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Diego Armando Maradona, memento Maradona

Non esiste un prima e un dopo Diego Armando Maradona. Diego è materia viva, è presente. È in ogni calcio dato lungo le sponde di Rio de la Plata, nelle giocate dei suoi “eredi”, nelle notti dei bambini argentini che sognano di indossare la maglia della Selección. Viaggio senza tempo nella storia dei “diez”.
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Memento Diego Armando Maradona - Illustrazione Tacchetti di Provincia

21 giugno 1994, Foxboro Stadium di Foxborough, Massachussetts. È il sessantesimo minuto di Argentina-Grecia, esordio Albiceleste ai Mondiali di Usa 1994. Diego Armando Maradona riceve palla sul sinistro al termine di uno scambio “a un tocco” tra Balbo, Redondo e Caniggia al limite dell’area di rigore. La controlla, la sistema, calcia: gol. 

Lo stadio esplode, i tifosi Argentini saltano in piedi, il mondo intero esulta. A esplodere davvero, però, è la rabbia di Diego che, con gli occhi spiritati, corre verso la telecamera a bordo campo. È un’immagine che diventa, istantaneamente, prima pagina dei quotidiani di tutto il mondo. In quella foto c’è tutta la voglia di tornare ad essere determinante, la passione per il gioco, l’amore per la sua Argentina. Sul suo volto si vedono i segni di anni difficili, della sofferenza e, soprattutto, dei sacrifici che hanno reso possibile la sua convocazione a quel Mondiale, il quarto della sua carriera. Perché Maradona, per esserci, si è rintanato per mesi in una fazenda nella Pampa argentina con il suo preparatore Signorini, obiettivo recuperare il ritmo partita e perdere i kg di troppo accumulati.

Al minuto 83’ Diego lascia il campo. Al suo posto entra un giovane talento che ha già vinto tre titoli di Apertura con il River Plate e che, in Argentina, ha già fatto parlare tanto di sé. Quel cambio sembra un vero passaggio di testimone: il numero sette, che dietro la camiseta di Ortega accompagna l’uno per formare il diciassette, sarà presto sostituito dallo zero. Quella partita l’Argentina la vince 4-0 e nessuno, al fischio finale, sa che quello sarà l’ultimo gol di Maradona con la Seleccion.

Un paio di giorni dopo Diego è in hotel e sorseggia il suo mate quando gli viene comunicata la positività all'efedrina, considerata sostanza dopante negli USA. Viene immediatamente squalificato dal Mondiale, un mondiale che aveva sognato e che stava giocando regalando lampi di pura classe come nelle sue migliori stagioni. Quella con la Nigeria, in cui regala due assist a Caniggia per la vittoria Albiceleste, resterà, di fatto, la sua ultima partita con la maglia dell'Argentina. Con la sua squalifica, Ortega diventa titolare ma la Seleccion è troppo scossa e viene travolta dalla Romania. 

Fernando Redondo che di quella nazionale è il volante e che, nella sua carriera, più volte si era scontrato proprio con Diego per le loro visioni opposte del calcio, dirà: "Diego ti cercavo. E non riuscivo a trovarti. Tutta la partita ti ho cercato". 

Una ricerca che diventa l’argomento dominante in Argentina: tutti cercano un “nuovo Maradona” e Ariel Ortega, per tutti “el Burrito” (l'asinello), è il nome su cui si aggrappano le speranze di un popolo. Per gli argentini è sempre stato così, per un diez che tramonta, c'è un diez che sorge. 

Ai Mondiali di Francia 1998, Ortega è, quindi, l’uomo più atteso di una squadra ricca di talento. El Burrito guida l’Argentina incantando partita dopo partita. È sempre tra i migliori e segna anche una doppietta contro la Giamaica nei gironi. Il destino sembra voler fargli ripercorrere le orme di Diego: agli ottavi si rigioca Argentina-Inghilterra. Ora, a rivedere gli highlights di quella partita o, meglio ancora, la partita intera, vi renderete conto della peculiare genialità di Ortega. È una spina nel fianco inglese per tutta la gara. Dribbla con una facilità, un’irriverenza, una determinazione da risultare ipnotica. Beckham, tra tutti, ne fa le spese e al 47’ viene espulso. La lectio magistralis di tunnel, finte e giocate incredibili fa sognare gli argentini e, quando, al termine dei calci di rigore, l’Inghilterra è nuovamente sconfitta, sembra chiaro a tutti chi sia l’erede tanto ricercato.

Ma Ortega è maradonesco anche, e soprattutto, nelle difficoltà: ai quarti di finale contro l’Olanda rifila una testata a Van Der Saar e viene espulso, proprio come Maradona al primo Mondiale da protagonista, quello del 1982. Pochi minuti dopo, gli oranje, segneranno il gol della disfatta con un capolavoro senza tempo di Dennis Bergkamp. Il primo vero fallimento di Ortega in maglia Albiceleste non ne intacca la leadership. 

Ai Mondiali del 2002 ha nuovamente la possibilità di incantare il mondo, ancora una volta con la dieci sulle spalle. Alla vigilia della competizione l’Argentina è tanto brillante calcisticamente quanto disastrata dal punto di vista socioeconomico: la recessione del 2001 l’ha messa in ginocchio ma, se le finanze scarseggiano, il talento abbonda. Il popolo argentino ripone in quella spedizione le speranze di rivalsa, i sogni di un domani migliore. Sarà il peggior “fracaso” della nazionale argentina che uscirà ai gironi, trascinando la nazione e la carriera del Burrito nell’oscurità più profonda. Ortega comincia a peregrinare nel mondo alla ricerca di quella felicità smarrita, da tempo, infatti, combatte contro i demoni della depressione. 

C’è un articolo bellissimo di Stefano Borghi pubblicato su Ultimo Uomo che si chiama “Le apparizioni, le tristezze, i fantasmi”, in cui Borghi ne descrive così la parabola:” … E poi ancora su e giù, come un ottovolante sbronzo. Impegni e tradimenti…” Ortega non riuscirà più a ritrovarsi davvero. Il suo rifugio sicuro sarà l’alcol, zavorrando per sempre la leggiadria del suo talento che, inesorabilmente, non si esprimerà mai più al suo massimo. “C’è stato un momento della mia vita nel quale sono stato molto ribelle. Non so cosa mi sia successo, mi arrabbiavo con la vita e combattevo contro di essa. Avrei potuto vivere meglio il calcio: potevo allenarmi di più e allora avrei segnato, giocato e vinto di più. La mia vita è andata così. Siamo esseri umani e commettiamo degli errori.” dirà molti anni dopo in un’intervista che sembra quasi citare, inutile dirlo, Diego Armando Maradona. 

 

Rispetto per la Pelota

È il 10 novembre 2001 quando una Bombonera stracolma saluta, per l’ultima volta in campo, Maradona. È una parata di stelle: sul terreno di gioco ci sono nuove e vecchie glorie. Diego è imbolsito, cardiologicamente non al meglio, ma non perde occasione per chiamare palla e provare a dettare il gioco. 

Indossa la maglia Albiceleste fino al gol su rigore. Finirà la partita con la maglia del Boca, omaggio doveroso ad un club che ha amato e a una tifoseria, quelle Xeneize, che lo ha idolatrato come pochi altri. Con la stessa maglia, tra le lacrime, i “maradò” e le urla che arrivano dalle tremanti gradinate, Diego pronuncia le sue parole di addio. Ammette i suoi errori, le sue debolezze, le sue difficoltà senza nascondersi. Ne esce un discorso d’amore per il calcio che lo eleva allo stato dell’arte: “… se uno sbaglia, non deve farne le spese il calcio. Ho sbagliato e ho pagato. Ma la palla: la palla non si macchia”. 

 

Maradona, visibilmente commosso, saluta la casa del Boca compiendo quasi un rituale di passaggio: sulle spalle non ha la sua numero dieci ma quella di un ventenne che è già uno dei migliori prospetti della nazione. Il giovane in questione, giusto per certificare il peso di quel leggendario passaggio di testimone, oggi è il presidente del Boca Juniors e si chiama Juan Román Riquelme.

Quel “passaggio della dieci”, in realtà, non rappresenterà mai un passaggio diretto dell’eredità. Il talento di Román è indiscusso: già nella stagione successiva diventa titolare inamovibile e il suo, perché ne diventa ben presto il leader, Boca torna a vincere dopo anni di magra. Con la maglia “azul y oro” vincerà cinque campionati argentini, tre Libertadores, una Coppa Intercontinentale, una Recopa Sudamericana. Per questo motivo, se chiedete ad uno xeneize (cioè genovese, così sono chiamati i tifosi del Boca) chi sia l’idolo calcistico, risponderanno senza dubbio alcuno: “El Mudo”. 

Il suo nomignolo è già indicativo della profonda differenza tra Diego e Román: tanto irriverente, straripante, fuori dagli schemi il primo, così silenzioso, riflessivo, intimo il secondo. Due personalità fortissime totalmente agli antipodi nel loro manifestarsi. Le differenze, con tutte le proporzioni del caso, sono anche calcistiche: Diego era “un Diez” puro, fantasioso, votato all’attacco, Riquelme si pone in un solco molto sottile tra “volante” ed “enganche”. 

In Argentina si dice la “pelota siempre al diez” ed “El Mudo” è la rappresentazione vivente di questa filosofia di gioco. È un accentratore totale: quando è in campo non esiste azione che non parta dai suoi piedi. È un autentico plasmatore di gioco e, per definizione, è un giocatore letteralmente implasmabile. Non è, infatti, lui a doversi adattare al gioco ma il gioco a dover seguire le sue - parafrasando Jorge Valdano- “tortuose ma meravigliose strade panoramiche”. Sarà il dieci dell’Argentina ai Mondiali del 2006, ma la spedizione si concluderà con una nefasta lotteria dei rigori in favore della Germania, ennesimo fallimento di una generazione dal talento sconfinato che non è mai riuscita pienamente a realizzarsi. 

Calcio primordiale

È il 19 aprile del 1989, il Napoli si gioca l’accesso alla finale di Coppa Uefa contro il Bayern Monaco. All’andata è finita 2-0 per la squadra partenopea che, poi, quella coppa la vincerà. Nel riscaldamento prepartita Maradona inizia a palleggiare in mezzo al campo. Ha gli scarpini slacciati e il pantaloncino tirato un po' su. Nello stadio risuona un pezzo degli Opus che, da quel momento, diventerà colonna sonora dello spettacolo di Diego. 

"Then you all get the power
You all get the best
And everyone gives everything
And every song everybody sings
Then it's life
Live is life
Live is life”

Impossibile non cantarla, così come è impossibile non restare incantati dallo show dell’argentino. È una vera e propria danza in cui le sue articolazioni seguono le note con un ritmo perfetto scandito dalla palla come se fosse un metronomo. 

Diego, d’altronde, era diventato famoso già da bambino per questi mini-show. All’epoca era soprannominato “El Pelusa” per la folta capigliatura. Entrava in campo all’intervallo dell’Argentinos Juniors e cominciava a palleggiare tra lo stupore dei tifosi sugli spalti. Sprizzava passione da tutti i pori. Era calcio primordiale, puro, senza interessi: gioco, divertimento. 

“I grandi dribblatori che narcotizzano il pubblico con la loro abilità fanno disperare gli allenatori per la loro indisciplina tattica. Sono solitari e un po’ esibizionisti. Per questo preferiscono la fascia laterale: per allontanarsi dalla squadra e avvicinarsi al pubblico.” dice Jorge Valdano parlando di quella che, in Argentina e un po' in tutto il Sudamerica, è arte: “la gambeta”, il dribbling. Gli argentini creano soprannomi con la stessa velocità con cui sfornano empanadas. Hanno un nomignolo per tutto: persone, città, squadre, tifosi e, soprattutto, giocate. 

Una di queste, “la boba”, diventa il simbolo di Andrés D’Alessandro un altro “diez” del post Maradona. Andrés tocca la palla col sinistro fingendo di spostarla a sinistra per poi partire in direzione opposta, spesso con un tocco sotto. Maradona lo “benedice” prospettandogli un grande futuro ma i bassi della sua carriera supereranno nettamente gli alti. “El cabezòn” resterà un giocatore “da potrero”, troverà fortuna in patria ma fallirà il grande salto nel calcio europeo. Nello stesso periodo, a testimonianza di come la “fucina del fulbo” sia inesauribile nei pressi di Rio de la Plata, esplode il talento sconfinato di Pablo “El Payaso” Aimar.  Pablito cresce nel River di Ariel Ortega, Marcelo Gallardo, Matias Almeyda, Santiago Solari ed Hernan Crespo e la sua ascesa è contemporanea a quella dell’amico e rivale Riquelme. Indosserà per poco tempo la numero dieci dell’Argentina ma lascerà ricordi indelebili al River e in Europa, incantando le tifoserie del Valencia e del Benfica. Nel suo periodo argentino fa innamorare un ragazzino di Rosario. Il piccolo va a fare la spesa con il pallone tra i piedi e sogna di diventare un calciatore. Qualche anno più tardi, con la maglia blaugrana, si avvicinerà al “payaso” chiedendogli la maglia bianca del Valencia. Quel ragazzino, cresciuto a Rosario e diventato simbolo del Barcellona, si chiama Lionel Andrés Messi Cuccittini.

A sua immagine e somiglianza

Per descrivere quello che succede il 22 giugno 1986 non esistono parole migliori di quelle scelte dall’istinto del narratore di Victor Hugo Morales, “el relator”. Difficile poter capire le emozioni di chi, alle 16:12 (orario argentino) di quel giorno è allo stadio o davanti al televisore. In dieci minuti Maradona annichilisce l’Inghilterra con quello che è stato definito come “el gol del siglo”. Pochi minuti prima, con un gesto di estrema furbizia, aveva accompagnato la palla dell’uno a zero con un tocco di mano in salto. Quel gol arriva alcuni anni dopo il conflitto anglo-argentino per le Malvinas/Falklands e, per i sudamericani, diventerà il simbolo della “rivincita”. 

L’intera sfida è pura letteratura tanto che Andrés Burgo ne ha scritto un libro “La partita” pubblicato nel 2016 e tradotto proprio quest’anno da Fabrizio Gabrielli. Maradona guida il suo popolo sul tetto del mondo portando l’Argentina al suo secondo successo mondiale. Il “barrillete cosmico”, come lo ha definito Morales in quella indimenticabile telecronaca, da quel momento, diventa pura e autentica mitologia. 

È il 18/12/2022, Lusail Stadium, Qatar. Gonzalo Montiel è sul dischetto per calciare il rigore più importante della sua carriera. Una delle infinite telecamere della regia internazionale immortala Messi con lo sguardo al cielo mentre sussurra “Vamos, Diego, dáselo” (“Dai, Diego, daglielo”). 

Maradona è morto due anni prima. Pochi istanti dopo la palla si insacca e l’Argentina ritorna a vincere un campionato del mondo, l’ultimo era proprio quello del 1986. In quell’istante, talmente perfetto che per alcuni sembrava già scritto, Messi vede realizzarsi il sogno di generazioni intere cresciute nel culto di Diego e che, per anni, hanno visto crollare sogni e speranze, il più delle volte, ad un passo dalla storia. 

Per tutta la carriera ha evitato quell’unico paragone, il più naturale di tutti, eppure, anno dopo anno, sembrava crescere esattamente “a sua immagine e somiglianza”. Qualche anno prima aveva segnato di mano contro l’Espanyol. Aveva persino “replicato” il gol del secolo, dribblando un’incredula difesa del Getafe. Aveva seguito le orme di Diego giocando col Barcellona e diventandone il più grande giocatore della sua storia, bussando prepotentemente alle porte dell’Olimpo del calcio. 

Ai quarti di finale, contro l’Olanda, aveva mostrato a tutti quella capacità di essere capopopolo che spesso gli era stata stupidamente ed erroneamente messa in dubbio. In semifinale, contro la Croazia, Victor Hugo Morales ne aveva coniata un’altra delle sue definendolo “Arlecchino meraviglioso”.  In quel momento, a terra, con le mani sul volto, un attimo dopo quell’invocazione, c’è la rappresentazione più pura della mistica argentina, la chiusura di un cerchio che non poteva chiudersi diversamente. 

La storia insegna, la storia si ripete

C’è un video dei primi anni ’70 in cui un giovane Maradona, all’epoca nelle giovanili dell’Argentinos Juniors, dichiara che il suo sogno è vincere con il suo club e, soprattutto, giocare una Coppa del Mondo.

"Quando Messi si ritirerà dalla nazionale non permetteremo a nessun altro di indossare il numero 10. Il numero sarà ritirato a vita in suo onore. È il minimo che possiamo fare per lui" dichiara a gennaio 2024 Claudio Tapia, presidente della Federazione Calcio Argentina. 

Il 25 Aprile 2024, Franco Mastantuono, al debutto assoluto in Copa Libertadores, diventa il più giovane marcatore della storia del River nella competizione. “La nueva joya”, come lo chiamano a Buenos Aires, ha solo 16 anni quando riceve palla al limite dell’area, “pisa la pelota con la zurda” come dice il commentatore argentino, per poi calciare incrociando. Con lui gioca un altro giovane argentino che, ancor prima di compiere diciotto anni, è stato messo sotto contratto dal Manchester City: “el diablito” Claudio Echeverri. 

Il 14 luglio 2024 Messi conquista la sua seconda Copa America. Quelle che sta regalando con la maglia dell’Albiceleste e negli Stati Uniti sono le ultime meraviglie del suo genio.

Il 16/10/2024 l’Argentina batte 6-0 la Bolivia nella gara di qualificazione ai mondiali. Messi è autore di ben tre gol. “Il futuro? Non ho fissato una data o scadenza. Sono più emozionato che mai di essere qui, perché so che potrebbero essere le ultime partite qui.” dichiara ai microfoni dopo la gara. 

Nella stessa partita esordisce in nazionale un giovane trequartista che in Italia stiamo imparando a conoscere bene. Il suo nome è Nicolás Paz Martínez e anche lui, come i predestinati, realizza un assist alla sua prima assoluta. “Adesso ha debuttato Nico Paz, che ha tantissima qualità e spero che continui a crescere. Non era nato quando ho debuttato in Prima Divisione, sì, lo sapevo... Ha una testa impressionante, capisce perfettamente la partita e spero che continui così.” risponde Leo alla domanda sul suo giovane compagno. 

È, letteralmente, la cronistoria di un difficile addio: l’eredità di Messi è un fardello “difficile da condurre al Monte Fato”. È il ripetersi di una storia già vista, che ci riporta al 1994, a lui, sempre a Diego. Alla sua ultima presenza con la nazionale, alle speranze di un popolo che ricercava il nuovo “messia” e al sogno del giovane “pelusa”. 

Quel sogno è lo stesso di chi ora si affaccia nel calcio che conta, di che è cresciuto con la leggenda di Maradona ma guardando le imprese di Messi, di chi ha passato le giornate ad emularne qualsiasi aspetto delle sue giocate. È il sogno di Claudio, Franco, Nico e di chi calca i potreros bagnati dal Rio de la Plata sognando che la maglia numero dieci non sia mai ritirata e, soprattutto, di indossarla, con “el sol de mayo” sotto la mano, sul petto, gridando “Oíd, mortales, el grito sagrado”.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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