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Matteo Sereni, il buttafuori

Gli esordi con la Samp, il “tradimento” di Lippi e la nemesi con Peruzzi. La storia del portiere diventato poi idolo al Torino.
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Matteo Sereni - Illustrazione Tacchetti di Provincia

186 centimetri per 80 chili. Che quando te lo trovi davanti paiono almeno il doppio, per quanto pare alto, massiccio e muscoloso.

Un fisico che ti permetterebbe, in una qualsiasi altra vita, di fare tranquillamente il buttafuori. All’esterno dei locali, a dire agli ospiti “tu puoi entrare, tu invece no”. Perché davanti a uno così non ti viene da chiedere il perché.

Ma se sei nato con una reattività e una plasticità che, abbinata a un fisico così possente, è propria solo di pochi altri (forse Angelo Peruzzi, di cui è sempre stato considerato l’erede, salvo poi diventarne, suo malgrado, il sostituto), allora il tuo destino è quello di fare il portiere. Ad alto, altissimo livello.

Così, l’unica cosa che Matteo Sereni ha dovuto buttare fuori, nel corso della sua esperienza lavorativa, sono stati i palloni, dalle porte che è stato chiamato a difendere.

E lo ha fatto bene. Sempre molto bene.

Lippi dice no

 

È il 1999, e la carriera di Matteo Sereni si trova a un bivio.

Dopo gli inizi, da terzo dietro a Zenga e Pagotto, alla Sampdoria, la squadra che lo ha allevato, e gli esordi proprio in blucerchiato, Matteone si è spostato prima a Piacenza, con una prima, eccellente, annata da titolare, quindi a Empoli, dove si è affermato definitivamente nel palcoscenico della serie A.

Il suo cartellino è ancora della Samp. E alla dirigenza ligure arrivano diverse offerte allettanti: in particolare Roma, Juventus e Inter sono interessate al giocatore.

La Roma non ha trovato in Antonio Chimenti il numero 1 che pensava di trovare. La Juve ha chiuso l’era Peruzzi, e cerca ora un degno sostituto. L’Inter invece vuole tornare grande, e in Sereni ha visto il proprio guardiano ideale dei pali.

Sono proprio i nerazzurri a recapitare l’offerta migliore: 30 miliardi di vecchie lire, forse anche qualcosa in più.

La Samp ovviamente accetta, e Matteo già si immagina sul prato di San Siro davanti alla Curva Nord.

Poi, all’improvviso, tutto si blocca: perché nel frattempo l’Inter ha assunto l’ex nemico Marcello Lippi come nuovo allenatore. E il mister viareggino ha occhi per un solo numero 1: Angelo Peruzzi (se lo porterà anche in Germania, a vincere lo straordinario Mondiale del 2006).

L’affare si fa; d’altronde, come detto, il buon Tyson ha chiuso la sua vincente epopea alla Juventus.

Tradito, beffato, forse anche umiliato, Sereni decide di rimanere a Genova. E di ripartire, con la Samp, addirittura dalla serie B. E, forse proprio a causa di questa cocente delusione, da qui in poi cambierà radicalmente la sua visione del mondo del calcio.

Di nuovo Peruzzi

Nel 2001 Sereni è in Premier League, all’Ipswich Town. A provare l’ebbrezza della Coppa UEFA e del campionato più “bello” del mondo. Le virgolette non sono casuali, perché nonostante l’apporto del portiere parmense, quella stagione il Town retrocede in Championship.

Eccolo quindi di nuovo in Italia, a Brescia per la precisione. Dove si riconquista, a suon di grandi parate, la possibilità di andare in una grande, seppur in ricostruzione: la Lazio.

È il 2003, e in casa biancoceleste si prova a chiudere l’era Cragnotti e a ripartire. Sereni non è il titolare, perché c’è chi? Ovviamente Angelo Peruzzi. L’eterna nemesi, il nemico-amico. Che relega Matteo spesse volte in panchina. Proprio quando, a 30 anni, un portiere è solitamente nel pieno della sua maturità.

Il rapporto con Delio Rossi fa quindi definitivamente deflagrare la situazione. Matteo prima va qualche mese a Treviso. Poi finisce a Torino.

Altra pietra miliare della sua carriera.

L’idolo della Maratona

In maglia granata Matteo Sereni diventa ben più che un portiere. Diventa un idolo.

Quel suo fisicio statuario, quel suo carattere un po’ “orso” (come lui spesso si definisce) e quella sua schiettezza, a cui mai è disposto a rinunciare (a Lippi, durante un incontro capitani-allenatori, non si fa problemi a dirgli “mi hai rovinato la carriera”) si sposano perfettamente con il sentimento della Curva Maratona.

È un amore lungo 4 anni, quello tra Sereni e il Torino. 98 partite per la precisione.

Tra gli alti e bassi di un club che il nuovo presidente, Urbano Cairo, sta provando a far tornare grande. Con pazienza, e a volte commettendo anche gravi errori. Ma sempre trainato dalle migliori intenzioni.

Sereni a Torino si sente a casa. Forse è proprio quello il posto giusto per uno come lui. Un club grande, enorme, a cui ora tocca sgomitare per guadagnarsi un posto al Sole, mentre gli odiati cugini in bianconero vincono tutto (o quasi).

Le prestazioni sono ovviamente ottime. Come quando para due rigori nella stessa partita a Maccarone, in un Torino-Siena giocato all’Olimpico (a onor di cronaca, Big Mac la seconda volta insaccherà sulla ribattuta).

Meriterebbe, forse, anche un posto in Nazionale. Non da primo chiaramente, in costanza di Buffon. Ma magari da secondo, come già gli era accaduto ai Giochi del Mediterraneo del 1997, quando era proprio Gigi il numero 1, e Matteo il 12.

Ma l’Italia neo-campione del mondo conferma Marcello Lippi in panchina. Un po’ restio nel chiamare chi gli ha deliberatamente dato del “traditore”.

Quando poi gli azzurri falliranno clamorosamente il mondiale sudafricano, la curva del Toro non avrà dubbi: “Con Sereni in Nazionale andavamo in finale”

Hakuna Matata

Il Matteo di oggi è una delle persone più distanti dal calcio che possano esistere. Non è infastidito dal suo passato, né tantomeno è scemata in lui la passione per lo sport che gli ha dato da vivere.

Semplicemente non è uno che si guarda alle spalle, non pensa a ciò che è successo. È abituato a guardare avanti, è una deformazione professionale più forte di lui: puoi aver preso 4-5 gol nel corso di una partita, ok, ma ora concentrati sulla prossima parata.

Non fa l’allenatore, nemmeno il preparatore dei portieri, tantomeno il commentatore in tv o l’assistente tecnico. Nessuno sà come impieghi ora le proprie giornate.

La cronaca ha recentemente riproposto il suo nome per questioni legali che ora, onestamente, ci interessano poco.

In primis perché amiamo ricordare quando volava tra i pali, con quel fisico pesante e leggiadro come pochi.

In secondo luogo perché, anche se fosse, non avremmo probabilmente il coraggio di andare a chiedergli “perché”

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