Zdeněk Zeman, il mago boemo
Avvolto da una nuvola di fumo, originato dalla sigaretta, costantemente tenuta in bocca, sta un uomo mite e silenzioso, che in molti chiamano “il muto”.
Lo sguardo pensieroso, che guarda all’orizzonte. La concentrazione di chi è abituato da sempre a rompere gli schemi. Lui, che misura: lo spazio in aree da occupare, il tempo in minuti a disposizione per fare gol, e la fatica in gradoni.
Le rughe sul suo volto tradiscono il logoramento di chi è da sempre abituato a dire ciò che pensa. Anche a costo di inimicarsi un intero sistema, a suo dire malato e corrotto.
La schiena un po’ ricurva, tipica di chi, sulle proprie spalle, ha portato i sogni delle provincie italiane. Di chi ha reso felice intere generazioni, tramandone altre ai posteri non prima di averne arricchito il talento.
Il nome, Zdenek, lo riconduce alla sua Praga, abbandonata troppo presto dopo le sommosse della famosa “Primavera”. Il cognome, Zeman, lo rende immediatamente riconoscibile a chiunque, anche solo per un attimo, abbia amato quello sport che 22 persone, in una porzione di terreno delimitata, giocano con i piedi.
Il modello-Zeman
Ci sono due posti, oggi, dove potreste imbattervi quotidianamente con il nome di Zdenek Zeman.
A Foggia, in una qualsiasi piazza o nei migliori Bar Sport. Perché lì nessuno si è mai realmente dimenticato di quel Foggia dei Miracoli, di cui lui è stato prima artefice e poi condottiero.
E a Coverciano. Dove al Centro Tecnico Federale insegnano il suo calcio ai giovani aspiranti allenatori.
La formazione è chiaramente danubiana, con il classico WM, ma con contaminazione da Calcio Totale di Rinusmichelsiana memoria.
Di base ci sono: una preparazione atletica che potrebbe tranquillamente essere trasposta al corpo dei Marines; una ferrea dieta, anche nei giorni liberi; un codice di poche ma in transigibili regole che ognuno deve rispettare, dai giocatori ai membri dello staff.
In campo poi si va di 4-3-3. Sempre, ovunque e contro chiunque.
Solo ai difensori centrali è concesso il privilegio del mantenimento della posizione. Gli sforzi di tutti gli altri devono essere esclusivamente rivolti alla costruzione dell’azione. Se c’è spazio, va occupato, indipendentemente dal ruolo di chi è chiamato a farlo. Se c’è tempo, non va perso, e quindi la palla va giocata veloce, di prima. E più giocatori portiamo in area di rigore avversaria, maggiori sono le possibilità di fare gol.
“Ma Mister, e la fase difensiva?” “Ci penseremo quando e se perderemo il pallone. Finchè ce l’abbiamo noi, è un problema degli avversari”.
Risultati immediati: area avversaria letteralmente infestata da giocatori provenienti da ogni zona del campo; strapotere fisico dato dalla meticolosa preparazione atletica, e la costante sensazione che i ragazzi di Zeman vadano al doppio degli altri.
A qualche super-integralista del nostro calcio le sue squadre non piacciono, perché sono le difese a vincere i campionati. Probabilmente è vero, d’altronde non è un caso se la bacheca del tecnico boemo consta solo di 3 campionati vinti, con Licata, Foggia e Pescara, al netto di più di 50 anni di carriera.
Ma vederli giocare è veramente uno spettacolo.
Creatore di talento
Zeman non ha mai guardato in faccia nessuno al momento di fare la formazione o di dire, al proprio direttore sportivo, “questo sì, questo no”.
A lui non interessano curriculum o carta d’identità. Lui si rapporta con uomini, motivazioni e potenzialità.
È davvero infinito il lascito, in termini di giocatori, che il tecnico boemo ha lasciato al nostro calcio.
Ragazzi qualunque, che meritavano solo una chance. E che hanno saputo sposare perfettamente le idee e la mentalità del proprio allenatore, ricevendo in cambio forse anche di più di quello che sono loro stessi riusciti a dare.
Se a Licata, nei primissimi anni di carriera, porta una squadra composta da soli giocatori siciliani fino alla serie C1, a Messina scopre le doti di un generosissimo centravanti, che un paio di anni dopo faranno molto comodo all’Italia nel mondiale organizzato in casa: Salvatore Schillaci, in arte Totò.
Del Foggia dei miracoli si potrebbe citare l’intera rosa. Ma se i Satanelli erano sicuramente quelli del “trio delle meraviglie” Rambaudi-Signori-Baiano, e dei due russi Kolyvanov e Shalimov, erano anche quelli dei Maurizio Codispoti e degli Angelo Consagra: ragazzi qualunque, che mai più hanno saputo toccare certe vette in carriera.
Alla Lazio è la volta di un giovane difensore inserito in pianta stabile in prima squadra, tal Alessandro Nesta, e di due giovani in rampa di lancio, a cui concede le prime presenze nel palcoscenico dell’Olimpico: Marco Di Vaio e Pavel Nedved.
Alla Roma, invece, si accorge di quanto sia generoso quel Marco Delvecchio che l’Inter ha troppo presto scartato, e soprattutto di quanto talento abbia quel ragazzo che tutto il pubblico ama, per essere uno di loro. Francesco Totti, che lui per primo nomina “capitano”.
Dopo aver quasi fatto vincere, a Salerno, la classifica cannonieri a Fabio Vignaroli, a Lecce scopre due diamanti grezzi come Mirko Vucinic e Valeri Bojinov, quando ancora devono terminare la scuola dell’obbligo, e lancia titolare Marco Cassetti, che ben presto finirà anche in Azzurro.
Quando torna in Salento, è invece la volta di Pablo Daniel Osvaldo. L’attaccante acrobatico che farà presto innamorare i tifosi della Roma.
Quando tutti lo danno per finito, lui torna a Foggia, e scopre un efficace duo offensivo, formato da Marco Sau e Roberto Insigne. Quest’ultimo se lo porterà anche a Pescara, e sommandolo a Ciro Immobile e a Marco Verratti, comporrà una delle sue tele più famose, regalando inconsapevolmente all’Italia 3/11esimi della squadra campione d’Europa a Wembley con Roberto Mancini.
Tornato a Roma, infine, concede una possibilità all’imberbe Alessandro Florenzi, e regala qualche altro anno di carriera a uno dei suoi figli prediletti, Francesco Totti, ri-tirando a lucido un fisico che cominciava a risentire del peso degli anni.
I capolavori
A Foggia e a Pescara ha scritto delle pagine indelebili del nostro football.
In Puglia prende i rossoneri in serie B e li porta fino alle soglie della Coppa Uefa, giocando un calcio spumeggiante, in grado di far tremare gli squadroni della serie A. E componendo, con il presidente Casillo e il direttore Pavone, una delle triadi più iconiche del calcio italiano.
Pescara invece è quasi un capolavoro postumo. Nessuno credeva in lui, quando è arrivato in Abruzzo. Dicevano fosse “bollito”, che il suo calcio fosse “antiquato”, non adatto ai ritmi moderni.
Il suo Pescara è stato qualcosa di devastante. Quantomeno in serie B, prima che le grandi depredassero il Delfino di tutti i suoi gioielli. Di Insigne, Immobile e Verratti abbiamo già detto. Ma come dimenticare “il Sindaco” Sansovini, o il cervello Emmanuel Cascione, rigenerando poi un portiere come Luca Anania.
Nemico del sistema
E le grandi? Come mai non gli hanno mai affidato una squadra in grado di competere per il titolo?
In primis perché il calcio di Zdenek non si conforma alla volgarità del “vincere ad ogni costo”.
Il suo credo è differente: “Il risultato è casuale, la prestazione no”.
Conta però anche la costante battaglia di Zeman contro il “sistema”. Con le sue accuse, alla Juventus in particolare, che lo hanno inimicato alla cerchia dei potenti.
Dai farmaci sospetti, alle pressioni sul sistema arbitrale (presunte o meno).
Zdenek non si è mai fatto volere bene a certi livelli. In anni in cui mettersi contro gente come Luciano Moggi voleva inevitabilmente dire avere sbocchi limitati per la propria carriera.
Poco male comunque. Lui d’altronde è fatto così.
Prendere o lasciare.
Noi, amanti del calcio romantico, e innamorati delle favole nate in provincia, prendiamo eccome. Tutta la vita.
Scopri anche tutta la storia di uno dei componenti del trio delle meraviglie del Foggia. Leggi: Beppe Signori, Il Re mancino.