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Dal Normal One agli Special Ones

Ogni grande rivoluzione nasce da chi osa. Quando tutto sembra perduto, il Chelsea manda via Villas-Boas e chiama in panchina Di Matteo, leggenda del club. Insieme a Drogba, Lampard e Terry riscrive la storia della stagione e dei Blues vincendo la Champions League e coronando anche il sogno del patron Abramovich.
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Chelsea 2012 - Champions League - Illustrazione Tacchetti di Provincia

È il 22 giugno 2011, quando dalle parti blu di Londra si mette in atto una rivoluzione. Via Carletto Ancelotti, dopo un opaco 2010/2011; a sedersi sulla panchina del Chelsea c’è un promettente giovane allenatore, ex collaboratore di Josè Mourinho e fresco di Europa League col Porto, a soli 33 anni: André Villas-Boas, il “Normal One”, come si è autodefinito per distinguersi dal suo illustre maestro. 

Bisogna rilanciarsi in Inghilterra, ma magari guardare anche alla Champions League. Gli innesti importanti sono rappresentati da Juan Mata del Valencia e Raul Meireles, reduce da un anno al Liverpool. Nessuno lo sa, ma sta per partire una stagione unica per i Blues. 

Brutti di giorno, belli di notte

Il campionato sorride ai londinesi nelle prime battute, quando ottengono sei vittorie in otto gare. Nel frattempo, la campagna europea è iniziata nel girone E, dove il Chelsea affronta Bayer Leverkusen, Valencia e Genk. Non sono delle battistrada particolarmente difficili, ma non vanno nemmeno sottovalutate. Arriva un buon 2-0 contro i tedeschi a Stamford Bridge e il pareggio 1-1 al Mestalla, poi viene travolto il Genk, 5-0. In quel momento i Blues sono a sette punti, il Leverkusen a sei. 

Il successivo pareggio in casa dei belgi (1-1) potrebbe compromettere il primo posto, ma il Bayer perde a Valencia 3-1. Lo scontro diretto tra gli inglesi e i rossoneri finisce 3-1 per il Leverkusen, che effettua il sorpasso di un punto, a quota 9.  Ma nell’ultimo turno del girone, il Chelsea si riprende la vetta, battendo nettamente il Valencia per 3-0, coi tedeschi invece costretti a impattare 1-1 fuori casa col Genk. Il primato dovrebbe consentire un sorteggio più agevole per gli ottavi, ma in realtà le cose non andranno davvero così. 

La sconfitta col Leverkusen in Champions arriva in un momento spartiacque in Premier, perché la truppa di Villas-Boas sta iniziando ad accusare dei problemi. Dopo aver perso in casa contro Arsenal (3-5) e Liverpool, arrivano tre successi consecutivi, tra cui quello contro il City, ma poi il motore si inceppa: tre 1-1 di fila contro Wigan, Tottenham e Fulham, poi la pesante battuta d’arresto contro l’Everton. I due bottini pieni successivi sono un’illusione, perché poi riprende la pareggite per tre occasioni (ultima delle quali il 3-3 a Stamford Bridge con lo United) prima della disfatta a Goodison Park. 

Il Chelsea è in crisi nera da tre mesi, ha già salutato il titolo, ma rischia anche per il piazzamento europeo. Dopo la ventisettesima giornata, a seguito della sconfitta contro il West Bromwich, Villas-Boas viene esonerato. Qui arriva la svolta della stagione dei Blues. 

Una bandiera al comando

A prendere il posto del portoghese è Roberto Di Matteo, giocatore del Chelsea tra il 1996 e il 2002, che aveva affiancato come vice Villas-Boas. Il tecnico italo-svizzero è ben ricordato dai tifosi e vuole portare nuova linfa a un ambiente depresso. L’organico per la verità non è affatto di second’ordine: lo zoccolo duro di esperienza e fedeltà alla causa è rappresentato da Cech, Ivanovic, Ashley Cole, capitan Terry, Essien, Lampard, Malouda, Mikel e Drogba, che è all’ultima stagione a Londra. Nel mercato invernale è arrivato Gary Cahill per la difesa, mentre Fernando Torres, giunto a gennaio 2011, non sta rendendo come ci si aspettava. 

Oltre a problemi tattici, Villas-Boas non si era particolarmente fatto amare dal gruppo, specie dai senatori, che anzi in parte aveva tentato di mettere in panchina. Emblematica l’andata degli ottavi di Champions League, col portoghese ancora al suo posto, il 21 febbraio 2012. L’avversario è il Napoli di Walter Mazzarri, una squadra di assoluto rispetto col trio Lavezzi – Cavani - Hamsik e il triumvirato difensivo Campagnaro – Aronica - Paolo Cannavaro. Nella fase a gironi hanno estromesso il Manchester City per il secondo posto e non mostrano alcun timore reverenziale. 

Una sfida delicata, che l’ex assistente di Mourinho decide di affrontare spedendo in tribuna Cole, Terry e Lampard. Il responso del campo è impietoso: il Chelsea va in vantaggio con Mata, ma subisce poi un dominio netto, con la doppietta di Lavezzi e il gol di Cavani a far esplodere di gioia il san Paolo. I londinesi rischiano anche il cappotto, ma Cole, subentrato, salva sulla linea un tap-in del Pocho, a conti fatti un miracolo decisivo per il ritorno. 

La svolta d'orgoglio

Di Matteo capisce presto che se si vuole salvare la stagione, i capitani di questa squadra devono essere al centro del progetto. Così rimette in campo i tre separati in casa di Villas-Boas, e punta su un calcio tipicamente nostrano: contenimento difensivo con squadra corta e puntate in attacco di contropiede puro. 

Con Cech guardiano dei pali, la difesa vede David Luiz fare coppia con Terry, ai lati Ivanovic e Cole. A centrocampo Lampard, faro indissolubile, è affiancato da Essien, con Ramires, Mata e Meireles sulla trequarti. Il centravanti, con Torres poco affidabile, non può che essere Didier Drogba. 

Per il ritorno degli ottavi di Champions, la formazione è questa, ad esclusione di Sturridge che prende il posto di Meireles. E il copione che Di Matteo deve mettere in scena, in questa occasione, deve però essere quello dei protagonisti. I blues attaccano, devono, sotto di due gol, e danno il primo dispiacere al Napoli al 14’: cross pennellato di Ramires dalla sinistra, Drogba si tuffa di testa e piazza il pallone all’angolino. Nella ripresa, dopo due minuti, da un corner dalla destra la sfera spiove verso capitan Terry, palombella deliziosa di testa e 2-0 che completa la rimonta. 

Gli azzurri però non ci stanno, e al decimo trovano la rete che ribalterebbe il verdetto, grazie a una botta da fuori area di Gokhan Inler. Ma al 75’ Dossena “para” un pallone colpito da Ivanovic, rigore che Lampard non fallisce con un destro secco centrale. Si va ai supplementari, e proprio Ivanovic, in proiezione offensiva, si ritrova un pallone all’altezza del dischetto, che il serbo scaraventa sotto la traversa per il 4-1 finale. I Blues hanno ribaltato tutto e si qualificano per i quarti. 

E in FA Cup si sono rilanciati, regolando il Birmingham al quinto turno e il Leicester ai quarti. Il campionato va ancora su livelli altalenanti, ma è chiaro che con la coppa nazionale tutto può cambiare in chiave europea. E forse non solo lì, visto che l’urna di Nyon riserva un avversario temibile ma non impossibile: il Benfica. 

 

Primavera fiorente

Si arriva al 27 marzo, l’andata dei quarti è al Da Luz di Lisbona. I lusitani, guidati da Jorge Jesus, sono combattivi e vogliosi di giocarsi le proprie carte, forti di una difesa rocciosa, composta da Luisao e Jardel, l’ottimo terzino Maxi Pereira, e un paio di prospetti interessanti come Javi Garcia, ex Real, e Witsel. In casa Blues, Di Matteo dà fiducia al Nino Torres, con Kalou al posto di Sturridge. 

La partita non è indimenticabile, da rilevare un palo di Mata a porta vuota e un miracolo di Cech su colpo di testa di Jardel. Ma al 75’, Torres pesca il coniglio dal cilindro, fugge sulla destra incuneandosi in area e servendo rasoterra Kalou, inseritosi perfettamente in posizione centrale, a ridosso dell’area piccola, tocco sottomisura e Artur è battuto. 1-0 fuori casa preziosissimo, che permette di affrontare la gara tra le mura amiche sotto degli ottimi auspici. 

Col campionato che dona poche gioie, anche se il periodo colabrodo sembra alle spalle, il Chelsea può dedicarsi alla Champions con maggiore consapevolezza. E il 4 aprile ci sono di nuovo le aquile biancorosse da fronteggiare. Al 21’ un rigore trasformato da Frank Lampard spiana la strada. Il Benfica prova a reagire, ma rischia il 2-0 all’alba del secondo tempo, con Ramires che riesce a sbagliare da mezzo metro dopo una conclusione sporca di Kalou, e successivamente a sciupare è Torres. 

La situazione si complica leggermente col gol di Javi Garcia, che a cinque minuti dalla fine pareggia correggendo di nuca un corner dalla sinistra di Aimar. Gli uomini di Jorge Jesus si riversano in avanti per trovare il gol qualificazione, il Chelsea serra le fila e al 92’, in contropiede, Raul Meireles parte dalla metà campo e dopo un uno contro uno lascia partire una staffilata di destro sotto la traversa, chiudendo i conti. 

È semifinale. E adesso sognare si può. Forse.

Il Barcellona dei marziani: disfatta o vendetta?

In semifinale l’impresa ha il sapore della missione impossibile: a Londra sono attesi i profeti del Tiki Taka, il calcio tecnico allo stato purissimo, il Barcellona di Guardiola, di Messi, Xavi e Iniesta, di Puyol, Piquè e Busquets, Dani Alves, Fabregas e Sanchez, la squadra più forte degli ultimi anni, campione d’Europa nel 2009 e nel 2011. Solo l’Inter, nel 2010 in semifinale, è riuscita a impedire ai Blaugrana di fare filotto con tre Champions League consecutive. 

Ma nel 2009, in semifinale, gli avversari erano proprio gli inglesi e nessuno, nell’ovest di Londra, ha dimenticato come andò il ritorno, dopo lo 0-0 del Camp Nou. L’arbitraggio di Tom Ovrebo fu definito uno scandalo, il Chelsea lamentò almeno tre rigori solari, che avrebbero chiuso la partita, dopo l’1-0 di Essien nel primo tempo. Al 93’ arrivò la beffa, per mano di Iniesta, che incastonò una gemma all’incrocio dei pali, ma la furia per una direzione di gara a senso unico fu espressa da fischi assordanti dei tifosi Blues, da Ballack che per un mani di Eto’o inseguì l’arbitro per tutto il campo, gesticolando ed urlando, e da Didier Drogba che a fine partita urlò a una telecamera: “It’s a f…g disgrace”. 

Sono ancora lì molti dei protagonisti impotenti di quella “vergogna”. Ma i ricordi e i torti non scendono in campo, la partita è da giocare, non conta che gli spagnoli abbiano demolito il Leverkusen, avversario del Chelsea nel girone, con un 3-1 e un 7-1 agli ottavi, né che abbiano regolato 3-1 il Milan. Conta solo il presente. 

18 aprile 2012, a Stamford Bridge, dopo tre anni, si cerca il destino che ripaghi quanto tolto. E si parte con la guerra di trincea. Di Matteo sa che contro il possesso palla infinito del Barcellona la risposta è solo una: il catenaccio. Poi, quando si potrà respirare in mezzo a quella ragnatela fittissima di passaggi e geometrie, si cercherà la fortuna. Di conseguenza il 4-3-3, speculare a quello del Barcellona, è in realtà un 4-5-1, col solo Drogba riferimento avanzato, ma anche lui impegnato in copertura. 

Messi e compagni iniziano l’assalto, o meglio, l’assedio. Sanchez colpisce la traversa, Messi addirittura di testa impegna Cech, poi decisivo anche su un sinistro di Iniesta; Fabregas sbaglia il tap-in, poi, servito da Messi in area, tenta un pallonetto, Cole ancora una volta salva quasi sulla linea. Al secondo minuto di recupero della prima frazione, Lampard ruba palla a Messi nel cerchio di centrocampo, senza guardare lancia a sinistra per Ramires che è già scattato, il brasiliano arriva in area da sinistra, cross basso al centro dove è appostato Drogba, sinistro radente che anticipa Adriano, Victor Valdes tocca appena di piede ma non basta, i Blues mettono la freccia. L’ivoriano esulta alla sua maniera, scivola sotto la curva, segno della croce e sull’attenti. E attenti devono rimanerci tutti i calciatori del Chelsea, che devono difendersi da uno tsunami vero e proprio. 

Nel secondo tempo, Cech para una conclusione di Adriano, poi accompagna con un sospiro un calcio di punizione deviato di testa da Puyol, ma il brivido più grande arriva allo scadere, quando Pedro raccoglie un pallone che ballonzola a sinistra in area, destro basso a giro, palo pieno, sfera che giunge a Busquets, solo: la tribuna raccoglie con sollievo la palla sbucciata dal mediano spagnolo. Finisce 1-0, con un tiro in porta e un muro che ha resistito, il primo round è degli inglesi, che adesso sanno di dover raddoppiare gli sforzi in Catalogna, tra sei giorni, per riscrivere la storia. 

24 aprile 2012, il giorno della verità, si va in territorio nemico. Il Chelsea, già costretto alla difesa strenua nella partita casalinga, deve inventarsi qualcosa di più di un fortino per resistere al Camp Nou. Di Matteo prepara un catenaccio che ricorda quelli di Nereo Rocco, con tutti gli effettivi nella propria area di rigore, a fare da pullman per difendere la porta di Cech. Gli uomini di Guardiola iniziano ad attaccare, a dare sferzate come fossero un vento impetuoso. 

Messi sfiora il gol due volte, Cech si oppone, pure Terry deve intervenire a murare una botta di Iniesta. La pressione però è troppa e al 35’ Busquets insacca a porta sguarnita dopo un passaggio rasoterra perfetto di Messi dalla sinistra. Piove sul bagnato, perché due minuti più tardi capitan Terry perde la testa nel momento più sbagliato possibile, brutto fallo di reazione ai danni di Sanchez e rosso diretto. Al 43’, corridoio di Messi per l’inserimento di Iniesta, diagonale a fil di palo e 2-0.

 Stavolta sembra non ci sia più niente da fare, ma al primo minuto di recupero Ramires dialoga con Lampard, che si allarga a destra, filtrante coi tempi giusti a chiudere il triangolo, il brasiliano entra in area da destra e lascia partire un pallonetto magico che beffa Valdes in uscita: 2-1, rete fuori casa e dunque qualificazione di nuovo nelle mani dei londinesi. Ma in dieci uomini la sofferenza è enormemente amplificata. 

Nel secondo tempo, il Barcellona riprende l’assedio, e dopo tre minuti Drogba, generosamente in ripiegamento difensivo nei propri sedici metri, non si avvede di Fabregas alle sue spalle, mentre sta tentando una scivolata per allontanare il pallone, colpendo il centrocampista: è rigore. Dal dischetto c’è lui, Leo Messi, l’incubo pare materializzarsi. L’argentino va sicuro col suo sinistro, ma la sua botta si stampa incredibilmente sulla traversa. La pulce, che concluderà la sua annata con la spaventosa e disumana cifra di 91 gol, contro il Chelsea sembra colpito da una stregoneria, come il suo Barça, ingabbiato mentre continua a essere costantemente in proiezione ultraoffensiva, senza riuscire a trovare il 3-1. 

Sanchez di testa sbaglia di poco, Drogba prova ad alleggerire la pressione con un tentativo folle da metà campo che Valdes neutralizza. Cech si oppone a un altro paio di occasioni, e dove non arriva ci pensano ancora i legni, il palo alla sua sinistra per la precisione, che dice di no ancora a Messi. 

Al 91’, Torres, entrato dieci minuti prima per Drogba, recupera un pallone al limite della sua area, prova a ripartire in solitaria ma viene fermato, i blaugrana provano a scodellare in mezzo, la palla sbatte addosso a Cole, che stoppa in qualche modo e rilancia via, El Nino è rimasto da solo a metà campo, oltre tutti i difensori, non c’è dunque fuorigioco perché dietro la linea del centrocampo. Può dunque involarsi, saltare Valdes e depositare a porta vuota la rete del 2-2. 

È il delirio, per lui che fino a quel momento non aveva reso come poteva e che si vendicava, da ex Atletico Madrid, di una rivale storica, per i suoi compagni che lo sommergono di abbracci, per Roberto Di Matteo, che da traghettatore li sta portando in una insperata finale di Champions League, la seconda della loro storia, eliminando il Barcellona di Guardiola, una delle squadre più forti di sempre, e vendicandosi della semifinale di tre anni prima. 

La missione impossibile è compiuta. È giunto il momento decisivo.

Finali al cardiopalma

Nel frattempo, i Blues in FA Cup hanno battuto il Tottenham in semifinale, con un perentorio 5-1. Poi il 5 maggio, l’atto conclusivo a Wembley è contro il Liverpool. I Blues vincono 2-1, coi gol di Ramires e Drogba, e riportano nella loro bacheca, dopo due anni, la più antica competizione di calcio. 

La stagione sta finendo in crescendo, ma la testa è solo alla coppa dalle grandi orecchie. L’avversario contro cui giocarsi l’ambito trofeo è il Bayern Monaco, che ha sconfitto ai rigori il Real Madrid di Mourinho. 

A questa finale, dunque, sono arrivate le due squadre sulla carta sfavorite. Il Clasico è stato una suggestione rimasta tale, ma il palcoscenico dell’atto conclusivo della Champions è proprio l’Allianz Arena di Monaco di Baviera. I bavaresi giocano difatti in casa. E sanno di avere più opportunità degli inglesi, vogliono soprattutto rifarsi di aver perso la finale di due anni prima contro l’Inter. La squadra di Di Matteo, dal canto suo, vuole cancellare quella del 2008, quando fu il Manchester United ai rigori a dare un dispiacere enorme alla truppa di Roman Abramovich.  

È il 19 maggio 2012, il Bayern di Jupp Heynckes si presenta con Neuer, Lahm, Boateng, Tymoshchuk e Contento in difesa; Schweinsteiger e Kroos in mediana; Robben, Muller e Ribery sulla trequarti per inserimenti e sfornare cross a beneficio dell’unica punta Mario Gomez. Di Matteo, invece, è in emergenza totale: Terry, Ramires, Raul Meireles e Ivanovic sono squalificati, dopo la battaglia di Barcellona. Vengono schierati quindi Bosingwa, Cahill, Kalou e Bertrand. La sfida più importante parte in salita, è l’ultima occasione per tutte le bandiere del Chelsea, oltre i trent’anni d’età. 

Il Bayern si fionda all’attacco, Cech inizia a fare gli straordinari, parando in bagher una conclusione di Robben, mandandola sul palo, poi Muller manda a lato una volée di sinistro. Kalou prova a rispondere sorprendendo Neuer sul primo palo, senza successo. La partita è nervosa e spezzettata, la posta in palio è altissima. 

Nella ripresa i tedeschi continuano nel loro gioco, ma non ci sono grosse occasioni, fino all’82’, quando Kroos propone un traversone dal vertice sinistro dell’area: la palla spiove sul secondo palo, Ashley Cole si scontra con Gomez mentre corre all’indietro verso la sfera; Muller è lì, schiaccia di testa, sponda sulla traversa e gol, con Cech non del tutto irreprensibile. Il Bayern è a un soffio dalla Champions League, il Chelsea è alle corde, non sembra averne più. 

Lampard, quella sera capitano ricorda: “Vidi Didier (Drogba n.d.r.) sconsolato, con la maglia sul volto. Sembrava non crederci più e io stesso ero ormai senza speranza. Però tentai di caricarlo: - Dai, Didì, proviamoci!” - gli dissi”. 89’, i Blues ottengono un calcio d’angolo dalla destra. Lampard batte sul primo palo. Proprio “Didì”, dal vertice destro dell’area piccola, viene incontro, si stacca da Boateng e colpisce con una violenza inaudita di testa, girando verso la porta. Neuer, come Cech prima, non è perfetto, tocca appena con la mano sinistra, ma il pallone gli ha bucato la mano e si insacca sotto la traversa. 

Drogba segna il nono gol in nove finali affrontate con la maglia del Chelsea, il 157º gol in totale, il suo quinto in questa edizione della Champions League. “Ancora una volta, meravigliosamente, incredibilmente Drogba” urla Massimo Marianella in cronaca. Il vero trascinatore dei londinesi, che c’è sempre quando conta di più. Si va dunque ai supplementari. 

Il sogno diventa realtà

L’ivoriano ha riequilibrato le sorti della contesa, ma appena ricomincia la gara, nella foga di difendere quell’1-1, tenta di sradicare il pallone a Ribery appena dentro l’area. Tocca però la caviglia del francese. Altro rigore contro, il secondo consecutivo, e cartellino giallo. Il destino passa di nuovo dagli undici metri, questa volta dai piedi di Robben. Sinistro e Cech para, bloccando in due tempi dopo essersi buttato alla sua sinistra. Il Chelsea è salvo, di nuovo. Il Bayern ci prova con impegno, ma non riesce a segnare. Come nel 2008, i Blues si giocheranno tutto alla lotteria dei rigori. 

Lahm segna con qualche brivido, Neuer invece para il rigore di Mata. I bavaresi sono in vantaggio, e realizzano sia con Gomez che con il proprio portiere, che segna con sicurezza quasi fosse un centravanti esperto dal dischetto. David Luiz e Lampard tengono in vita la sfida, fin quando non si presenta sul dischetto Olic: Cech para alzando il guanto destro. Cole riporta tutto in parità, ed è il turno di Schweinsteiger. Rincorsa rallentata a metà strada, forse paura, forse un tentativo di finta, ma il destro del tedesco si infrange sul palo alla sinistra di Cech, rimbalzando verso l’altro lato senza toccare la schiena del portiere. 

Il centrocampista alza la maglia sul volto e inizia a piangere mestamente tornando dai suoi compagni. Non vede nemmeno l’ultimo rigore, che non può che essere battuto dall’uomo copertina, Drogba, che se segnasse regalerebbe il sogno dei sogni al suo Chelsea. Sistema il pallone con cura sul dischetto, controlla la zolla a lato per non avere brutte sorprese come Terry quattro anni prima, ma non prende una vera e propria rincorsa. Fa un solo passo indietro. Neuer è lì, a fare ampi gesti con le braccia, a rendersi gigante quanto tutta la porta. I tifosi del Bayern sono lì dietro, fischiano e tremano di paura. L’arbitro Proença fischia. Drogba, con una rincorsa alla Beppe Signori, calcia all’angolino di sinistra, l’opposto di quello dove si butta il portiere tedesco. 

È fatta. Segno della croce, lacrime e abbraccio verso l’altro eroe, Petr Cech. Il Chelsea, da sfavorito, dal caos in cui era piombato, si ritrova Campione d’Europa, per la prima volta nella sua storia.

Il patron Roman Abramovich si gode, dopo nove anni di presidenza, il punto più alto raggiunto dalla sua creatura, colto non con Mourinho, con Hiddink a Mosca nel 2008, o con Ancelotti, ma nel modo meno prevedibile possibile, e con protagonisti anche inattesi. 

La tanto agognata coppa, sollevata da Lampard e Cole, è il frutto di un gruppo unito, che ha saputo soffrire nelle numerose lotte affrontate, nelle delusioni digerite, guidato da un gruppo di generali di alta classe: Drogba, Cech, Terry, Lampard, Ivanovic, Mikel, Cole, non più dei giovanotti la maggior parte, ma affamati al punto da decidere di serrare le fila e rendere una splendida realtà quello che per anni hanno visto vincere ad altri. 

È il sogno dei giovani Mata, David Luiz, ma anche di Kalou e Meireles, Cahill e Malouda, utili alla causa pur se da comprimari o da giovani ancora acerbi.  Roberto Di Matteo si gode il suo ruolo di motivatore e organizzatore tattico, fintanto che la panchina rimane sua, dato che pochi mesi dopo, dopo un sonoro 3-0 dalla Juventus, verrà esonerato. Un allenatore meteora, ma che può fregiarsi di aver reso campioni una squadra che dentro di sé lo era già. 

Racconto a cura di Carmelo Bisucci

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