a sorridere. Negli anni in cui Kempes disintegra le reti di tutti i potreros argentini, un altro giovane trequartista comincia a farsi notare. Si chiama Diego Armando ma non è ancora il suo momento. 

La grande speranza bianca

Nell’Estate del 1976 “la Saeta rubia” Alfredo Di Stefano, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, consiglia alla dirigenza del Valencia, che aveva guidato fino a qualche anno prima, di investire su Kempes. Il Valencia prova ad acquistarlo, la trattativa non decolla subito e viene osteggiata dalla stampa locale e dall’hinchada canalla (come vengono chiamati i tifosi del Central) che non vuole perdere il suo goleador.  30 milioni di pesetas, però, sono una cifra che il club argentino non può rifiutare: la trattativa va in porto.  

Los rusos atacan con orden
Los nuestros buscan una ocasión...
Mario chuta y falla, falla y
Chuta y vuelve a fallar

I russi attaccano con ordine, i nostri cercano un’occasione. Mario tira e manca, manca e tira e continua a sbagliare...” canta “La gran esperanza blanca”, gruppo folk rock di Valencia in “Nostalgia de Bell Ville”, raccontando il pessimo esordio di Kempes con la maglia bianconera dei “Los murcielagos”. La partita è Valencia-CSKA Mosca, gara valevole per il torneo Naranja, un torneo estivo di poco valore. 

Il ritornello, poi, è un riassunto di cosa diventerà poi Kempes per la tifoseria del Mestalla.

Nadie supo que estábamos frente
Al gran Mario Alberto Kempes
Que esa noche, tan solo, sintió por una vez
Nostalgia de Bell Ville

Nessuno sapeva che eravamo davanti al grande Mario Alberto Kempes che quella notte, solo, sentì per una volta nostalgia di Bell Ville”. Da quel momento in poi il Matador non mancherà più l’appuntamento con il gol: nei primi due anni in Spagna vince il “Pichichi” (il titolo di capocannoniere del campionato spagnolo) segnando qualcosa come 53 reti. 

Gli ultimi ad avere un impatto così devastante, in termini di realizzazioni, in Liga erano stati Puskas e Di Stefano, proprio lui, sul finire degli anni ‘50. Kempes diventa simbolo assoluto di quella squadra e idolo dei tifosi spagnoli, con i bianconeri vincerà infatti la Coppa delle Coppe del 1979 e la Supercoppa Uefa del 1980. 

È con il popolo argentino, però, che ha un debito in sospeso dopo il mai digerito trasferimento in Spagna. L’occasione è di quelle che non si possono fallire: il Mondiale in casa.

Kempes Mundial

Quello che succede a Giugno 1978 in Argentina è pura letteratura sudamericana: c’è il dramma, il folklore, il sogno, l’incubo, la mistica, il surreale. L’Argentina che si appresta ad ospitare il Mondiale di calcio è una nazione trafitta dall’oppressivo regime militare instauratosi due anni prima. Nel Rio de la Plata scorre il sangue dei dissidenti. Il clima è tesissimo. I Mondiali di calcio sono un’opportunità propagandistica enorme per la junta. 

Le squadre nazionali, gli addetti ai lavori, i tifosi vivono la competizione in una bolla. La giunta e l’EAM 78, l’organismo incaricato dal regime di coordinare e dirigere l’organizzazione del Mondiale, sviluppano un programma pubblicitario imponente con l’intento di allontanare i contestatori, definiti come “antiargentini”, e di rappresentare il paese come ordinato, florido, tranquillo. Contemporaneamente il programma di repressione e tortura prosegue indisturbato. Con un’atmosfera così particolare a fare da sfondo, l’Argentina affronta il mondiale con una tensione difficilmente comprensibile. 

“Eravamo circondati dai soldati e isolati dal mondo, senza poter ricevere visite familiari, mentre ogni tanto qualche alto ufficiale piombava in elicottero con amici o parenti, per chiedere autografi o apparire sui giornali” dichiara Kempes a un’intervista di Repubblica del 2017. 

Alla guida della Selección c’è “El Flaco” Menotti, allenatore “filosofo”, preso di mira già alla vigilia per l’esclusione di Ricardo Bochini e di quel giovane Diego Armando che, nel frattempo, aveva incantato mezzo paese con la maglia dell’Argentinos Juniors. La storia, così come la vita, sa essere crudele: quel Mondiale sarà ricordato, giustamente, come quello della vergogna, del disonore, dell’indifferenza ma, Argentina ‘78, è, anche, il Mondiale di Kempes. 

La nazionale argentina non gioca un calcio degno della fama di Menotti, celebre per il suo calcio esteticamente sublime, e Kempes non segna neanche una rete nelle tre partite del primo turno che si giocano a Buenos Aires. Con il passaggio al secondo turno e il trasferimento a Rosario, inizia davvero il Mondiale di Marito. I sei gol che gli permetteranno di vincere il titolo di capocannoniere e di miglior giocatore del Mondiale sono la sintesi di tutto il suo repertorio. 

Sono ben tre le doppiette che fanno sognare il piagato popolo argentino. Contro la Polonia apre le marcature con uno stacco di testa imperioso e chiude la partita sul due a zero dribblando l’ultimo difensore in corsa prima di insaccare. Contro il Perù, nella controversa partita della “marmelada peruana” (chiamata così per una sospetta combine architettata dal regime), segna prima indisturbato davanti al portiere e poi ribadisce in rete un pregevole triangolo in area piccola. In finale contro l’Olanda sigla il vantaggio incrociando in scivolata di sinistro. Gli oranje trovano un insperato pareggio sul finire dei novanta minuti. Al 105’, però, Kempes riceve palla al limite dell’area. Da quel momento al goal toccherà la palla solo quattro volte: con il primo tocco evita una scivolata, con il secondo dribbla in piena area di rigore, con il terzo tira. La conclusione è però ribattuta, la palla gli rimbalza addosso, si impenna. Nell’ incrocio di corpi e gambe che si viene a creare, è quella di Kempes a spuntarla. Con il quarto tocco sfiora il pallone di suola, facendolo roteare oltre la linea di porta. 

L’Estadio Monumental di Buenos Aires abbraccia il nuovo eroe del calcio argentino. In quello stesso stadio, qualche anno più tardi, regalerà ai Los Millonarios, la Primera Division.

Kempes Universal

«Kempes? Un puledro inarrestabile che si mise in luce galoppando con la chioma al vento sopra il prato imbiancato di coriandoli» dirà qualche anno dopo Eduardo Galeano. Ed effettivamente, se riguardate le sue giocate, Kempes ha la stessa falcata di un cavallo. È un mix in cui l’eleganza e la poderosità non prevalgono mai l’una sull’altra. Ciò che salta ancora più agli occhi analizzando il suo stile di gioco, è il suo essere un giocatore estremamente moderno per il calcio dell’epoca. 

È un centravanti che viene a giocare largo, che tesse la tela dei passaggi sulla trequarti per poi inserirsi in velocità. Ha l’istinto naturale del bomber ma sa orientare il controllo ed il corpo come i più grandi enganche (che, spesso, sono alcuni cm più bassi ndr). È un attaccante che non fa dell’area di rigore il suo unico habitat. È calcisticamente “apolide”: dalla trequarti in poi lo puoi trovare ovunque. 

Dopo il Mondiale, le vittorie in Spagna e la breve parentesi al River, Kempes inizierà a girare il mondo. Gioca in Austria, in Cile e in Indonesia dove conclude ufficialmente la sua carriera. L’8 Febbraio 1995, però, indossa per l’ultima volta la maglia del Central in quella che si può considerare come la sua vera partita di addio. È un’amichevole tra vecchie glorie del Rosario Central e del Newell’s Old Boys, acerrime rivali del calcio rosarino. Al 25’ del primo tempo è proprio “El Matador” a segnare la rete che decide l’incontro, poi sospeso per scontri tra i tifosi.  “La palla mi è rimbalzata sulla testa” dirà in un’intervista con la solita ironia e umiltà che ne hanno contraddistinto la carriera.  Una carriera iniziata e finita nel segno del gol.

Da bambino avevo imparato che il “dieci” era il giocatore di fantasia, spesso brevilineo, agile fisicamente ma ancor più di testa. Non so se quella videocassetta mi ha insegnato la differenza tra ruolo e interpretazione del ruolo. So che Kempes era un qualcosa che il me bambino di allora faticava a spiegarsi e a descrivere. So, con ancora più convinzione, che quel giocatore magnetico, se ne avessi conosciuto il significato, l’avrei definito con un solo e semplice termine: icona.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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