Tim Wiese, The machine
È noto, il mondo del calcio è un vortice che ti risucchia e dal quale è difficile uscire, quantomeno spontaneamente. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, sono in tantissimi i giocatori che si riciclano in vari ruoli. Ogni anno, vediamo spuntare come funghi: commentatori sgrammaticati, opinionisti spaesati, allenatori nel pallone e dirigenti inamidati. Chi più capace e competente e… chi meno. Inizia una nuova vita. Bisogna mettersi alla prova e farsi valere per continuare ad ogni costo a contare qualcosa nel favoloso mondo del pallone.
C’è invece chi a 32 anni decide di sfilarsi per l’ultima volta i guanti da portiere e dedicarsi al bodybuilding. Ma se bilanciere e panca non bastano, c’è bisogno di inventarsene un’altra di più grossa.
Cosa? Aberrante per noi europei, meraviglioso per gli americani, perfetto per Tim: il wrestling professionistico.
Dalle sponde del Reno a quelle del Weser
Nasce nell’81 a Bergisch Gladbach, peraltro città natale anche di Mats Hummels. A pochi chilometri, laddove scorrono le acque del Reno, c’è Colonia con la sua maestosa cattedrale e il Fortuna Köln, club di Regionalliga tedesca, che nel 2000 preleva un promettente ragazzone locale dalle giovanili del Bayer Leverkusen. Dopo appena un anno e mezzo è ceduto al Kaiserslautern che dapprima lo impiega nella squadra B in terza divisione, per poi successivamente promuoverlo come terzo portiere della prima squadra in Bundesliga. Non ci vorrà molto per capire che il carattere e la tenacia del ragazzo lo potranno portare in alto. Così, già nel 2002 arriva il debutto in campionato e le gerarchie in casa Kaiserslautern cominciano a cambiare vedendo sempre più spesso il giovane talento preferito a Georg Koch.
Le acque del Reno però scorrono e puntano a nord. Con loro, il giovane Tim mette in valigia guanti e speranze per trasferirsi là dove diventerà idolo. In quello stadio costruito su un’ansa di un altro fiume, il Weser, Weserstadion per l’appunto. Se non fosse ancora chiaro, stiamo parlando di Brema e del mitico Werder.
Gli anni di Brema
Nella città dei musicanti le cose non iniziano come sperato. Come in una fiaba uscita dalla penna dei fratelli Grimm, l’equilibrio idilliaco iniziale viene intaccato da una complicazione. Il legamento del ginocchio fa crack e al colosso tedesco servirà quasi un anno per poter fare il suo esordio in maglia Werder.
Doverosa precisazione: quella, in quegli anni, non è una squadra qualsiasi. Guidati dalla leggenda vivente Thomas Schaaf, allenatore e protagonista dei migliori successi della storia del club dagli anni ’80 per ben 14 anni. Il 2004, anno precedente all’arrivo di Wiese, con la straordinaria doppietta Campionato-Coppa, o la finale di Coffa UEFA persa per 2-1 con lo Shakhtar nel 2009, sono gli esempi più clamorosi di imprese di quella squadra che ha visto passare giocatori come: Özil, Klose, Mertesacker o Diego.
Sette anni con quella maglia come idolo indiscusso della tifoseria, soprattutto perché dotato di quello straordinario dono concesso a pochi: il carisma.
Croce e delizia
Per parare servono riflessi, forza nelle gambe per saltare ed arrivare a deviare i palloni più angolati, senso della posizione, tecnica e concentrazione.
Effettivamente, se c’è qualcosa che accomuna questi due ruoli è proprio il bisogno di quella grinta, di quella tenacia, di quel carisma, quel non so che fuori dal comune per buttarla dentro, o impedire che vada dentro. Se vogliamo, potremmo definirlo un rapporto primordiale con la sfera, tipico dei bomber e dei portieri, incarnato perfettamente da Wiese.
Perché diciamolo…affascinante, cattivo, tenace…le qualità non mancano, ma nemmeno le papere.
Per anni, i tifosi biancoverdi si esaltano per la grinta di quel leone tra i pali e disperano per le fesserie compiute dal suo alter ego.
Vera croce e delizia inserito in una squadra nella quale recita il ruolo di trascinatore, ma contemporaneamente anche quello di anello debole.
Ne sanno qualcosa i tifosi juventini, dopo quella papera clamorosa negli ottavi di finale di Champions League 2005/06. Della serie: “passaggio del turno per gli uomini di Capello gentilmente offerto da Tim Wiese”.
O ancora, il clamoroso colpo di Kung Fu ai danni di Ivica Olić, che lascia presagire qualcosa riguardo la futura professione del tedesco.
Cambio vita
Così, arriva il momento di dire basta al calcio, dopo un tentativo di amore mai sbocciato con l’Hoffenheim. Forse su Tim grava meno il peso dei bilancieri rispetto a quello dei guanti da portiere. Per passione, o per fuggire a delle pressioni ormai insopportabili, non lo sappiamo, ma sta di fatto che la sua strada lo porta dritto dritto alla panca. No, non quella a bordo campo dove si siedono le riserve, ma quella della palestra.
Rinato, in un corpo il doppio di prima (e sì che anche come calciatore tanto piccolo non era), la sua nuova vita è il bodybuilding e il wrestling.
Nel 2016 a Monaco di Baviera, debutta tra i professionisti di uno sport che adora e che rispecchia le sue caratteristiche umane, la sua voglia di combattere e l’amore per lo show. Tra il pubblico, gli ex compagni Mertesacker e Frings, vedono salire sul ring con il nome “The Machine” una persona nuova, trasformata nel fisico, ma forse -anzi- probabilmente, non tanto nel carattere, unico e inimitabile, quello di quel matto di Tim Wiese.