Il sogno d'acciaio
In un’epoca in cui l'Europa intera insegue fortune e gloria tra crisi finanziarie e nuove ambizioni globali, il cuore pulsante del Donbass si aggrappa ai suoi sogni. Donetsk, città di miniere e acciaierie, respira ancora polvere e fuoco, mentre il suo popolo, fiero e ostinato, costruisce ogni giorno il proprio futuro tra mille incertezze.
Siamo nel 2009, un periodo di transizione per l'Ucraina. La nazione sta ancora definendo la sua identità post-sovietica. In questo contesto dinamico e a tratti incerto, una squadra di calcio incarna lo spirito combattivo e la fierezza della sua gente: lo Shakhtar Donetsk.
Fondato nel 1936 come "Stakhanovets", in onore di Aleksèj Stachànov, il leggendario minatore la cui estrema dedizione al lavoro è diventata proverbiale, la squadra è all’inizio una sorta di dopolavoro per i minatori, un mezzo per sostenere la propaganda socialista e offrire svago agli operai.
Il nome "Shakhtar", che significa appunto “minatore”, viene assunto a partire dagli anni ’60. È proprio in questi anni che la squadra inizia a conseguire i primi successi vincendo diverse Coppe dell'URSS senza però riuscire a scalfire il dominio delle squadre moscovite in campionato.
Rinat Akhmetov: Il magnate che ha riscritto la storia
La vera svolta per lo Shakhtar arriva con l'indipendenza dell'Ucraina nel 1991 e, soprattutto, con l'avvento di Rinat Akhmetov alla presidenza del club nel 1996. Akhmetov, un magnate originario di Donetsk con un passato controverso e una fortuna stimata di 15 miliardi di euro, si impone come una figura centrale e trasformativa per il club.
Akhmetov comprende prima di altri che per cambiare la storia serve visione, pazienza e, soprattutto, investimenti. Infatti, una volta assunto il controllo del club, Akhmetov intraprende una politica di investimenti volta a modernizzare le infrastrutture sportive e a costruire una squadra competitiva a livello continentale. Nel 1999 ristruttura il centro sportivo Kirša e crea strutture all'avanguardia per il settore giovanile.
Ma la visione del magnate va oltre il dominio nazionale; il suo obiettivo è portare lo Shakhtar ai vertici del calcio europeo. Questo ambizioso progetto culmina con la costruzione della Donbass Arena, inaugurata nel 2009 con un costo di oltre 300 milioni di euro, uno stadio moderno che diventa il simbolo delle ambizioni del club e dello stesso Akhmetov.
E così, mentre in Europa occidentale si assiste all’epopea dei trasferimenti delle grandi star pallonare, a Donetsk si segue la strada opposta. Akhmetov intuisce che per competere in Europa serve talento e punta con decisione al mercato brasiliano. Crea una rete capillare di scouting in Brasile, focalizzata sull'individuazione di giovani promesse da portare in Europa.
Eccoli allora arrivare, uno dopo l’altro: Willian, Fernandinho, Ilsinho, Jadson, Luiz Adriano. Ragazzi poco più che ventenni, strappati dalle favelas e alle strade polverose brasiliane, e catapultati nella fredda steppa ucraina. Per loro Donetsk diventa casa e desiderio di riscatto.
Lo Shakhtar, senza volerlo, crea un microcosmo brasiliano ai margini dell'Europa, dove samba e minatori si fondono in un'armonia strana e irresistibile.
Mircea Lucescu: L'architetto del successo
Al timone c'è Mircea Lucescu, maestro gentile e leader silenzioso. Rumeno d'animo latino, porta sulle spalle il peso di mille battaglie vissute sui campi più ostili di mezza Europa. Lucescu si siede sulla panchina della squadra ucraina nel maggio 2004 e ci rimane per ben 12 anni diventando l’artefice dei maggiori successi del club.
Quando arriva a Donetsk, Lucescu non costruisce solo una squadra, ma un ecosistema: inserisce elementi carioca in un sistema disciplinato, dando origine a una nuova forma di calcio: "Non ho mai voluto creare una squadra perfetta. Ho cercato un equilibrio poetico" disse in un'intervista.
Lucescu non allena. Cura. Plasma. Raccoglie giovani talenti e li trasforma in artisti del campo. In lui convivono l’umanità del pedagogo e la lucidità dello stratega. È un uomo d’altri tempi, con la mente rivolta nel futuro. È lui l’architetto di questo Shakhtar che sta per stupire l’Europa. Lucescu porta con sé una filosofia di gioco offensiva e spettacolare, un credo che si sposa perfettamente con il talento grezzo che Akhmetov sta scovando in un angolo lontano del mondo: il Brasile.
Lucescu, conosce bene anche il portoghese e crea un ambiente ideale per i giocatori brasiliani, valorizzandone le qualità tecniche e tattiche. L’allenatore rumeno costruisce una squadra che mischia il talento verdeoro con la concretezza calcistica dell’Europa dell’Est con elementi come il croato e capitano Darijo Srna e il rumeno Răzvan Raț. A questi aggiunge anche giocatori ucraini provenienti direttamente dal settore giovanile del club come il portiere Andriy Pyatov e il difensore Dmjtro Čyhryns'kyj oltre all’esperienza di Oleksandr Kučer.
Ma perché così tanti brasiliani nello Shakhtar? Non è solo una questione di talento individuale. Akhmetov e Lucescu intuiscono che il calcio brasiliano può portare quel tocco necessario per competere ai massimi livelli.
La magia della "colonia brasiliana"
"Quando sono arrivato a Donetsk," racconta Willian, allora giovane promessa acquistata dal Corinthians, "faceva così freddo che pensavo di essere finito su un altro pianeta. Ma nello spogliatoio ho trovato altri brasiliani che mi hanno fatto sentire a casa. Abbiamo creato una piccola Rio de Janeiro in Ucraina."
La colonia brasiliana dello Shakhtar oltre a essere un progetto tattico è allo stesso tempo un vero e proprio progetto sociale. Il club crea strutture apposite per facilitare l'adattamento dei sudamericani, dai corsi di lingua russa ai ristoranti che servono feijoada. Questa attenzione ai dettagli si traduce in prestazioni in campo. Non è un caso che molti brasiliani dello Shakhtar restino a Donetsk per anni, invece di usare il club solo come trampolino di lancio.
Lo Shakhtar 2008-2009 è una squadra da romanzo dove ogni giocatore rappresenta un capitolo. Pyatov, il portiere-filosofo. Srna, il capitano-poeta. Fernandinho, il metronomo silenzioso. Jadson, la piuma che danza sul pallone. Luiz Adriano, il sorriso.
Čyhryns'kyj, giovane difensore con barba e cervello, legge Dostoevskij prima delle partite. Srna, attuale leggenda vivente del club, manda messaggi motivazionali ai compagni a notte fonda. Jadson, prima di ogni match, accende un incenso in stanza e medita mentre ascolta Caetano Veloso. Persino l’autista del pullman ha un rituale: ogni viaggio della squadra inizia con la canzone “Asa Branca” di Luiz Gonzaga.
L'Epica cavalcata verso Istanbul
Il cammino dello Shakhtar in quella che sarà l'ultima edizione della Coppa Uefa inizia dopo la retrocessione dalla Champions League, in un girone che vede gli ucraini piazzarsi terzi dietro a Barcellona e Sporting Lisbona. Nonostante una storica vittoria al Camp Nou contro i blaugrana, la doppia sconfitta contro i portoghesi condannano gli ucraini al terzo posto nel girone, aprendo le porte della Coppa Uefa.
Ai sedicesimi di finale, l'ostacolo è rappresentato dagli inglesi del Tottenham. Nella fredda Donetsk, lo Shakhtar impone la sua superiorità con un convincente 2-0. Al ritorno a White Hart Lane, un pareggio per 1-1, con il gol del definitivo pari siglato da Fernandinho a pochi minuti dalla fine, sancisce il passaggio del turno.
Gli ottavi di finale mettono sulla strada dei ragazzi di Lucescu i russi del CSKA Mosca. Dopo una sconfitta di misura per 1-0 in trasferta, la sfida di ritorno a Donetsk si trasforma in una battaglia. Il rigore trasformato da Fernandinho e il gol di Luiz Adriano regalano la vittoria per 2-0 e la qualificazione ai quarti.
Nei quarti, l'Olympique Marsiglia si dimostra un avversario ostico, ma lo Shakhtar è inarrestabile. Un doppio 2-0 tra andata e ritorno, con gol di Hübschman e Jádson in casa e Fernandinho e Luiz Adriano in trasferta, proietta la squadra di Lucescu in semifinale.
La semifinale ha il sapore di una finale anticipata: il destino mette di fronte allo Shakhtar i rivali storici della Dinamo Kiev in una sfida fratricida, carica di tensione e significati. È la partita più dura, più emotiva.
L'andata a Kiev si conclude con un pareggio per 1-1, con Fernandinho a rispondere al vantaggio iniziale della Dinamo. Il ritorno a Donetsk è un'altalena di emozioni. Jádson porta in vantaggio lo Shakhtar ma la Dinamo pareggia. Quando i tempi supplementari sembrano inevitabili, all'89' minuto, Ilsinho si inventa un golazo che fa esplodere lo stadio e regala allo Shakhtar una storica qualificazione alla finale di Istanbul.
La notte di Istanbul
Il 20 maggio 2009, lo stadio Şükrü Saraçoğlu è il palcoscenico dell'ultima finale di Coppa Uefa. Opposto allo Shakhtar c'è il Werder Brema, una solida squadra tedesca con giocatori di talento come Mesut Özil e Claudio Pizarro. L'atmosfera è elettrica, carica di attesa e speranza per entrambe le squadre, entrambe a caccia del loro primo grande trofeo europeo.
La partita inizia e i ragazzi di Lucescu si dimostrano subito vivaci. Al 25' minuto, su un preciso filtrante di Raţ, Luiz Adriano è un fulmine ad avventarsi sul pallone e, con un elegante tocco sotto, beffa l'uscita disperata di Wiese, portando in vantaggio i "minatori".
Ma il Werder non si arrende e dieci minuti dopo trova il pareggio. Una punizione potente ma centrale di Naldo sorprende Pyatov. L'1-1 gela per un attimo l'entusiasmo dello Shakhtar.
Il secondo tempo è una battaglia con poche emozioni. Si va così ai tempi supplementari.
È al 7' del primo tempo supplementare che il sogno dello Shakhtar si materializza. Il capitano Srna, con la sua consueta generosità, sfonda sulla fascia destra e crossa rasoterra al centro. Lì, appostato, c'è Jádson, che con un destro preciso e potente non lascia scampo a Wiese. È il gol del 2-1, il gol che decide la finale, il gol che entra di diritto nella storia del calcio ucraino.
"In quel momento ho sentito Donetsk esplodere, anche se ero a migliaia di chilometri", confesserà Lucescu in un’intervista.
Nei minuti finali, il Werder tenta un disperato assalto alla ricerca del pareggio, ma lo Shakhtar resiste. Al triplice fischio finale dell'arbitro spagnolo Luis Medina Cantalejo, le lacrime di Willian, le urla di Fernandinho, tutta Donetsk esplodono in un'unica, infinita emozione. Lucescu ha mantenuto la promessa fatta ad Akhmetov. Lo Shakhtar diventa la prima squadra ucraina a conquistare un trofeo europeo. L’ultima edizione della Coppa Uefa prima del cambio nome.
L'eredità
L’eredità di questa impresa è immensa. Questa vittoria non è solo un trionfo sportivo per lo Shakhtar, ma un momento di orgoglio nazionale per l’intera Ucraina. La vittoria dimostra che anche lontano dalle grandi città del calcio europeo, si può scrivere la storia con un pallone. Dimostra che, nonostante le difficoltà e le transizioni, il talento e la determinazione possono portare a risultati straordinari.
Dopo la gloriosa notte di Istanbul, lo Shakhtar continua a dominare la scena nazionale, vincendo numerosi campionati e coppe ucraine. Il progetto di Rinat Akhmetov continua a produrre talenti e dal Brasile continuano ad arrivare giocatori come Douglas Costa e Alex Teixeira. La squadra partecipa regolarmente alla Champions League, raggiungendo anche i quarti di finale nella stagione 2010-2011.
Poi, nel 2014, la guerra nel Donbass sconvolge la vita del club. La Donbass Arena, simbolo della modernità e delle ambizioni dello Shakhtar, viene danneggiata dai combattimenti. La squadra è costretta all’esilio e a giocare le partite casalinghe in diverse città dell’Ucraina: prima a Leopoli, poi a Kharkiv e infine a Kiev dove stabilisce anche la sede legale del club.
Nonostante questa diaspora forzata, lo Shakhtar non si arrende, continua a vincere il campionato ucraino e a partecipare alle coppe europee.
Anche oggi, mentre l'Ucraina affronta sfide ancora più grandi a seguito dell'invasione russa del 2022, la squadra diventa simbolo di una nazione. Lo Shakhtar oggi non ha più lo stesso luccichio. Ma ha qualcosa di più: la memoria. Ha Istanbul nei suoi occhi. E ogni volta che il pallone rotola sul campo, anche solo per un istante, Donetsk torna a vivere. Anche ora, sotto un cielo che spesso si tinge di grigio fumo, c'è chi giura di sentire ancora, nella notte, l'eco di quei passi, di quei canti, di quella gloria.
"Abbiamo vinto per una città, per un popolo, per un’idea di calcio." – Mircea Lucescu
I volti e i luoghi di una leggenda
Willian
Capelli ricci come onde ribelli, sorriso da bambino che sogna, piedi rapidi come pensieri. Willian è il talento puro, l’estro che non puoi imbrigliare. A Donetsk arriva da sconosciuto, timido, quasi sperduto. Ma in campo danza, e ogni tocco di palla racconta una storia diversa. "Lo Shakhtar è stato la mia famiglia quando ero lontano da casa", racconterà anni dopo. A Istanbul, è lui a spaccare il Werder con le sue accelerazioni imprendibili. Parte da Donetsk per conquistare Londra e il mondo, ma porta sempre con sé un pezzo di quella terra, fredda fuori e calda dentro.
Jadson
L'anima silenziosa della squadra. Non il più veloce, non il più forte, ma quello che vede sempre prima la giocata. Jadson è il battito nascosto dello Shakhtar, il genio sommesso. Quando segna il gol decisivo nella finale, corre verso la curva, braccia aperte come un ragazzo in estasi, occhi al cielo. Non urla, non esulta scompostamente. Sembra quasi ringraziare. Quel momento resterà il suo diamante: "Sapevo che non avrei mai vissuto qualcosa di più bello", confesserà più tardi.
Fernandinho
Il motore inesauribile, la mente lucida, il guerriero con l’anima da artista. Fernandinho rappresenta la trasformazione dello Shakhtar: da gruppo promettente a squadra vincente. Non solo tecnica sopraffina, ma leadership, resilienza, coraggio. Ogni metro di campo conquistato, ogni contrasto vinto, è una poesia di volontà. Quando lascia Donetsk per inseguire la Premier League, lo fa con le lacrime agli occhi. "In Ucraina ho imparato cosa vuol dire lottare per qualcosa che ami."
Mircea Lucescu
Padre, filosofo, artigiano di sogni. Lucescu non guida solo una squadra: scolpisce destini. Crede nel talento, ma ancor più nel carattere. Non accetta mai la superficialità. Ai suoi brasiliani insegna a resistere al gelo dell’Est e alle seduzioni del successo facile. "Chi gioca per lo Shakhtar deve essere disposto a trasformarsi", ripeteva. La sua ombra gentile veglia ancora oggi su ogni passo del club.
La Donbass ArenaI
Inaugurata nell'estate del 2009, subito dopo il trionfo europeo, avrebbe dovuto essere il tempio definitivo di quel sogno. Un capolavoro d’architettura moderna, uno stadio da cinquantamila posti. Luci cangianti, linee futuristiche, spazi immensi: sembrava una promessa solenne di grandezza eterna. Per qualche anno, la Donbass Arena è il palcoscenico delle notti magiche di Champions League. Squadre come Barcellona, Chelsea, Roma tremano sul suo prato verde. Ma poi arriva il 2014. La guerra esplode nel Donbass. I vetri della Donbass Arena si infrangono sotto le bombe, le tribune si svuotano, il silenzio ruba il posto ai cori. Oggi, lo stadio sopravvive come un gigante ferito, una cattedrale abbandonata che ancora custodisce, pietra su pietra, il ricordo di quella notte di Istanbul.
Curiosità e aneddoti
- Ilsinho, autore dell’assist decisivo nella finale, arrivò allo Shakhtar quasi per caso: fu consigliato a Lucescu da un osservatore che lo aveva visto giocare a futsal.
- Prima della finale, Lucescu fece vivere ai suoi ragazzi un ritiro quasi monastico: niente telefoni, niente distrazioni, solo allenamenti e meditazione.
Racconto a cura di Biagio Gaeta