Javier Zanetti, non si fermava mai
Cavalese, provincia autonoma di Trento, estate 1995. L’Inter è in ritiro pre-campionato. Da febbraio c’è un nuovo presidente. Il cognome è di quelli importanti nella storia nerazzurra: Moratti.
Il calciomercato è nel vivo e il nuovo patron interista ha già ufficializzato diversi colpi: Paul Ince, Roberto Carlos, Sebastián Pascual Rambert- capocannoniere del campionato argentino- e un giovane terzino di Buenos Aires. Si chiama Zanetti, ma in Argentina lo chiamano tutti “Pupi”.
L’uomo più atteso di tutti è Rambert, i giornali ne parlano come una futura stella del calcio e la presentazione sulla Terrazza Martini non fa che aumentare le aspettative. Quel giorno, accanto a lui, con i capelli perfettamente pettinati c’è anche Zanetti. La maggior parte dei tifosi non lo conosce. È arrivato per volontà di Moratti che se ne è innamorato dopo aver visto una videocassetta dei Giochi Panamericani su consiglio di Angelillo, storica leggenda nerazzurra.
Mister Ottavio Bianchi guida la squadra in ritiro. Il suo fischietto comanda un esercizio di possesso palla. Il giovane “Pupi” gioca con una sicurezza e una grinta rari per un esordiente. Nessuno riesce a togliergli il pallone. “Lo zio” Bergomi, capitano e leader indiscusso di quella squadra, ne resta stupito: “quel giorno ho capito che poteva fare la storia dell’Inter”, dirà anni dopo. Diego Armando Maradona, qualche giorno prima, aveva commentato così la notizia del suo arrivo in Italia: “sarà il miglior acquisto dell’anno”. Bergomi, durante quel singolo esercizio di possesso, capisce che Diego ha, probabilmente, ragione.
I sogni son desideri
“Pupi” Zanetti cresce sui potreros La Liscia e Disneylandia. Il primo caratterizzato, come sottolinea il nome, da un terreno liscio. Il secondo da ciottoli. Sono entrambi ubicati a Dock Sud, il quartiere periferico dove vive la famiglia Zanetti. Disneylandia, in particolare, è un vero e proprio campo “di barrio”. Ci troviamo a Dock Sud, periferia di Buenos Aires. Sono stati proprio un gruppo di genitori del quartiere a costruirlo per far giocare i propri figli. Tra questi, Rodolfo, il papà di Javier.
Quando i ragazzini giocano, nei fine settimana, Disneylandia diventa autentico luogo di celebrazione della cultura argentina: “familia, fùtbol, asado”, non necessariamente in quest’ordine. Il piccolo Zanetti è un bambino modello: studia, è curioso di imparare, è vivace ma educato, è caparbio in ogni sua attività. Quando gioca commenta ad alta voce ogni sua azione, come un cronista vero e sogna di indossare la maglia di uno dei club più importanti della zona: l’Independiente.
Dock Sud è, infatti, collocato nel Partido de Avellaneda. Nella zona esistono principalmente due credi: Independiente e Racing. “Los rojos” contro “l’Accademia”, La doble visera (come è soprannominato lo stadio dell’Independiente) contro “El cilindro” (quello del Racing). Due mondi, separati letteralmente da soli duecento metri. Zanetti sogna di emulare la carriera di Ricardo Bochini, storico centrocampista dell’Independiente e autentica leggenda del calcio argentino.
“Pupi” diventa un giocatore delle giovanili della sua squadra del cuore ma il sogno di diventare un calciatore sembra finire sul nascere: a diciassette anni viene escluso dalla squadra perché troppo gracile, poco strutturato. “Non diventerà mai un vero professionista” dice un funzionario della squadra alla famiglia Zanetti. Quella doccia fredda segna, per un solo anno, l’abbandono del sogno della sua vita. “Pupi” inizia a lavorare con papà Rodolfo al cantiere. Carica, scarica, trasporta senza sosta sacche di cemento. Si irrobustisce, cresce e comprende ancor di più il valore del lavoro e del sacrificio. È però il fratello, Sergio, a spingere per il suo ritorno nel mondo del calcio. Lo presenta al Talleres, la squadra che ha appena lasciato, chiedendo di fargli un provino.
Dopo la selezione il mister Norberto D’Angelo lo “battezza” per la prima volta come “Pupi”: il nomignolo, appartenuto al fratello, è necessario a distinguerlo dagli altri quattro Javier presenti in squadra. Zanetti diventa un giocatore del Talleres. Remedios de Escalada diventa per Javier la città del destino: è qui che riceve il suo primo soprannome, che conosce Paula -sua futura e attuale moglie- e che esordisce nel calcio professionistico in seconda divisione argentina. In Argentina ci resterà solo tre anni: dal Talleres passerà al Banfield e, poi, partirà alla volta dell’Europa, destinazione Milano.
Dal trionfo all'abisso
Il 6 Maggio 1998 al Parc de Princes di Parigi si gioca la finale di Coppa Uefa. È una finale tutta italiana tra Inter e Lazio. Zanetti è ormai un punto fermo della formazione nerazzurra. Sulla panchina siede il mai dimenticato Gigi Simoni, allenatore di esperienza e umanità fuori dal comune.
La gara inizia subito con il piede giusto per la squadra di Milano: al 5’ del primo tempo Zamorano segna il gol del primo vantaggio interista. È una gara a senso unico quella che si svolge in Francia e Ronaldo è l’autentico mattatore della serata. Al 60’ della ripresa, su una punizione poco precisa dello stesso Ronaldo, Zamorano rimette in gioco una palla destinata ad uscire. Il pallone rimbalza al limite dell’area. Zanetti ci si avventa. “Il destro fiondato all’incrocio dei pali di Zanetti. Un gol da antologia” grida l’indimenticabile Bruno Pizzul. Il resto è storia.
L’Inter vincerà per 3-0 e il terzo gol sarà una ciliegina sulla torta confezionata dal “Fenomeno” a tu per tu con Marchegiani. “Pupi” conquista il suo primo trofeo con una squadra di club e l’Inter rilancia il suo nome in vetta ai vertici del calcio italiano ed europeo.
Quel trionfo, però, non è altro che l’anticamera di un abisso che non tarderà molto ad arrivare. Sulla panchina nerazzurra comincia a ballarsi un valzer che porta ad alternarsi, in soli tre anni, ben sei diversi allenatori: Simoni, Lucescu, Castellini, Hodgson, Lippi e Tardelli. Il presidente Moratti, che fino a quel momento le aveva provate tutte per tornare a vincere in Italia, trova in Hector Cuper l’uomo di fiducia, il sergente di ferro capace di rinforzare una spina dorsale troppo fragile per reggere le responsabilità delle partite che contano.
L’Inter del tecnico argentino conduce in testa alla classifica gran parte della stagione 2001/2002 e, da prima della classe, arriva anche all’ultima giornata di campionato. È il 5 Maggio 2002, e l’Inter affronta la Lazio in un clima surreale: si sente aria di festa ma, allo stesso tempo, la tensione è altissima. I nerazzurri non sono lontani dalla Juventus e dalla Roma che inseguono a brevissima distanza. I biancocelesti temono un eventuale ribaltone che porterebbe lo scudetto nella sponda rivale della Capitale. È una partita strana quella dell’Olimpico. L’Inter passa due volte in vantaggio ma si fa riprendere in entrambe le occasioni. All’uscita dal tunnel per il secondo tempo, è evidente che c’è qualcosa che non va: la squadra è tesa, contratta, spaventata. Finirà 4-2 per la squadra di casa. L’Inter perderà lo scudetto, chiudendo il campionato al terzo posto dietro la Roma.
Quella stessa sera, a casa Zanetti, Paula prova a consolare Javier. “Pupi” è quasi livido in volto, lo sguardo spento, il sorriso momentaneamente a riposo. Il castello eretto da Cuper si è sciolto come neve al sole. Le lacrime di Ronaldo, inquadrato in panchina mentre piange disperato, sono le lacrime di tutto il popolo interista costretto a sprofondare negli abissi di una delusione marchiata a fuoco negli annali, una sconfitta che Zanetti vive con la fascia di capitano al braccio.
Resilienza
Se ascoltate le interviste di Zanetti, difficilmente ne troverete una in cui non pronuncia la parola “resilienza”. È un vero e proprio mantra il suo: è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Il culto del lavoro, del sacrificio, dell’esempio da dare ai compagni è una costante assoluta della sua carriera ma, anche, della sua vita privata.
Da neonato ha una grave crisi respiratoria che rischia di comprometterne seriamente la salute. Il medico che lo salva si chiama Adelmar che, da quel momento, diventa il suo secondo nome.
Con la maglia dell’Inter vive periodi di enorme difficoltà. Dopo la sconfitta del 5 Maggio assiste al disgregarsi di una rosa che sembrava ambire a vincere per anni e che, invece, aveva raccolto molto meno di quello che poteva. L’addio di Ronaldo, dopo la valle di lacrime dell’Olimpico, è una partenza difficile da digerire. Con l’esplosione dello scandalo Calciopoli e l’arrivo di Mancini sulla panchina nerazzurra, il trend però si inverte.
Zanetti è sempre più un perno insostituibile “dell’undici” nerazzurro. È capace di interpretare più ruoli, dal difensore centrale, al terzino, al mediano, alla mezz’ala di centrocampo. Il tecnico italiano lo schiera ovunque e Zanetti lo ripaga con leadership e prestazioni. Non esiste, infatti, partita dell’Inter senza un’accelerazione del suo capitano. Bergomi se ne era reso conto subito durante il primo ritiro: quando parte palla al piede è quasi impossibile togliergliela senza commettere fallo. Con Mancini l’Inter torna a vincere uno Scudetto. L’ultimo l’aveva vinto nel lontano 1989. “Pupi” è il capitano che torna ad alzare al cielo il massimo trofeo nazionale e lo farà per altri cinque anni.
Dopo quattro anni sulla panchina neroazzurra, Mancini lascia l’Inter per volontà del Presidente Moratti. Il nuovo allenatore è Jose Mourinho, tecnico dall’importante palmares europeo, arrivato a Milano con l’obiettivo di tornare a vincere in Europa. Il primo anno è un anno di ambientamento: l’Inter vince lo Scudetto ma non riesce ad esprimersi al meglio in Champions.
In estate va via Ibrahimovic e arrivano Eto’o, Thiago Motta e Diego Milito. Le fondamenta della squadra sono, però, argentine. Pupi, Samuel, Cambiasso e il neo arrivato Milito sono le colonne portanti di quella che sarà la stagione più importante della storia nerazzurra.
“Il 5 Maggio 2002, a Roma, Ronaldo piange disperato in panchina, piegato in due a singhiozzare come un bimbo cui abbiano portato via il regalo. Javi no, Javi è pallidissimo, il suo volto è una maschera tirata, ma niente lacrime. Pensa già a ricominciare. A Madrid, invece, le emozioni che ha dentro da una vita si sciolgono, l’onda della passione non si trattiene più e anche il Capitano può piangere.” dice il suocero di Javier, Andrès il 22 Maggio 2010. Si è appena giocata la finale di Champions, Milito, con un’autoritaria doppietta, ha schiantato il Bayern Monaco. L’Inter è campione d’Europa. “Pupi” alza al cielo la coppa con il volto trasfigurato dalle lacrime di gioia. Il ghigno lo rende irriconoscibile a tal punto che sua figlia, la piccola Sol, si interroga “sei tu questo qui?”
È la maschera esausta di un capitano che ha vinto tutto. È il volto “sfigurato” dalla gioia di essersi messo alle spalle delusioni, sogni infranti, sconfitte indelebili ma necessarie a conoscersi, a capirsi, a crescere.
Caro Pupi
Il 6 Maggio 2012 al 36’ del secondo tempo del derby di Milano, ricevi palla al limite della tua area di rigore e parti in progressione. È una corsa sfrenata quella a cui assiste il solito stracolmo Meazza. Ogni tocco fa aumentare i decibel provenienti dalle tifoserie. Arrivi in un attimo a centrocampo, poi sulla trequarti, quindi in area. Crossi. La palla è deviata in calcio d’angolo. Lo stadio esulta come ad un gol. Ti appoggi per riprendere fiato su uno dei tabelloni pubblicitari a bordo campo. I capelli sono perfetti, imperturbabili. Il Meazza non crede ai suoi occhi. Nessuno si è mai davvero abituato alle tue progressioni palla al piede. I giocatori del Milan hanno provato a inseguirti, a contrastarti ma, nonostante i trentanove anni, nessuno è riuscito minimamente a fermarti.
D’altronde, “Pupi”, non ti hanno fermato la patologia respiratoria, il “no” ricevuto dalla squadra del tuo cuore, gli anni difficili all’Inter fatti di sconfitte, cambi allenatore e sessioni di mercato da dimenticare. Non ti hanno demoralizzato la mancata convocazione ai Mondiali del 2010, lo smantellamento della squadra Campione d’Europa, la rottura del tendine d’Achille rimediata contro il Palermo. Non ti hanno rallentato le necessità dirigenziali da vice-presidente dell’Inter. Hai sempre preferito allenarti, sudare, dialogare, studiare, prepararti e mai adagiarti sugli allori della tua meravigliosa carriera. Hai scelto di continuare ad essere esempio di vita sportiva dentro e fuori dal campo.
Come dice Jorge Valdano: “ Il giorno del suo ritiro mi sarebbe piaciuto avere due cappelli: uno me lo sarei tolto davanti al calciatore, l'altro davanti al cittadino”.
Racconto a cura di Emilio Picciano