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Pablo Aimar, giocare divertendosi

Un antidivo, una leggenda indimenticabile. Pablo Aimar regalava gioia e stupore. Un diez cresciuto all’ombra di Maradona, un idolo per le generazioni successive, un monumento del calcio argentino.
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Pablo Aimar - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Non sono altro che un mendicante di buon calcio. Vado per il mondo col cappello in mano, e negli stadi supplico: «Una bella giocata, per l’amor di Dio» diceva Eduardo Galeano in Splendori e miserie del gioco del calcio. La giocata è quel momento che vale il prezzo del biglietto, che emoziona, stupisce, fa sognare. La storia del calcio è piena di talenti che hanno fatto di quel momento magico la propria religione.

Pablo Cesar Aimar è stato, di questi, uno dei talenti più belli e autentici, uno di quei giocatori capaci di coniugare l’arte allo sport (e viceversa). Non è un caso che, nel corso della sua carriera, è stato soprannominato prima “El Payaso”, poi, “El mago”.

Il pagliaccio (come lo aveva soprannominato da ragazzino Quique Gastañaga del Clarín) e il mago (apodo dato dai tifosi del Benfica durante la sua parentesi portoghese) due figure dello spettacolo capaci di far divertire, di intrattenere, di stupire e meravigliare.

Una generazione di fenomeni

Il panorama calcistico su cui si affaccia il giovane Pablo Aimar è l’Argentina dei primi anni ‘90, calcisticamente vedova del suo figlio più illustre, quel Diego Armando Maradona che, ad onor del vero, non ha ancora appeso gli scarpini al chiodo ma che è, ormai, un lontano parente del Pibe De Oro.

La stampa locale e internazionale, i tifosi, gli esperti di mercato sono alla ricerca, spasmodica, del nuovo crack della Selección e, a più riprese, l’etichetta di “nuovo Diego” viene attribuita a giovani promesse del calcio argentino. È un’etichetta pesante ma, l’Argentina, in quegli anni, sforna una quantità di talenti impressionante. Per intenderci: nel River Plate che tessera il Payaso militano Ariel Ortega, Marcelo Gallardo, Matias Almeyda, Santiago Solari, Hernan Crespo e, contemporaneamente, sull’altra sponda de La Boca, esordisce un giovane Roman Riquelme.

Il giovane Aimar indossa la casacca dell’Estudiantes di Rio Quarto e calca i potreros della città di Cordoba, sua città natale, quando Josè Pekerman, allora responsabile del settore giovanile dell’Albiceleste, ne rimane incantato dal talento. È un segno del destino. Lo convoca nella nazionale giovanile, prima ancora del suo esordio come professionista. Qui, viene osservato dagli scout del River Plate che tentano di metterlo sotto contratto. È una trattativa lunga un anno (con tanto di intervento della leggenda Daniel Passarella) quella che porta, finalmente, Aimar, a soli 17 anni ad esordire con la maglia dei Millonarios.

La squadra di Buenos Aires, guidata dalla eleganza proverbiale di Enzo Francescoli, ha appena alzato al cielo la Copa Libertadores incantando tutto il Sud-America con un gioco collettivo con pochi eguali nella storia. Sono gli anni del “paladar negro”, il palato fine, che i tifosi del River richiedevano a gran voce ai beniamini in campo. Vincere ma, soprattutto, giocare bene.

In questo contesto, il Payaso trova subito terreno fertile per esprimere il suo calcio che fa del dribbling, la gambeta, il suo credo. Pekerman, intanto, ne fa subito il perno della sua nazionale insieme all’altro astro nascente del calcio argentino: Juan Roman Riquelme. I due, senza mai entrare in competizione, guidano la Seleccion ad un trionfo assoluto al mondiale Under 20 del 1997. Nasce un rapporto di stima, di intesa, di amicizia profonda tra i due Diez.

Un legame che li porta ad essere, di lì in poi, rivali e amici. El Mudo indosserà la 10 del Boca, Aimar, dopo l’addio di Gallardo, quella, pesantissima del River. È un derby continuo che li vede contendersi non solo le principali competizioni calcistiche sudamericane ma anche le prime pagine.

Pablo, Roman e, anche, il Burrito Ortega si rimbalzano, in quegli anni, l’etichetta di “nuovo Maradona”. Spoiler: nonostante le dichiarazioni dello stesso Diego: "Pablo Aimar è il mio legittimo successore come miglior giocatore al mondo. Si diverte giocando, come facevo io", nessuno reggerà il confronto prima dell’avvento di Lionel Andrès Messi Cuccittini.

La gambeta come unico credo

"Le materie prime del dribbling sono la finta, la partenza, l’arresto, e poi via dove decide l’istinto e il coraggio da provarci. L’obiettivo è eliminare qualcuno: se ci riesce, si apre un orizzonte di spazi; se viene messo giù, c’è comunque un bottino di falli, rigori e ammonizioni; e se perde il pallone, deve sopportare le maledizioni e gli insulti della benedetta tifoseria." (Jorge Valdano)

Aimar è così, fa del divertirsi giocando, come dicevamo prima, un autentico leitmotiv della sua carriera, un monito marchiato a fuoco già nel suo nome di battesimo. Il padre, infatti, lo chiamò Pablo César Aimar, César come César Luis Menotti, autentico guru del calcio argentino, al centro, per anni, del dualismo con Bilardo. Entrambi avevano vinto il Campionato del Mondo con l’albiceleste e rappresentavano due anime vincenti ma totalmente diverse del calcio rioplatense: un giochisti contro risultatisti dell’epoca.

Aimar comincia quindi ad ubriacare le difese argentine, crea occasioni, dribbla, segna, dispensa palle geniali ai compagni e porta, in coppia con Javier Saviola, il River a vincere ben cinque campionati e l’ultima edizione della Supercoppa Sudamericana.

Il calcio che conta, però, è quello europeo e, a gennaio 2001, il “Payaso” decide di seguire le orme di Claudio Lopez e Mario Kempes, nati entrambi nella provincia di Cordoba, firmando con il Valencia. Prima ancora di parlare della sua carriera con i colori dei “Los Ches” (così sono soprannominati tifosi e giocatori del Valencia, un nome che deriva da un’esclamazione comune, un modo tutto valenciano di dire “Hey) prendetevi una decina di minuti, aprite YouTube e cercate “Pablo Aimar skills”.

Godetevi qualsiasi delle innumerevoli compilations di giocate che troverete sul motore di ricerca e, soprattutto, provate a contare il numero di tunnel che Aimar rifila ai suoi avversari. Fidatevi, è quasi impossibile. Aimar cerca costantemente il dribbling, destabilizza il difensore con un primo controllo disarmante, pensa in anticipo e orienta il pallone di conseguenza rendendo difficile ogni tentativo di contrasto. Il talento è direttamente proporzionale alla sua eleganza nel rettangolo verde.

In Spagna, sulle orme di Kempes

Al Mestalla, Pablo trova un Valencia reduce dalla cocente sconfitta in finale di Champions contro il Real Madrid, una squadra condotta dal generale Hector Cuper, allenatore tutto d’un pezzo che lancia subito Aimar nel suo undici titolare.

Anche in quella stagione, però, nonostante le ottime prestazioni del talento argentino, i sogni dei Murcielagos (dal pipistrello simbolo della squadra) si trasformano in incubi dopo la lotteria dei rigori contro il Bayern Monaco. Cuper, dopo due finali di Champions perse, si trasferisce all’Inter e, in Spagna, arriva un altro allenatore molto dogmatico: Rafa Benitez.

Sotto la guida di Benitez comincia, quindi, per Aimar, una lunga “catechesi” che lo porta ad essere più disciplinato nei suoi movimenti, a toccare meno la palla, a velocizzare le sue giocate. Il lavoro dell’allenatore madrileno dà i suoi frutti: il suo Valencia diventa una corazzata, una squadra con una solidità difensiva invidiabile, che brilla per estro dalla trequarti in su e che conquista dopo trenta lunghissimi anni il suo 5° campionato Spagnolo. Ma, per Aimar, non c’è tempo di festeggiare la Liga perchè, quella del 2002, è l’estate dei Mondiali.

È un Mondiale che si apre con i favori del pronostico perchè l’Argentina guidata da Marcelo Bielsa è, sulla carta, la Seleccion più forte di sempre. Succede, però, l’inaspettato: l’Argentina esce ai gironi. Un autentico “fracaso”, come lo definisce Javier Zanetti nel suo libro, di recente pubblicazione, “Un legame mondiale”.

"E’ un giocatore di quelli che non ti stanchi mai di vederlo giocare. Nella mia squadra giocherebbe sempre, perché il suo gioco entra a pieno titolo nel concetto di calcio che ho sempre difeso sull'applicazione della creatività per l'insieme” Dichiara Johan Cruijff in quegli anni"

In Spagna, infatti, Aimar continua a brillare: diventa il giocatore più importante della squadra, aumenta il suo bottino di goal e nella stagione 2003/04 vince Liga, Coppa e Supercoppa Uefa. È questo, l’ultimo vero momento di gioia nella sua carriera al Mestalla.

La stagione successiva è un disastro, Il Valencia perde l’identità calcistica data da Benitez e, guidata da Ranieri e Antonio Lopez (nominato allenatore ad interim dopo l’esonero dell’allenatore italiano), chiude il campionato al settimo posto. Con l’arrivo di Quique Sanchez Flores in panchina e l’acquisto di David Villa, le prestazioni di Aimar tornano ad essere determinanti. Sono gli anni, però, dei primi veri problemi fisici: una fastidiosissima pubalgia e varie problematiche muscolari lo tengono, spesso, lontano dal campo.

È in questo momento che, nonostante il Valencia ritorni ai vertici della Liga, che il Payaso decide di cambiare aria, complice anche l’ennesima, cocente, delusione con la maglia della nazionale. Al Mondiale 2006 l’Argentina è allenata da quel Josè Pekerman che lo aveva scoperto anni prima. La spedizione si chiude con la sconfitta contro la Germania in una partita in cui, il suo mentore Pekerman, decide di non schierarlo e di rinunciare, forse per la prima volta nella sua storia, a dominare il gioco. È il fallimento di una generazione, quella dei “figli di Pekerman”.

Aimar, resta, però, in Spagna dove rimane affascinato dal progetto del Real Saragozza, squadra che punta ad affermarsi e che, quello stesso anno, acquista Diego Milito e “Il Cabezòn” D’Alessandro, un altro argentino crollato, poi, sotto il peso dell’eredità di “nuovo Maradona”.

Il Saragozza gioca un calcio fatto di accelerazioni guidate dalla tecnica di Pablo che, pur giocando largo, è il metronomo del centrocampo, ha licenza di svariare nella metà campo avversaria smistando la palla ai suoi ritmi. Il progetto, però, si scioglie come neve al sole l’anno successivo quando si alternano ben 4 allenatori sulla panchina, lo spogliatoio si spacca completamente e Aimar è falcidiato dagli infortuni. Il risultato? Retrocessione. Comincia quindi l’esodo dei talenti del Saragozza e, a fare le valigie, tra questi, c’è anche Pablo.

Outro 10 Imortal

«Stavo per andare in Inghilterra quando Rui Costa, preso un aereo, va alla porta di casa mia e mi dice: "Vado in pensione, voglio che tu indossi la mia maglia". Impossibile restare indifferenti a questo gesto.»

Aimar diventa, quindi, il numero 10 del Benfica ereditando la maglia da un trequartista magnifico come Rui Costa. In Portogallo, dopo un’annata conclusasi al terzo posto sotto la guida del suo vecchio allenatore Quique Sanchez Flores, ritorna a regalare perle e a far impazzire i tifosi e, al suo secondo anno al Benfica torna a vincere un campionato.

Pablo Pablito Aimar

Que a glória voltará

Como Eusébio e Rui Costa

Outro 10 imortal

Così canta il Da Luz quando il diez è in campo. È un Benfica con una forte identità sudamericana quello che guida Jorge Jesus: accanto ad Aimar, giocano il suo vecchio compagno di squadra Saviola, la punta paraguaiana Oscar Cardozo e si assiste all’esplosione di David Luiz e di quella che sarà l’ala offensiva argentina più forte del XXI secolo, Angel Di Maria.

La squadra di Jesus gioca con un rombo di centrocampo in cui Aimar, da vertice alto, è un perfetto direttore d’orchestra. I tifosi, stupiti dai giochi di prestigio del loro numero 10, lo chiamano “O mago”, il mago.

È un giocatore maturo, nel pieno della sua carriera quando, nell’estate 2010 viene escluso dalla lista dei convocati per il Mondiale in Sud-Africa. Contemporaneamente, un altro argentino nel pieno della sua carriera professionale viene escluso dalla Selecciòn: è l’amico Juan Roman Riquelme. I due talenti più grandi di quella generazione, esclusi. La maglia numero dieci, senza competizione alcuna la indossa Lionel Messi.

Sulla panchina dell’Argentina siede Diego Armando Maradona. «Ci sono intangibili che possono essere riassunti, ma mai semplificati, sotto la parola mistica» scrive il quotidiano argentino Olè. E c’è, effettivamente della mistica: Maradona, idolo e “condanna” di Aimar e di tutta la sua generazione, esclude Pablo per favorire “l’ascesa” di Lionel Messi che, da sempre, ha indicato proprio Aimar come suo idolo indiscusso. La nazionale tonfa, ancora una volta ma, qui, nella storia della Albiceleste si apre un cerchio (alla chiusura ci arriviamo dopo).

Aimar rimane al Benfica per altre 3 stagioni. Saluta la Champions, che in carriera aveva sfiorato con il Valencia, giocando la sua ultima proprio contro l’inarrivabile Barcellona di Messi e decide, ascoltando i richiami del suo malandato fisico, di “monetizzare” il suo finale di carriera. Poco c’è da dire sulla sua parentesi in Malesia. Ritorna, quindi, al River dove, falcidiato dagli infortuni, riesce soltanto a salutare i suoi tifosi in una triste partita di addio. L’ultimo calcio di inizio lo dà con la maglia dell’Estudiantes de Rio Quarto, dove tutto era iniziato, come recita la maglia (naturalmente numero 10) che indossa.

La chiusura del cerchio

Il destino di Aimar è quello di un talento cristallino che è diventato leggenda ovunque sia andato ad insegnare calcio. Il lascito è l’umiltà, la semplicità con cui ha vissuto il calcio durante la carriera, dribblando avversari, complimenti e paragoni ingombranti che la stampa gli ha, spesso, attribuito. Aimar è un antidivo, un eroe crepuscolare (come lo definisce Stefano Borghi), tanto magico in campo quanto “normale” fuori dal rettangolo verde.

E il cerchio, quindi, quando si chiude? Il cerchio si chiude non sul campo ma, questa volta, in panchina. È il 26/11/2022, è il 64’ minuto di Messico-Argentina, seconda gara dei Mondiali in Qatar. Lionel Messi controlla la palla al limite dell’area e, con il mancino, realizza la rete del vantaggio Albiceleste.

In panchina viene inquadrato un uomo in lacrime. Quell’uomo è Pablo Aimar, vice commissario tecnico della nazionale Argentina che, quel Mondiale, finalmente, lo vincerà. E’ la realizzazione di un sogno di una intera generazione (sugli spalti si vedranno in lacrime i vari Zanetti, Samuel, Milito, Cambiasso, Sorìn, Crespo) che ha raccolto meno di quanto poteva e doveva ma che, giocando divertendosi, ha incantato il mondo.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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