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Lettera da Zaandam

Il destro di Koeman, al minuto 112 della finale di Wembley, cancella il sogno Champions della Sampdoria. E fa calare il sipario su una delle squadre più forti che il nostro calcio abbia mai conosciuto.
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Sampdoria Barcellona 1992 - Illustrazione Tacchetti di Provincia

È il 1991 quando i fratelli Vittorio e Aldo De Scalzi entrano nell’ufficio di Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria fresca vincitrice del campionato di Serie A, e notano, appena dietro la scrivania, la foto della celeberrima Sirenetta di Copenaghen adornata di una sciarpa blucerchiata.

Quell’immagine dà loro l’ispirazione per scrivere una delle canzoni più romantiche dedicate ad una squadra di calcio: “Lettera da Amsterdam”. In cui si immaginano le parole di un tifoso sampdoriano costretto ad un esilio forzato, e che da distante continua a seguire le favolose (in quegli anni in particolare) gesta della propria squadra del cuore.

Il perché i fratelli De Scalzi abbiano scelto Amsterdam come scenografia di questo forzato esilio è più banale di quanto si possa immaginare: “scrivendola ci è venuta meglio con ciminiere e tulipani”.

Il 21 marzo 1963, letteralmente a due passi dalla stessa Amsterdam, per la precisione a Zaandam, nasce Ronald Koeman. 29 anni più tardi, mercoledì 20 maggio 1992, intorno alle 22:30, ora londinese, dal piede destro dello stesso Koeman parte non una lettera, ma bensì una mortifera saetta, destinata a non lasciare scampo nemmeno a un portierone come Gianluca Pagliuca, e a spezzare per sempre, ironia della sorte, i sogni di tutto il popolo blucerchiato.

Siamo a Wembley, quello delle due torri, non ancora quello dell’attuale arco, e si sta giocando la finale di Coppa dei Campioni. Sarà la prima alzata al cielo dal Barcellona, proprio grazie al gol del centrocampista olandese, reinventato “difensore centrale con visione” dal genio di Johann Crujiff. Sarà l’ultimo atto di una delle più belle squadre mai viste nel calcio italiano: la Sampdoria di Vujadin Boskov

La fine della grande Samp

Al termine di quella finale da Genova partirà, con biglietto di sola andata, sia Gianluca Vialli, il bomber principe della squadra, uno degli attaccanti più completi nella storia del calcio italiano e membro, insieme a Roberto Mancini, di una delle più formidabili coppie-gol della nostra serie A, paragonabile, per affiatamento e sintonia, solo ai veri gemelli Pulici e Graziani. Se ne andrà alla Juve, il buon Gianluca, dove avrà una seconda chance di alzare quella coppa dalle grandi orecchie, stavolta sfruttata appieno, da capitano, sotto il cielo di Roma 5 anni dopo quella notte londinese.

Ma partirà con identico biglietto di sola andata, direzione Roma Giallorossa, anche Vujadin Boskov. Il vero artefice di quella splendida creatura. Un vero mago, capace di portare una illustre provinciale come la Sampdoria a livelli mai raggiunti prima, fino a guadagnarsi personalmente una seconda chance, di vincere quella Coppa che anni prima aveva perso, sempre per 1-0, guidando il Real Madrid (maledetto Liverpool!).

In un sol colpo il già citato presidente Paolo Mantovani vede sgretolarsi tra le mani il proprio gioiello. Il sesto posto finale, in quel campionato di Serie A, aveva già avvisato tutto l’ambiente che “lo spettacolo sta per terminare”. Quelle due partenze faranno scorrere, inesorabilmente, i titoli di coda su una squadra capace, in pochi anni, di conquistare non solo il primo Scudetto della propria storia, ma anche una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Italiana e ben due Coppe Italia.

Una macchina praticamente perfetta, i cui componenti del motore sono diventati quasi una filastrocca, nella sponda blucerchiata del porto di Genova, da ripetere all’infinito: “Pagliuca. Mannini, Vierchowood, Lanna, Katanec. Lombardo, Cerezo, Pari, Bonetti Ivano. ManciniVialli” (questi ultimi tutti attaccati, come fossero un nome unico).

La stagione 1991-1992 è uno dei più grandi “what if” del nostro calcio. Che ci lascia con l’eterno dubbio di cosa sarebbe diventata la Sampdoria se quel dannato tiro di Ronald Koeman si fosse, che ne so, stampato sul palo, permettendo ai blucerchiati di raggiungere gli agognatissimi calci di rigore.

Una coppa storica

La Coppa dei Campioni 1991-1992 è destinata a passare alla storia ancor prima di iniziare. È l’ultima edizione, infatti, con il vecchio format. Prima che interessi economici e televisivi intervengano a “stuprarne” la struttura, fino a renderla l’odierna Champions League.

Per l’ultima volta appare, tra le iscritte, il nome di una squadra della oramai defunta Germania Est: si tratta dell’Hansa Rostock, squadra da molti odiata per via delle frange neonaziste presenti nel proprio tifo, ma capace di vincere l’ultima DDR Oberliga, e di guadagnarsi dunque il pass per la massima competizione europea.

I campioni in carica della Stella Rossa vengono ammessi, ma con riserva, per via dei tumulti già presenti in molte parti della ora ex Jugoslavia: potranno difendere il titolo, secondo la regola voluta dall’ex presidente del Real Bernabeu, ma dovranno disputare lontano da Belgrado i propri incontri casalinghi. E togliere la Stella dal Marakana equivale, di fatto, a farla giocare zoppa.

Le esordienti sono due: il Kaiserslautern, che venderà carissima la propria pelle, e la Sampdoria, appunto. Ultima Cenerentola prodotta da un calcio italiano arrivato ai massimi livelli, e capace di far primeggiare, in patria e fuori, non soltanto le solite note Inter, Juventus e Milan, ma pure squadre come il Napoli, il Torino, l’Atalanta e la Doria, vincitrice di uno storico scudetto l’anno precedente.

Gli scommettitori dell’epoca faticano a puntare i propri risparmi sui blucerchiati. Le favorite infatti sembrano due: l’Arsenal, dominatore del campionato inglese, e il Barcellona, forte di quello che da molti viene definito come un “Dream Team”

Il Dream Team

E senza scomodare paragoni cestistici, possiamo a tutti gli effetti definirla una Squadra da Sogno.

In panchina c’è nientemeno che Johan Crujiff: un genio che il buon Dio ha mandato sulla Terra per cambiare, prima con la palla tra i piedi, poi con in mano lavagna e gessetto, per sempre il modo di concepire il gioco del calcio. In rosa i blaugrana, per provare finalmente ad uscire dal semianonimato europeo e inseguire il primo successo nel trofeo più prestigioso del mondo, hanno di fatto preso i migliori calciatori in circolazione.

Soprattutto nel reparto offensivo, dove spiccano i nomi del bulgaro Stoichkov e del danese Miki Laudrup, a cui Crujiff cuce su misura un abito in campo che oggi non esiteremmo a definire “falso nueve”.

Ci sono poi tanti giocatori cresciuti nel vivaio e destinati, in pochi anni, a dominare le scene europee. Come Josep Guardiola, Guillermo Amor, Txiki Begiristain, Julio Salinas.

Ma il Barça dei fenomeni rischia di uscire, tanto clamorosamente quanto ignominiosamente, già agli ottavi di finale, quando si ritrova a sfidare i tedeschi del Kaiserslautern. Il 2 a 0 del Camp Nou dà infatti un eccesso di confidenza a Guardiola e compagni, che al ritorno al Fritz Walter Stadion manca solo che si presentino con le macchine fotografiche e i cestini per la merenda. I tedeschi schiaffeggiano gli avversari fino al 3-0 di Goldbaeck, che varrebbe la qualificazione. Ma si arrendono a una deviazione galeotta in area di Salinas che evita ai catalani l’onta di un’eliminazione troppo repentina.

Nel girone successivo, valido per l’accesso alla finalissima, viene fuori la qualità del calcio dei blaugrana, che non fanno prigionieri e vincono 4 partite su 6, e volano a Wembley per giocarsi il titolo

Il volo blucerchiato

Molto più lineare, almeno in avvio di torneo, il cammino della Cenerentola Sampdoria, che scherza al primo turno con i norvegesi del Rosenborg, vincendo 5 a 0 a Marassi (con doppietta anche di un Beppe Dossena oramai separato in casa) e 2-1 a Trondheim, e passano, senza eccessivi patemi, anche il turno successivo, che li vedeva contrapposti alla sempre ostica Honved di Budapest (chiedere agli inglesi capaci di intendere, volere e provare emozioni a inizio anni ’50 gli effetti di cosa voglia dire “sottovalutare i magiari”).

Ma la vera impresa i ragazzi di Boskov la compiono nel successivo girone, dove riescono a primeggiare anche al cospetto di avversari come la Stella Rossa, campione in carica, l’Anderlecht e il Panathinaikos, due sorprese, forse, ma compagini comunque abituate, a differenza dei blucerchiati, a giocare con regolarità le competizioni europee.

L’altra grande favorita, oltre al Barcellona, ovvero l’Arsenal è uscita ancora nel turno precedente, contro il Benfica. E quindi il Doria a Wembley se la dovrà vedere con il Barcellona, in una sfida in cui mettono i brividi semplicemente titoli e copertina.

I blucerchiati arrivano a Londra forti però delle proprie consapevolezze, e della miglior coppia gol di tutto il torneo. Ovviamente Mancini-Vialli: 5 gol il primo, 6 il secondo (da molti indicato come possibile Pallone d’Oro in caso di vittoria), uno in meno dei capocannonieri della competizione, ovvero Sergej Juran, del Benfica, e Jean-Pierre Papin, del Marsiglia.

La finale di Wembley

Mentre Wembley canta il solenne “Abide with me”, come da tradizione, nel tunnel che conduce al terreno di gioco serpeggia un’impressione che accomuna le due squadre: che quella sia un’occasione più unica che rara.

Il Tempo darà torto ai catalani, che da quella sera inizieranno a primeggiare in Spagna ed Europa, fino a diventare una delle squadre più tifate ed ammirate dell’intero pianeta. Per la Sampdoria invece è verità nuda e cruda: non si ripeterà mai più un’occasione così.

Al fischio d’inizio i blucerchiati si accorgono subito di non poter fare la propria solita partita. Il Barça è semplicemente troppo forte, e, guidato dalla visione del proprio genio in panchina, inizia a tessere una trama di passaggi nello stretto che incanta il serpente blucerchiato, che deve pertanto stare attento a non uscire dal vaso, provando a pungere, magari con qualche ripartenza, nel più classico stile italiano.

Vujadin però la partita l’ha preparata molto bene. Ha spiegato ai propri ragazzi come si affronta una squadra come quella, e ne ha localizzato i punti di forza. La Samp si difende con ordine, e riesce a mantenere il clean sheet fino al 90esimo minuto, con un ringraziamento particolare al palo della porta di Pagliuca, che respinge un velenoso diagonale di Stoichkov.

Nei supplementari Boskov getta la maschera, e toglie uno stremato Vialli, sciupone in un paio di ghiotte occasioni, per inserire Renato Buso, dichiarando al mondo intero, che sta a guardare, la propria intenzione di trascinare il match fino ai calci di rigore, fino a quei fatidici 11 metri capaci però di appiattire qualsiasi tipo di gap tecnico-tattico.

Deve succedere qualcosa, affinché l’equilibrio si spezzi. E quel qualcosa purtroppo succede al minuto 112, quando il tedesco Aron Schimdhuber assegna un dubbio calcio di punizione di seconda per una presunta irregolarità, al limite dell’area, di Giovanni Invernizzi, intento a contendere il possesso al numero 11 catalano Eusebio.

Non si può calciare dritti verso la porta, ma la mente di Koeman ha già pensato alla tattica giusta. Un doppio tocco per aggirare il muro della barriera. Poi toccherà al suo piede destro, e sarà quel che sarà.

Il tiro che spezza i sogni blucerchiati è troppo perfetto per non finire in rete. 120 chilometri orari che appiattiscono la sagoma del pallone, rendendola imprendibile anche per il povero Pagliuca. Si dice, in Inghilterra, che le reti di Wembley abbiano un suono diverso rispetto a tutte le altre, quando vengono gonfiate dal pallone.

Quel suono sordo il popolo della Samp non lo dimenticherà mai. Come non dimenticherà mai quella triste risalita dei 39 scalini per andare a ritirare la medaglia degli sconfitti.

La lettera di Zaandam, calciata da Ronald Koeman, consegna alla gloria dell’eternità quella squadra e quegli interpreti. Rendendoli, insieme alle loro gesta, imperituri non solo per i tifosi del Doria, ma per tutti gli amanti del gioco del calcio

Racconto a cura di Fabio Megiorin

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