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Il Celeste di Messina

La storia di una stadio (che a Messina chiamano tutti Campo) oramai abbandonato dove le gesta del Messina Calcio hanno toccato le più alte quote.
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Il celeste di Messina - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Di la dal mare, a quattro pinte di cielo azzurro, si staglia la Calabria, quel Bruzio d’Italia di arcaica, romana conoscenza. Nel bel mezzo di questo squisitezza di mondo c’è lo Stretto di Messina, che poi tanto stretto non è, visto che vi scivolano silenti naviganti d’ogni sorta che azzardano i porti del mondo. 

Da questa altra parte si staglia invece, oramai innocuo e silente, il vecchio riparo delle domeniche sportive messinesi, una micro bombonera di queste parti, un fortino piccolo e stretto, attorniato da quinte edilizie che vi si affacciavano, regalando ai balconi delle case i vizi e le virtù domenicali dei pedalatori del pallone.

Ottanta e passa anni fa, Giovanni Celeste, quel tenente di vascello messinese coi baffetti e il pizzetto che moriva combattendo per la patria, non poteva immaginare che la storia gli avrebbe consegnato, ad perpetuam rei memoriam, il suo nome appeso ai muri dello stadio, che a Messina tutti, per nostalgico affetto, chiamano ancora il Campo.

Tradito per far posto ad uno stadio più grande, solo il tempo di veder apparire, all’ultima partita, il sogno effimero di due stagioni in massima serie conquistato all’ultimo respiro e il giorno triste di dover titolare la nuova cattedrale del deserto al compianto Franco Scoglio, che da queste latitudini passa poco a farlo santo patrono di ogni paese di provincia.

 Eppure dentro queste rozze mura appese ai cementi sfaldati delle case di periferia si è scritta tanta roba di storia del pallone: Serie C, Serie B, Serie A negli anni sessanta, perfino una partita di qualificazione europea, Malta contro Islanda, che è roba di calcio quello povero, ma per la fame di gesta delle nostre perse notti calcistiche, riempì gli scaloni delle tribune.

Ma sono i giallorossi a renderlo mito, questo rettangolo oggi abbandonato; e dentro il catino sono passati eroi provinciali che a calcare la sua erba sono diventati ricordo nazionale: il capitano di Scoglio, Antonio Bellopede, di professione libero di difesa; Franco Caccia, bomber di razza, e quello striscione che diceva Il Celeste non ha più fiato e grida a perdifiato: Lode a te, Franco Caccia!; Alberto Diodicibus, una vita da mediano; Giuseppe Catalano, un numero dieci (e lode) che qualche barbaro scrittore di cose calcistiche volle definire il Rivera della Serie C.

E infine lui, gli occhi spiritati di bambino che non crede alle sue prodezze, le mani alzate con la maglia azzurra, i gol impossibili di scugnizzo palermitano che il gioco del pallone ha voluto togliere agli imbrogli della strada: Totò Schillaci, tra i bastardi di Scoglio, il bastardo per antonomasia. Se esistono i ricordi di Italia 90, le notti magiche appese alla tv a stonare l’inno di Bennato e Nannini, lo si deve un poco anche al Celeste, dove tutto è cominciato.

Da qui sono passati nomi altisonanti, da ritratto di figurine Panini: Vittorio Torino, Igor Protti, Zaniolo, Godeas, per finire con Parisi, Sullo, Coppola, Storari, Di Napoli e Zampagna, gli ultimi a regalare la Serie A sulle sponde dello Stretto. Da quel fatidico 5 giugno 2004 quando i tre gol inflitti al Como davano la certezza della massima serie. Doveva contenere circa 12000 spettatori: ma chi c’era, quella sera, giura che erano molti, molti di più.

 

 

Racconto a cura di Vincenzo Di Salvo

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