Diego Alberto Milito, la descrizione di un attimo
ROMA, 5 Maggio 2010, Stadio Olimpico. È il minuto 39 della finale di Coppa Italia tra Inter e Roma. Il centravanti della Roma, Vučinić, sbaglia un facile appoggio a metà campo. Sul pallone si avventa, in maglia numero 8, Thiago Motta. Il centrocampista dell’Inter accarezza di prima intenzione con l’esterno sinistro in direzione del numero 22 Diego Milito. Milito, inseguito da Mexes e Perrotta, tocca tre volte la palla di destro dirigendosi verso il centro dell’area. Poi, sempre con l’esterno destro, si allarga improvvisamente, entra in area in posizione molto defilata e calcia…
Bernal, partido di Quilmes, Buenos Aires, 1986. Due bambini inseguono un pallone nella distesa di terra di calle Fleming 400, in quello che altro non è che il più classico dei potreros argentini. Uno dei due attacca, l’altro difende. Gabi sogna di fare il difensore, Diego ha più predisposizione offensiva.
Passano ore, giornate così, con un pallone tra i piedi. Niente e nessuno può distrarli dalle interminabili partite che simulano tra terra, fossi e speranze. Niente, tranne il richiamo di mamma Mirta che urlando li richiama: "è pronta la merenda!".
È una scena comunissima nei potreros: utero, culla e accademia dei giovani argentini. Quei due bambini, però, non sono due ragazzini qualsiasi. Sono i fratelli Milito.
L’infanzia di Diego Milito, cresciuto in una famiglia medio borghese di Buenos Aires, è un intervallarsi continuo tra scuola e calcio.
A nove anni, lui e il fratello Gabi iniziano a giocare per le giovanili del Racing. Gabi, però, sogna la maglia bianca e rossa che tifa sin da piccolo grazie a suo nonno Antonio e alla mamma. Riesce ad ottenere un provino e passa, così, all’Independiente.
Diego, da sempre tifoso dell’Acadè (così è chiamato il Racing), resta in biancoceleste ma il club vive un periodo difficile che si riversa anche su di lui. Per un anno non tocca più il pallone, il sogno sembra, già, finito.
Nel 1995, però, Miguel Angel Gomis, tra i primi allenatori di Diego, lo convince a tornare a giocare nel Racing. Nonostante le iniziali resistenze, Gomis riesce nel suo intento: Milito ritorna al Racing e, nel 1999, contro l’Union de Santa Fè debutta ufficialmente al Cilindro de Avellaneda.
I primi anni sono, però, difficili.
Diego ha enormi qualità, si muove benissimo in campo, ha visione di gioco ma, strano a dirsi per un attaccante, ha un rapporto difficile con i goal: in due anni ne mette a segno appena tre. Il tecnico Reinaldo Merlo, detto “Mostaza” per i capelli color senape, vede in lui un talento poco comune e decide, nonostante le statistiche non aiutino, di dargli fiducia affidandogli le redini dell’attacco.
Alla cinquantesima presenza col Racing, contro i Newell’s Old Boys, Milito realizza una doppietta, portando prima in vantaggio l’Acadè con un colpo di testa, poi, sul finire del primo tempo, chiude la partita approfittando di un errore del portiere avversario Palos. È l’inizio di una stagione storica: il Racing torna a vincere dopo 35 anni senza titoli.
Una maledizione che storia e folclore fanno iniziare nel 1967 durante la finale della Coppa Intercontinentale. Il Racing gioca e vince contro il Celtic ma, durante la partita, giocatasi a Montevideo, alcuni tifosi dell’Independiente si intrufolano nello stadio Juan Domingo Peròn (la casa del Racing) e seppelliscono sette gatti neri. La fine della storica, quanto bizzarra, “malediciòn de los siete gatos negros”, consegna Mostaza Merlo alla storia e segna l’esplosione definitiva di Diego Alberto Milito che diventa, per la sua estrema somiglianza con Enzo Francescoli, il Principe del Bernal.
In quegli anni vive e sente la rivalità contro i dirimpettai dell’Independiente e diventa autentico idolo dell’hinchada. E se la maledizione dei gatti non basta a spiegare quanto sia radicata la rivalità tra le due tifoserie, c’è un altro episodio, con protagonisti proprio i fratelli Milito, che ne è, storicamente, la dimostrazione.
Durante il clasico di Avellaneda del 9 Marzo 2003, Diego chiede vistosamente il cartellino rosso per il fratello, colpevole di un fallo da ultimo uomo. Gabi lo affronta faccia a faccia: volano spinte, occhiatacce e offese anche indirizzate a mamma Mirta che, come racconterà anni dopo, abbandona lo stadio per la tensione.
Passano gli anni e Diego migliora esponenzialmente, tecnicamente e psicologicamente: diventa sempre più spietato, amplia le modalità con cui fa goal, cresce caratterialmente e comincia ad attirare le attenzioni di piccoli club europei.
L’Europa è, da sempre, un sogno per qualsiasi giocatore sudamericano. È in Europa, d’altronde, il calcio che conta. Ma Milito è, in parte, vittima di continui errori di valutazione: nessun top club è sulle sue tracce quando, a sorpresa, firma per il Genoa, invischiato nella lotta salvezza in Serie B italiana.
SIENA, Maggio 2010. L’Inter si gioca in trasferta lo scudetto. A fine primo tempo la Roma è virtualmente Campione d’Italia. Al 12’ della ripresa Zanetti parte palla al piede in una delle sue solite serpentine, supera due avversari e scarica il pallone al limite dell’area. Riceve palla Diego Milito. Il Principe orienta la palla verso l’interno dell’area. Con un solo tocco taglia fuori due difensori. Piccoli passi, si aggiusta impercettibilmente la palla col destro, poi, di esterno-punta calcia verso la porta…
L’Italia è nel destino di Diego: la sua famiglia è, infatti, originaria di Terranova di Sibari, un piccolo paese della Calabria. Anche per questo motivo, quando arriva la possibilità di giocare nel campionato Italiano, Milito non se la lascia scappare.
Quello che trova è un Genoa che fatica, da anni, a ritrovare la massima serie. Quell’anno, tra l’altro, viaggia stabilmente in zona retrocessione con il misero bottino di 20 punti in 21 partite. Milito segna all’esordio, poi, impiega qualche partita per sintonizzarsi con la nuova competizione.
Chiude la stagione con 12 goal in 20 partite salvando il Genoa dalla Serie C.
È la stagione successiva, però, quella della consacrazione: il Genoa domina la Serie B e conquista la tanto agognata promozione in Serie A. Diego segna 21 gol, diventando capocannoniere del campionato e dimostrando di essere pronto per la massima serie. Tuttavia, il sogno si trasforma in incubo quando, a causa di uno scandalo di calcioscommesse, il Genoa viene retrocesso d'ufficio in Serie C1.
È un colpo durissimo per il club e per Milito, che, a malincuore, lascia il Grifone in direzione Saragozza dove riabbraccia il fratello Gabriel. Diego si adatta sin da subito al calcio spagnolo, un calcio veloce, tecnico, meno claustrofobico di quello italiano.
Diventa un autentico idolo già al primo anno in Spagna. Trascina il Saragozza ad una facile salvezza e regala ai tifosi la possibilità di accarezzare il sogno Coppa del Re. Indelebile la sua prestazione contro il Real Madrid in semifinale di Coppa: è letteralmente implacabile, instilla panico e terrore nella difesa dei “quasi Galacticos” e segna ben quattro reti.
Il Saragozza perderà, poi, la finale contro l’Espanyol ma, da quel momento, la Romareda (lo Stadio della squadra) impazzisce ogni volta che tocca palla.
La stagione 2006-2007 lo incorona tra i migliori attaccanti del campionato: con 23 gol finisce secondo nella classifica marcatori della Liga, a soli due lunghezze dal capocannoniere Ruud Van Nisterlooij e conquista, a suon di reti, la qualificazione alla Coppa UEFA.
La stagione successiva sembra essere quella giusta per ritornare ad alzare un nuovo trofeo dopo l’Apertura vinta in Argentina: il Saragozza si presenta ai nastri di partenza con D’Alessandro e Pablo Aimar pronti ad inventare calcio alle sue spalle, libero, invece, di agire su tutto il fronte offensivo con “licenza di uccidere”. La stagione, invece, è un autentico fracaso: va male tutto ciò che può andare male e lo spogliatoio diventa un’enorme polveriera.
A fine stagione, sovvertendo qualsiasi pronostico, il Real Saragozza è retrocesso. Il destino ha nuovamente giocato una beffa al Principe che, per l’ennesima volta, è costretto a partire ad un passo dal sogno.
"…certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano…" canta Antonello Venditti. Sono gli ultimi scampoli di mercato e Diego ha già un accordo col Tottenham quando, il presidente Preziosi, prova il tutto per tutto per riportarlo al Genoa, questa volta in Serie A.
"Sentivo di non essere totalmente felice del trasferimento in Inghilterra e, col Genoa, avevo un conto in sospeso, qualcosa da finire ancora" dichiarerà qualche anno dopo Milito.
La sessione di calciomercato si chiude con un contratto firmato nelle ultime ore e i dettagli lanciati sopra la porta da Pastorello, agente di Diego. Quelle ultime, infuocate, ore di mercato, segneranno per sempre la storia del Principe.
Il ritorno al Genoa inizia dove era finito: dai goal. La squadra, guidata da Gasperini, gioca un calcio meraviglioso. Thiago Motta scandisce il ritmo come un metronomo e disegna geometrie che Diego, famelico e inarrestabile trasforma in rete.
I goal di quella stagione andrebbero proiettati a ripetizione in qualsiasi scuola calcio: Milito è un manuale vivente dell’attaccante. Non è potente, non è fisicamente straripante, sembra, a tratti, quasi lento, scoordinato. È con i movimenti del corpo che, invece, taglia fuori gli avversari. Ha un modo di proteggere palla quasi da cestista. È elegante ma non appariscente. È il lusso della semplicità.
La stagione si conclude con una qualificazione in Champions sfiorata per la regola degli scontri diretti contro la Fiorentina. Milito ha trent’anni quando arriva l’offerta, irrinunciabile, dell’Inter che porta a Milano anche Thiago Motta.
Madrid, 22 Maggio 2010. Finale di Champions League tra Inter e Bayern Monaco. Minuto 34. Milito riceve palla poco dopo la metà campo su rinvio di Julio Cesar. Sponda di testa per Sneijder e si invola verso la porta. Il trequartista olandese lo serve sulla corsa. Diego controlla in corsa, penetra in area, sembra calciare ma finta appena il tiro. Tutti, allo stadio, davanti alla tv, in piazza, urlano “tira”, in quella frazione di secondo che passa tra la finta e l’impatto successivo con il pallone…
L'impatto di Milito, alla prima esperienza in un top club, è deflagrante.
Alla seconda di campionato ha subito modo di esprimersi sul palcoscenico più importante: quello del Derby della madonnina. Segna un goal su rigore ma è nella manovra e nella sintonia con i compagni che sembra un veterano del club.
Per capire quanto sia già inserito, a stagione appena iniziata, negli automatismi nerazzurri basta analizzare quello che è, a parere di chi scrive, uno dei Goal più belli della storia del derby di Milano.
Toccano palla, in ordine cronologico, Maicon, Eto’o, Zanetti, di nuovo Eto’o, di nuovo Zanetti, Thiago Motta, Eto’o, Milito e poi di nuovo Thiago. La palla disegna dei triangoli il cui vertice finale è proprio Milito.
È ipnotico come si muove senza palla al limite dell'area offrendo linee di passaggio ai compagni. Vede un attimo prima dove poter ricevere, protegge palla, ricevuta da Eto’o e, di prima, serve Thiago Motta in penetrazione che col mancino a giro trova il palo più lontano ma che, con un extra-pass, potrebbe addirittura chiudere un ulteriore triangolo con Eto'o.
Il camerunense è il colpo più blasonato dell'anno, arrivato in quello scambio controverso e inaspettato con Zlatan Ibrahimovic. Il Principe, invece, dopo la stagione al Genoa è chiamato a confermarsi, per la prima volta, in un top club ma nessuno immagina che quella sarà la stagione più importante della storia dell'Inter e che Diego ne sarà protagonista indiscusso.
Segna 22 reti in campionato, laureandosi vice capocannoniere dietro Di Natale. In Champions segna, allo scadere, il goal che permette il passaggio turno contro la Dinamo Kiev, apre le danze col Chelsea due minuti dopo il fischio di inizio, segna contro il CSKA Mosca, realizza il 3-1 contro il Barcellona e, poi, ci sono i tre monumenti.
"Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei «goal». Ogni goal è sempre un'invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica" diceva Pier Paolo Pasolini.
Roma, Siena, Madrid
È in quell'attimo che passa tra il tocco, quasi impercettibile, con cui, rispettivamente, controlla a seguire, si aggiusta la palla, finta il tiro che si realizza il vero talento di Milito.
In quell'attimo che taglia fuori, che perfeziona, che inganna, che sembra cristallizzare il tempo.
In quell’attimo prima di calciare e consegnare l’Inter alla storia c’è quello che si può definire il "miracolo" del calcio: quell’attimo indescrivibile che precede la gioia.
Roma, Siena, Madrid. Tre città diverse, tre partite decisive, tre manifesti poetici di Diego Alberto Milito.
L’Inter vince il triplete, Il Principe diventa autentico re degli attaccanti mondiali e colonna portante della storia nerazzurra.
Appuntamenti col destino
Diego giocherà altri quattro anni a Milano: sono gli anni difficili del dopo Triplete, caratterizzati dalla crisi societaria di Moratti, da numerosi avvicendamenti in panchina e dal primo vero grande infortunio della sua carriera: la rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro.
Il Principe, però, nonostante tutto continua a fare quello che ha sempre definito come “il suo mestiere”: fare goal.
Diego, però, non sa di avere ancora due appuntamenti col destino.
Il primo il 19 Giugno del 2014 quando firma il contratto che lo riporta a casa, in Argentina, nella sua amata Avellaneda dove, grazie al suo contributo, il Racing torna a vincere nuovamente il campionato (l’ultimo era quello del 2001).
Per gli argentini che, si sa, vivono di calcio, quel ritorno a casa e quella vittoria rappresentano il più grande onore possibile. Nel 2016, infatti, intitoleranno a Diego una delle strade che porta al Cilindro: Calle Diego Alberto Milito.
Il secondo appuntamento è il 1 Novembre del 2015. Il Racing gioca contro il Club Mutual Crucerò. Al minuto 80’ un giovane attaccante soprannominato “El Toro” fa il suo ingresso in campo. È il suo esordio assoluto in prima squadra. Ad uscire, abbracciandolo, è proprio il Principe Milito.
Quel ragazzo di diciotto anni si chiama Lautaro Martinez e non sa che diventerà il capitano del ventesimo scudetto dell’Inter. Entra in campo, gli occhi lucidi per le emozioni. Alza lo sguardo verso l’hinchada che, senza sosta, sta tributando il saluto al suo eterno Principe come faceva quando giocava contro suo fratello: “Milito hay uno solo”.
Di Milito ce n’è uno solo.
Racconto a cura di Emilio Picciano