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Luca Castellazzi, la porta dei sogni

La scelta di fare il portiere, semplicemente per la voglia di giocare. E l’arte di saper scegliere il proprio percorso. Ecco come ha fatto Luca Castellazzi a realizzare i propri sogni, diventano uno dei numeri uno più affidabili della nostra serie A
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Luca Castellazzi - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Luca Castellazzi ha 8 anni la prima volta che decide di voltare le spalle alla porta e passare il resto della vita a difenderla piuttosto che ad attaccarla.

Gioca nel Brugherio, a una ventina di minuti da Gorgonzola, il paese dove è nato e cresciuto.

Il motivo di quella scelta è semplice: tutti desiderano fare gli attaccanti, segnare ed esultare, nessuno vuole fare il portiere. Nessuno vuole sporcarsi la tuta, prendere freddo, sentirsi la responsabilità di non poter sbagliare, in un mondo in cui se vinci è spesso merito degli altri, mentre se perdi capita che sia colpa tua.

A Luca tutto ciò non interessa. A Luca piace giocare. E il portiere è l’unico ruolo che gli dà la possibilità di farlo sempre, senza doversi per forza dividere con gli altri.

Ci ha visto bene, quel giorno, Luca. Ha visto nella porta un potenziale Stargate, in grado di permettergli di rincorrere i propri sogni.

Presto entrerà nel settore giovanile del Monza. E da lì inizierà una strepitosa carriera, che gli consentirà di giocare ai massimi livelli, negli stadi più belli, incrociando la strada con assoluti campioni di questo meraviglioso sport.

Un percorso fatto di sacrificio, bravura, intelligenza e soprattutto scelte giuste.

L’inizio col botto a Varese

Perché alla fine lo sport, esattamente come la vita, è tutto qui: ritrovarsi di fronte a un bivio e sapere scegliere la giusta direzione, che non per forza dev’essere, almeno inizialmente, la più facile o la più comoda.

Il primo anno da titolare nei pro Luca Castellazzi lo gioca a Varese, dove il Monza lo manda per farsi le ossa e mettere in cascina qualche presenza, in C2.

Con i bosini inizia col botto, vincendo subito la Coppa Italia di serie C 1994/95. Quella stagione gli consente di tornare al Monza dalla porta principale, e non più da quella di servizio. E di imporsi come titolare, in una stagione in cui i brianzoli sfiorano la serie B, perdendo la semifinale playoff contro l’Empoli di un certo Luciano Spalletti, e, sempre contro i toscani, anche la finale di Coppa Italia Serie C (per Castellazzi sarebbe stata la seconda in due anni).

Le parate e le prestazioni di Luca fanno molto parlare di lui in sede di mercato. È chiaro a tutti che, a dispetto della giovane età (21 anni, per un portiere, sono veramente pochi), è pronto per misurarsi con un campionato di livello superiore.

La serie B sembra l’ambiente ideale in cui continuare un percorso di crescita. Ci andrà in serie B, ma, sorprendendo un po’ tutti, sceglie di andare a Padova. Dove inevitabilmente si ritroverà a fare il secondo.

Perché il numero uno dei biancoscudati, quell’anno, è un certo Walter Zenga.

A lezione dall’Uomo Ragno

A metà degli anni 90 Walter Zenga è una specie di totem per il calcio italiano, e per chiunque faccia o ami il ruolo del portiere.

È vero, sono gli ultimi anni della carriera dell’Uomo Ragno, e chissà se è stato questo, all’epoca, uno dei motivi che hanno spinto Luca a scegliere la città del Santo.

Ma è comunque opinione comune che Walterone, in serie B, possa giocare anche bendato. E che a Castellazzi non restino che le briciole, scampoli di partita (forse).

Senza dubbio qualcuna delle persone a lui vicine glielo avrà detto, a quel tempo: “Luca ma sei scemo? Vai a giocare caspita! non a prendere polvere in panchina”.

In realtà il ragazzo ha azzeccato perfettamente la prima strada giusta della propria carriera. Non solo perché Zenga l’anno successivo andrà via, alla scoperta dell’America (intesa come Major League Soccer). Ma anche e soprattutto perché, quella stagione 1996/97, Luca si ritaglierà eccome il proprio spazio, giocando circa 20 partite.

E il suo esordio, in particolare, rimarrà memorabile. Quando para un rigore al bresciano Maurizio Neri.

Aggiungiamo anche che allenarsi tutto l’anno al fianco di uno dei principali interpreti del ruolo dell’epoca lo aiuta a crescere tantissimo. E ad aggiungere skills al proprio bagaglio tecnico e personale.

Un Padova in cui oltretutto giocano due ragazzi come Stefano Pioli e Massimiliano Allegri. Ne sentiremo parlare, negli anni a venire…

L’azzardo di Brescia

A Padova rimane in tutto 3 stagioni, di cui mezza trascorsa in prestito a Pescara. Giocando, a dire la verità, a corrente piuttosto alternata, nel continuo ascensore patavino tra serie B e C1.

Nell’estate del 1999 siamo punto e a capo: Luca deve trovarsi una squadra, e scegliere di nuovo la migliore opportunità per la propria carriera.

La pallina della roulette cade su Brescia. Altra scelta che in molti, all’epoca, gli avranno sicuramente sconsigliato.

Il Brescia è in serie B, e ha il chiaro obiettivo di tornare, al più presto, in massima serie. Le rondinelle, tuttavia, hanno appena comprato Gilbert Bodart, portiere belga nipote d’arte, dallo Standard Liegi, spendendo pure qualche bel quattrino. Sarà lui il numero uno, e a Castellazzi toccherà di nuovo accomodarsi, almeno inizialmente, in panchina.

In realtà Luca ha fatto tombola di nuovo. Bodart infatti non si rivelerà una invalicabile saracinesca, tutt’altro. E Castellazzi, esattamente come a Padova, quando gioca lascia il segno, e para un rigore a Nicola Caccia nel sentitissimo derby contro l’Atalanta.

La storia sembra ripetersi, con il Brescia che a fine anno conquista l’agognata promozione. Quindi sarà Castellazzi il titolare in serie A? Niente affatto, perché il presidente Corioni gioca le sue fiches sull’impronunciabile ceco Pavel Srnicek.

Anche quest’ultimo avrà “vita breve”, rimanendo solo un anno. E lasciando finalmente il posto da titolare al buon Luca, che ora sa di avere di nuovo scelto bene.

Carletto, Roby, Pep e Vittorio

Brescia rimarrà sempre un posto del cuore per il nostro Luca.

Un legame che va ben al di là del mero risultato sportivo. Entra nelle viscere, arrivando dritto dritto a quella parte del nostro corpo che ci fa vibrare e palpitare dall’emozione.

Essere al Brescia, in quegli anni, vuol dire vivere in prima persona una delle favole più belle del nostro calcio, che lo ripetiamo, poco c’entra col risultato sportivo. Non si parla di coppe, di titoli o trofei. Ma di persone, di valori umani.

È il Brescia di Carletto Mazzone e di Roberto Baggio. Una squadra per cui, sotto sotto, abbiamo a un certo punto un po’ tifato tutti. Vuoi perché nessuno voleva vederli retrocedere, vuoi perché desideravamo con tutto il cuore che il Divin Codino ci andasse a quei dannati Mondiali di Corea e Giappone.

Brescia vuol dire anche Pep Guardiola, il genio arrivato da lontano, e inchinatosi poi di fronte al “più forte”, come lo stesso catalano ha sempre definito.

Vuol dire anche, purtroppo, perdere Vittorio Mero. E non passa giorno in cui la mancanza dello Sceriffo non si faccia sentire, nel cuore di chi lo ha conosciuto.

È successo di nuovo

Estate 2005. Ci risiamo. A Brescia finisce la polverina magica, la squadra retrocede, e Luca Castellazzi finisce alla Sampdoria. Secondo di Francesco Antonioli.

Anche qui però vale la pena scegliere Genova. Il primo anno, infatti, Luca, alternandosi con il portiere ex Roma, gioca in Coppa Italia ma soprattutto in Coppa Uefa. Conoscendo per la prima volta il vero calcio europeo, solo assaggiato ai tempi dell’Intertoto con il Brescia.

L’anno successivo Castellazzi è titolare. E a Genova scrive forse la pagina professionalmente più importante della propria carriera.

È il club per cui, in assoluto, ha giocato di più. È la squadra con cui arriva più in alto, sfiorando la clamorosa vittoria della Coppa Italia, nella stagione 2008/09, salvo poi perdere la finale contro la Lazio. E in quella competizione il suo apporto è stato davvero determinante.

Sono gli anni, più in generale, in cui Castellazzi si impone nel massimo campionato, risultando spesso uno degli estremi difensori maggiormente affidabili di tutta la nostra serie A.

Anche i blucerchiato ha poi l’occasione di entrare in un’altra delle squadre più iconiche del nostro calcio recente. L’ultima sua Sampdoria, infatti, è quella della terribile coppia d’attacco Cassano-Pazzini, che terrorizza le difese del campionato italiano.

Il quarto posto finale vale la conquista dei preliminari di Champions League. Che Luca, tuttavia, non giocherà.

In primis perché nel gennaio 2009 si fa male al ginocchio, e costringe la Doria a prendere dal Milan Marco Storari. Ma soprattutto perché, nel frattempo, è arrivata la Chiamata, con la C non a caso maiuscola.

Dall’Inter.

Forse per la prima volta Luca sa di andare a fare inevitabilmente il secondo, senza troppe possibilità di scalzare il portiere titolare. Perché il numero uno nerazzurro, nel 2010, è Julio Cesar, che vive un vero e proprio stato di grazia.

Ma anche la scelta di andare a fare il 12esimo a Milano si rivela, in fin dei conti, azzeccata.

Luca infatti si allena in una squadra formidabile, reduce dallo storico Triplete con Mourinho. Imparando cosa vogliano dire le pressioni che stanno in capo alle grandi squadre.

Vince poi. Con Benitez allenatore l’Inter si laurea Campione del Mondo per Club. Oltre a portarsi a casa, sempre quell’anno, Coppa Italia e Supercoppa Italiana.

E anche in nerazzurro, quando gioca lascia il segno. A Milano tutti si ricordano ancora del rigore che parò a El Tanque Denis, salvando il risultato in un match contro l’Atalanta, terminato poi 1-1.

Sono le ultime apparizioni della sua carriera, conclusa quindi toccando il picco più alto. Perché negli ultimissimi anni, al Torino, disputa giusto qualche minuto in Coppa Italia, complice l’infortunio di Padelli.

La scelta giusta: da allora in poi

Oggi Luca è un eccellente preparatore di giovani portieri, nonché apprezzato commentatore tecnico.

Voltandosi indietro, e tornando a quella volta in cui, a 8 anni, ha deciso di voltare le spalle alla porta, siamo sicuri che possa ritenersi ampiamente soddisfatto.

Voleva solo giocare. E ha giocato, eccome se ha giocato.

La porta alla fine è stato davvero il suo Stargate. Una volta messosi a sua eterna difesa, ha realizzato i propri sogni da bambino, costruendosi un nutrito forziere, di ricordi e di esperienze, che ora può tranquillamente trasmettere a chi ne vuole ripercorrere le orme.

Ha saputo sempre scegliere bene, anche quando tutti gli consigliavano di andare in un’altra direzione.

E alla fine, come detto, l’essenza dello sport e della vita è tutta qui: crederci e continuare a crederci. Che sia mai che i sogni, un giorno, si realizzino davvero.

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