Cesar Aparecido, a briglie sciolte
Sembrava tutto così semplice in Brasile. Un calcio tecnico, libero, incentrato sulle individualità dei giocatori, scevro dagli esasperati tatticismi che governano lo sport contemporaneo. L’ideale per un giocatore come Cesar Aparecido Rodrigues, mancino, terzino, ma solo per collocazione del magnete sulla lavagna. Cavallo di razza, giocatore di tecnica e corsa, abituato a guardare sempre avanti e a supportare con impressionante costanza l’azione offensiva.
Poi il grande salto: il trasferimento in Italia. La strada giusta, già percorsa da altri connazionali prima di lui. La soluzione migliore per sfondare definitivamente. Notato in Brasile da Nello Governato, direttore sportivo della Lazio, che ne parla con il presidente Cragnotti, uno che di calcio verdeoro se ne intende eccome, e portato nella sponda biancoceleste di Roma.
5 anni di contratto. C’è voglia di credere in lui. Ma in quella Serie A si gioca un football completamente diverso: bisogna suonare in uno spartito, stare dentro certi schemi. Per i solisti c’è poco spazio.
Serve una visione, un’intuizione. Ad avercela è Roberto Mancini, che approda, giovanissimo, sulla panchina biancoceleste, nota le caratteristiche di Cesar e decide di sciogliergli le briglie: “Vai, corri, vai avanti, divertiti, fai ciò che sai fare meglio”.
La Lazio guadagna un formidabile esterno basso, capace di arare, è proprio il caso di dirlo, la corsia di sinistra, e di sfornare gol e assist a ripetizione. I tifosi lo ribattezzano “Cesaretto” e posso tornare a sognare di riportare la Roma biancoceleste di nuovo in vetta.
La visione del Mancio
È il 26 febbraio 2001, quando la Fiorentina annuncia l’approdo di Roberto Mancini sulla panchina viola, per sostituire l’esonerato Fatih Terim. Non ci sarebbe nulla di strano, soprattutto pensando a chi, già da calciatore, da fantasista, aveva dimostrato di avere visione e intuizione.
Si scatena un vero e proprio polverone. Non solo perché, all’inizio di quella stagione, Mancini era tesserato con la Lazio (e agli allenatori non è consentito di passare, a stagione in corso, da una squadra all’altra), ma soprattutto perché Roberto non è in possesso dell’abilitazione da allenatore rilasciata dal rinomato Centro Tecnico di Coverciano. C’è chi grida allo scandalo, chi parla addirittura di “morte del calcio italiano”. Il commissario straordinario della Federcalcio Gianni Petrucci dà il via libera, e il Mancio, dopo una manciata di panchine, vince subito un trofeo, sollevando la Coppa Italia dopo aver superato il Parma nella doppia finale.
Dopo il tracollo finanziario della società viola, il 1 luglio 2002 Mancini torna alla Lazio, dove in precedenza era stato splendido giocatore e poi pure vice di Sven-Göran Eriksson nell’anno dello storico Scudetto.
È una Lazio molto diversa, anch’essa vessata da enormi problemi finanziari (vedasi il crac Cirio), in cui lo stesso Mancini compare nel rigenerato consiglio di amministrazione, e costretta a ricostruire quasi da zero.
In rosa ci sono alcuni reduci del Tricolore, come Marchegiani, Favalli, Negro, Mihajilovic, Couto, Pancaro e Simone Inzaghi. Anche il Cholo Simeone è rimasto. Non c’è più il capitano, Alessandro Nesta, passato al Milan a vincere tutto. E ci sono diversi volti nuovi, nuove promesse del calcio italiano, come Liverani, Oddo, Corradi, Manfredini.
Nello scacchiere del tecnico di Jesi resta da coprire solo la corsia mancina. Il club, da più o meno tutta l’estate, è in trattativa con il nazionale argentino Juan Pablo Sorin, ma non ha i soldi per pagare la prima rata al Cruzeiro di 3,5 milioni. La situazione si sblocca poco prima del gong di fine mercato, e la Lazio si assicura finalmente le prestazioni del giocatore, da 7 anni nel giro della Nazionale albiceleste.
Nel frattempo, però, Mancini in quel ruolo si è arrangiato. Le qualità di questo Cesar lo hanno colpito. L’anno precedente, in una stagione travagliata ma tutto sommato positiva, con la guida tecnica suddivisa tra Dino Zoff e Alberto Zaccheroni, il ragazzo ha avuto qualche problema di adattamento. Ma ha dimostrato di avere qualità. E Mancini ha l’intuizione giusta: lasciarlo libero di buttarsi in avanti, per sfruttare le sue capacità, sia tecniche che di corsa.
Il risultato è scritto negli almanacchi: Sorin a gennaio 2003 farà ritorno al Cruzeiro, dopo aver messo in mora il club biancoceleste per il mancato pagamento degli stipendi. Cesar rimane a Roma e si prende la titolarità inamovibile del ruolo.
Idolo della Nord
Una delle cose che colpiscono di Cesar è la facilità nell’arrivare al tiro e di fare gol, nonostante la posizione in campo non lo porti ad essere spesso in posizione favorevole per colpire.
La prima rete arriva in Champions League, contro il Benfica. Poi, dopo un brutto infortunio, il brasiliano rientra e decide la gara dell’Olimpico contro il Lecce. Il 4 aprile 2004 si scatena, e contro il Siena realizza addirittura una tripletta, portandosi a casa il proverbiale pallone con le firme dei compagni.
Al termine della stagione 2003-2004 Mancini riporta la Lazio al successo, conquistando la Coppa Italia. Doppietta di Fiore all’Olimpico all’andata contro la Juve, clamorosa rimonta al ritorno al Delle Alpi, con Corradi e ancora Fiore dopo il doppio vantaggio bianconero di Trezeguet e Del Piero.
Cesar gioca titolare entrambi le finali, nell’inedito ruolo ritagliato su misura per lui da mister Mancini: quello di esterno alto, o nel 4-4-2 o addirittura nel 4-3-3, con Favalli a coprire alle sue spalle.
Ma per entrare stabilmente nel cuore dei tifosi romani, chiunque abbia vestito le maglie di una delle due squadre della capitale sa che c’è un solo modo: segnare nel derby.
Il 6 gennaio 2005 l’Epifania contrappone di fronte proprio Lazio e Roma. I biancocelesti sono in netta difficoltà: Mancini non c’è più, e anche il sostituto Domenico Caso è durato appena 16 giornate. Ora tocca a Giuseppe Papadopulo provare a salvare la squadra dall’abisso (ci riuscirà solo nel finale). La Roma di Delneri non se la passa tanto meglio, ma galleggia nella parte sinistra della classifica e davanti può contare sul talento di Totti e Cassano.
Lazio con il 4-4-2. Il totem Peruzzi in porta, linea difensiva composta da Oddo, il riadattato Giannichedda, Talamonti e Emanuele Filippini. A centrocampo l’altro dei gemelli Filippini, Antonio, insieme a Liverani, Dabo e Cesar. Davanti Rocchi e Di Canio, tornato in biancoceleste per salvare, da condottiero, la propria squadra del cuore.
L’ex West Ham sente la partita e suona la carica ai suoi, indossando una maglietta in cui campeggia la scritta: “Ci sono due modi per tornare da una battaglia: con la testa dell’avversario o senza la propria”. Proprio lui sblocca il match alla mezzora, con tanto di esultanza provocatoria sotto la nemica Curva Sud giallorossa.
La Lazio tiene, ma tra qualche scaramuccia e una sospensione per copioso lancio di fumogeni in campo, a metà ripresa Peruzzi esce male su un cross di Amantino Mancini, e viene anticipato da Cassano che fa 1-1. Un pari che alla Roma andrebbe pure bene, visto l’andamento della gara, e che ai biancocelesti, invece, non serve a nulla.
Passano 6 minuti dal blitz del talento di Bari Vecchia, quando un lancio lungo spiove in area giallorossa. Di Canio tenta un controllo improbabile, con la palla che arriva sulla sinistra dove c’è Cesar. Il brasiliano conta i rimbalzi, tiene la spalla bassa e fa partire un fendente mancino sul quale Pelizzoli nulla può. Balletto, e poi via, a esultare sotto la Nord, ora definitivamente ai suoi piedi. Rocchi chiuderà poi la partita, per una vittoria che sarà decisiva nell’economia stagionale della squadra.
Il freddo di Milano
Fin dal suo approdo sulla panchina dell’Inter, Roberto Mancini è chiamato a risolvere l’enigma del terzino sinistro. Una specie di maledizione per i nerazzurri, un po' come il post-Schmeichel per il Manchester United. Dopo l’addio troppo repentino dato a Roberto Carlos, troppi sono i giocatori che la Beneamata ha alternato nel ruolo.
Ma il Mancio ha la soluzione, e a gennaio 2006 convince il presidente Moratti a comprargli il suo pupillo, Cesar Aparecido. Ad Appiano Gentile, oltre al proprio mentore, il ragazzo trova altri vecchi amici dei tempi della Lazio: da Sinisa Mihajilovic a Dejan Stankovic, passando per Beppe Favalli. Il clima, quello sì, è decisamente diverso, dalla soleggiata Roma alla neve di Milano. Stessa cosa dicasi per le ambizioni del club, che punta a tornare a vincere uno scudetto che manca dai tempi di Trapattoni.
In nerazzurro Cesar ha l’occasione di giocare in una squadra fortissima, ricca di talento, e di vincere ancora: Scudetto e Coppa Italia. Ma le presenze sono poche, complice anche qualche infortunio di troppo.
Due prestiti, prima al Corinthians poi al Livorno. Quindi ancora in nerazzurro, con la fiducia rinnovata di mister Mancini, che lo inserisce anche nella lista Champions. Giusto in tempo per vincere un altro scudetto, prima di andare a chiudere la propria carriera da professionista al Bologna, per poi sposare il progetto Pescina, in Serie C.
Il post carriera di Cesar è un susseguirsi di nuove avventure, di sperimentazioni. Nel 2018 entra a far parte della squadra di calcio a 8 (o Calciotto, che dir si voglia) della Lazio, tornando a vestire il tanto amato biancoceleste. Prima ancora l’avventura nel beach soccer con il Terracina, in quel gioco che tanto gli ricorda i tempi dell’infanzia, a San Paolo, in Brasile.
Contemporaneamente si forma come allenatore giovanili, alla Lazio, al Frosinone e in altri club laziali.
Per essere, chissà, magari un giorno lui il Roberto Mancini del prossimo Cesar Aparecido.
Racconto a cura di Fabio Megiorin