Pippo Maniero, il veneto che segnava (quasi) ovunque
Filippo Maniero, più semplicemente Pippo, non era un protagonista da prime pagine, eppure c’era sempre. A Padova, a Venezia, a Palermo. Nel calcio italiano degli anni ’90 e primi 2000, il suo nome compariva con costanza nei tabellini, nelle radiocronache, nei racconti del lunedì mattina. Era un attaccante di provincia con i numeri da grande.
Un centravanti vero: ruvido, concreto, con il fiuto del gol e poco interesse per la scena. Ha costruito la sua carriera con mestiere, lucidità e una forma rara di continuità.
Radici venete e fame di gol
Filippo Maniero nasce a Legnaro, in provincia di Padova, l’11 settembre 1972. Figlio di un operaio dell’Enel, cresce in una famiglia semplice, abituata a vivere in modo essenziale. Da suo padre impara una lezione che lo accompagnerà per tutta la vita: mai fare il passo più lungo della gamba. La applicherà anche nel calcio, ma anche fuori: era uno dei pochissimi calciatori a non dilapidare il proprio patrimonio in auto di lusso e serate mondane, e la sua capacità di tenere sempre la testa sulle spalle gli consente ancora oggi di vivere una vita senza pensieri grazie ai suoi risparmi insieme alla moglie Elisa, con cui forma coppia fissa fin da quando aveva 19 anni.
Ma torniamo negli anni ‘90: Pippo comincia la sua carriera nelle giovanili del Padova, e dopo un passaggio a Bergamo e Ascoli torna a casa, giusto in tempo per contribuire al ritorno dei biancoscudati in Serie A nel 1994, dopo 32 anni. Non è un giocatore di copertina, ma è subito decisivo. Ha una presenza concreta, segna, corre, si sbatte. All’Euganeo imparano presto a conoscerlo.
A Padova, tra i compagni di squadra con cui lega di più, c’è Alexi Lalas, il difensore americano con la barba da rocker e una chitarra nella valigia. Gli anni ’90 sono così: tra un tackle e un jingle di Mai Dire Gol, si gioca un calcio così fuori dalle righe che ancora oggi il suo ricordo non ci abbandona.
Atalanta, Milan e il salto che non basta
Dopo Padova, Pippo fa il salto. Passa per Genova (alla Samp), Verona, una breve parentesi al Parma. Ma il nome che pesa è quello del Milan.
Sbarca in rossonero nel 1998, in uno spogliatoio dove ci sono Weah, Maldini, Savicevic, e l’aria è rarefatta. Pippo segna tre gol in campionato ma gioca poco. Milano non è fatta per i centravanti silenziosi. Capisce che per lui servono piazze che lo mettano al centro. E riparte.
Il tempo d'oro: Venezia e Palermo
L’estate del 1998 è il momento in cui tutto sembra allinearsi. Il Venezia è appena tornato in Serie A, e il presidente Maurizio Zamparini ha ambizioni alte: affida la squadra a Walter Novellino e la rinforza con innesti mirati. Tra questi, Filippo Maniero, che arriva in laguna con il peso — e la promessa — del gol.
L’inizio è disastroso: a metà campionato, il Venezia è penultimo. Ma Zamparini, contro la sua futura fama di mangia-allenatori, sceglie la pazienza e conferma Novellino. E soprattutto, porta in prestito dall’Inter Álvaro Recoba. L’uruguaiano e Maniero si capiscono subito, alla prima palla. Recoba inventa, Pippo finalizza. Anni più tardi Maniero descriverà così il suo rapporto con El Chino ai microfoni del Corriere del Veneto:
“Non ci conoscevamo, ma sembrava che giocassimo insieme da anni già dai primi allenamenti. Io sapevo esattamente dove mi avrebbe messo la palla. E con lui accanto segnai tantissimo e riuscimmo a salvare il Venezia, portandolo a raggiungere una delle posizioni in classifica migliori della sua storia”
I due cambiano il volto della squadra: a suon di gol e giocate, il Venezia si salva con largo anticipo e chiude undicesimo, la miglior stagione in A della storia recente del club.
A Venezia, Maniero vive gli anni migliori della sua carriera. L’anno dopo, nonostante la partenza di Recoba, segna comunque 9 gol, anche se il Venezia retrocede. Zamparini chiama Cesare Prandelli in panchina e compra Arturo Di Napoli: nasce una nuova coppia, un nuovo equilibrio. L’intesa funziona, il Venezia risale subito in A. E l’anno dopo Maniero è ancora protagonista: 19 gol stagionali, ma la squadra non regge il passo. Arriva una nuova retrocessione, e Zamparini decide di fare l’impronosticabile: sposta in blocco la squadra a Palermo.
Maniero lo segue. A 31 anni, è il centravanti designato per riportare i rosanero in Serie A. Segna 13 gol, è ancora determinante. Ma la squadra chiude solo sesta. Zamparini rivoluziona tutto, e per Pippo è tempo di cambiare ancora: va al Brescia, per fare spazio a un certo Luca Toni. Sembra un passaggio di consegne. Ma per Maniero è anche il regalo di un’altra maglia pesante e una nuova occasione.
A Brescia ritrova la Serie A e si ritrova compagno di squadra di Roberto Baggio. I due fanno le traversate da Vicenza insieme, in macchina, parlando in dialetto. Ma gli anni cominciano a farsi sentire: Gianni De Biasi gli preferisce presto Andrea Caracciolo, e Pippo scivola in panchina.
La discesa e l'addio
Nel 2004 passa al Torino, con l’ambizione di riportare i granata in Serie A. Segna 6 gol, ma è chiuso da Marazzina e Quagliarella. Il Toro arriva secondo, ma il fallimento societario li esclude dal campionato successivo. Maniero ha 33 anni. Accetta l’offerta più affascinante: quella dei Rangers di Glasgow.
In Scozia lo paragonano a Marco Negri, vecchio bomber italiano di culto in casa Rangers. Ma l’avventura si spezza sul nascere. La moglie Elisa, con il figlio piccolo, fatica ad adattarsi, e Pippo stesso non riesce a entrare nei piani dell’allenatore Alex McLeish. Non gioca nemmeno una partita ufficiale. Dopo 40 giorni fa le valigie.
“È lì che si è conclusa la mia carriera. L’unica scelta calcistica che cambierei”
Rientrato in Italia, gioca nei dilettanti: Piovese, Legnarese, Casalserugo. Fa anche il vice allenatore. Ma un brutto infortunio al ginocchio ne rallenta il passo. Si ritira definitivamente nel 2010.
Amarcord – Pippo, il gol e gli anni Novanta
Rivedere oggi Filippo Maniero in azione è come riaprire una finestra su un calcio che non esiste più.
Un calcio fatto di maglie pesanti, tutti gli stadi pieni alle 15 di domenica e capelli spettinati. Era un’epoca strana e affascinante, quella degli anni ’90. Dove accanto ai campioni convivevano personaggi improbabili, centravanti con la maglia fuori dai pantaloncini e difensori che sembravano usciti da un romanzo di provincia.
C’erano le figurine Panini e i telecronisti che storpiavano i nomi dei calciatori stranieri - ancor più di oggi! E poi c’erano le domeniche in cui Baggio decideva le partite con tocchi che sembravano carezze divine. In mezzo a tutto questo, c’era anche Pippo Maniero. Non faceva magie, ma segnava. Tanto. E spesso nei momenti che contavano.
Perché Maniero era uno che, quando il cronista gridava il suo nome, ti faceva dire: “Allora oggi segniamo.”
Racconto a cura di Andrea Possamai