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Andrea Caracciolo, il nido dell'airone

L’indissolubile amore tra Andrea Caracciolo e Brescia, intesa come squadra e provincia. Lui, che tutti pensavano sarebbe diventato il vice-Toni
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Andrea Caracciolo - Illustrazione Tacchetti di Provincia

L’airone, come comunemente inteso, è tipo di uccello plantiforme dall’aspetto slanciato, dotato di gambe e collo lungo, coda corta e becco robusto.

Il suo nome tecnico (ardeidae) deriva dalla cittadina di Ardea, da cui, secondo i racconti di Ovidio, un esemplare si alzò in volo, poco dopo la riduzione in cenere della stessa città. E da qui il mito dell’araba fenice.

Per sua natura tende a spostarsi, all’inizio dell’autunno, per raggiungere luoghi di svernamento, dai quali poi ritorna verso febbraio.

Esistono però forme atipiche di airone, che tendono invece a rimanere il più possibile nei pressi del nido, senza sentire necessariamente il bisogno di spostarsi altrove. È lì che si esprimono meglio in tutta la loro magnificenza.

A Brescia l’Airone è solo uno: Andrea Caracciolo. Miglior marcatore nella storia delle Rondinelle.

Uno che dal suo nido, la provincia della Leonessa d’Italia, ha provato a spostarsi. Salvo poi capire che il meglio di sé lo sapeva dare proprio quando si trovava nei pressi di casa.

Brescia. E che Brescia!

Il Brescia della stagione 2001-02 è una bellissima squadra in cui crescere, soprattutto se la tua ambizione è quella di fare l’attaccante e il tuo obiettivo è quello di sfondare in serie A.

Carletto Mazzone allenatore. Per tutti quei giocatori, praticamente un papà. In rosa gente come Roberto Baggio, Pep Guardiola, Federico Giunti a confezionare palloni giocabili per le punte. E davanti un modello come Luca Toni a cui ispirarsi, da cui prendere esempio.

È qui che Andrea Caracciolo muove i suoi primi passi nel calcio che conta. Dalle giovanili del Milan (club di cui rimane tifosissimo) alla serie D con le maglie di Solbiatese, Alcione e Sancolombano. Proprio in quest’ultimo club il nostro Airone incontra un allenatore, tal Paolo Sollier, che gli cambierà innanzitutto ruolo, e in secondo luogo la vita. Trasformandolo da legnoso difensore centrale a prima punta di peso.

All’epoca Andrea è un giocatore molto dotato fisicamente (194 cm per un’ottantina di chilogrammi), fortissimo nel gioco aereo e bravo nella tecnica individuale, capace di far salire la squadra e fare reparto da solo.

Dopo due sterili esperienze a Como e a Vercelli, si aggrega stabilmente alla prima squadra del Brescia, appunto, per completare un reparto che vede, oltre ai già citati Toni e Baggio, anche Igli Tare.

L’idea di Mazzone è piuttosto semplice: sfruttare i “lunghi” della propria rosa per dare peso al proprio attacco, lasciando al Divin Codino la libertà di determinare tutto il resto.

Esordio al Dall’Ara, il giorno dell’Epifania. I primi gol due mesi più tardi: una doppietta rifilata al povero Guardalben che gli spalanca ufficialmente le porte del grande calcio.

Il primo flusso migratorio

La stagione successiva avviene la prima migrazione del nostro Airone.

Il Perugia lo porta in Umbria per una stagione in prestito secco. 22 le presenze al termine del campionato, solo due le reti segnate. Troppo poche per essere riconfermato al Grifo.

Il “suo” Brescia gli rispalanca le porte di casa. Roby Baggio c’è ancora, e si appresta a disputare la sua ultima stagione da professionista. Luca Toni invece no, partito verso altri lidi nel lungo percorso che lo porterà, qualche anno più tardi, a laurearsi campione del Mondo, sotto il cielo di Berlino.

Nelle idee del nuovo allenatore, Gianni De Biasi, Andrea rappresenta il sostituto ideale del bomber di Pavullo nel Frignano. Caracciolo non lo sa, ma questa etichetta di vice-Toni gli si appiccicherà malvolentieri addosso, e non se la staccherà più fino praticamente al termine della sua carriera.

Nei due anni successivi, l’Airone non fa mancare il suo contributo a livello realizzativo: 12 reti il primo anno, altrettante il secondo. Fatte in tutti i modi: di testa soprattutto, ma anche di piede, di rapina, di astuzia e su rigore, dove raccoglie l’eredità del Codino diventando un vero specialista.

Ma è il Brescia a essere cambiato. Il ritiro di Baggio toglie magia a una squadra che, nel 2005, chiude penultima in campionato, retrocedendo in serie B.

Il vice-Toni

Nell’estate di quell’anno il secondo volo dell’Airone, lontano dal suo nido.

Il destino sa essere bizzoso. Caracciolo firma per l’ambizioso Palermo di Zamparini, rivelazione dell’ultima serie A, chiamato a raccogliere l’eredità di chi? Ovviamente, di Luca Toni. Passato alla Fiorentina, dove segnerà valanghe di gol.

Quella di Caracciolo come vice-Toni è in realtà un imperdonabile, per certi livelli, equivoco tattico. Perché se è vero che Andrea, come Luca, ha notevole fisicità e straordinarie capacità aeree, a differenza del bomber ex Treviso ha minori capacità di “inventarsi” i gol. Caracciolo ha bisogno di una squadra che giochi per lui, che gli metta le palle di cui ha disperatamente bisogno. Non è questione di essere più o meno forti. È questione di essere due giocatori diversi.

In rosanero va comunque bene il primo anno, con 11 palloni spediti in fondo al sacco. Il secondo scivola dietro nelle gerarchie all’oriundo Amauri, finendo per fare, di fatto, da comprimario.

I due poli dell’esperienza in Sicilia sono facilmente individuabili.

Da una parte lo storico gol segnato al West Ham, nel glorioso impianto di Upton Park, in un match di Coppa Uefa. Dall’altra l’erroraccio sotto porta, all’Olimpico contro la Roma, con tentativo di “scavino” che costa, di fatto, la Coppa Italia alla propria squadra.

Inevitabile la sua cessione a fine anno. Va alla Samp per fare il titolare, salvo poi ritrovarsi alternativa a due mostri sacri come Vincenzo Montella e Antonio Cassano.

“Brescia, rieccomi!”

Quasi per acclamazione popolare, ecco il nuovo ritorno a Brescia. Al nido.

In realtà, è lui stesso a voler tornare. In mano ha una proposta piuttosto succosa degli scozzesi del Glasgow Rangers. Ma rifiuta soldi e ambizioni europee, perché comprende che solo vicino a casa può avere davvero la possibilità di rilanciarsi.

In un club che lo mette nuovamente al centro del proprio progetto tecnico, tornano sia il buonumore che, ovviamente, i gol.

Addirittura 24 nella stagione 2009-10, dove solo Eder riesce a fare meglio di lui, in una combattutissima serie B. A questi va aggiunto il rigore decisivo, trasformato in uno stadio Rigamonti traboccante di entusiasmo, al Torino in finale playoff, che riporta le Rondinelle nuovamente in serie A.

Tornare per restare

Dopo aver dimostrato di saperci ancora stare, nella massima serie, con 12 gol in 33 presenze, l’ultimo giorno del calciomercato dell’estate 2011 torna, chissà come, a Genova, stavolta in sponda rossoblu. Chiamato,come ovvio oramai, a sostituire il partente Luca Toni. Ancora.

Altro volo lontano dal nido, altre nubi nel suo rendimento.

Nemmeno il prestito a Novara, per gli ultimi mesi della stagione, restituisce al calcio italiano il proprio Airone. Niente da fare.

L’estate successiva i piemontesi decidono di privarsene, lasciandolo dunque, alle buste, tornare a Brescia.

Stavolta però senza più l’intenzione di andarsene. Ora è lì per restare.

Non conta più l’ambizione personale, non gliene frega più nemmeno della categoria. “Se è a Brescia che so dare il meglio di me, un motivo ci sarà”.

Per parecchi anni terrorizzerà le difese avversarie, con la sua presenza e le sue reti.

Nel 2018, anno del suo addio definitivo alla Leonessa d’Italia, saranno 173 in maglia bianco blu. Mai nessuno come lui nel club. Terzo miglior marcatore nella storia della Serie B (dietro a Schwoch e Daniele Cacia), primo per gol segnati con un'unica squadra.

Gli ultimi anni della propria carriera lì va a giocare altrove, in categorie dove può ancora fare la differenza. Ma stavolta sempre nei pressi del famoso “nido”. A Salò, con la Feralpi, e a Lumezzane, club di cui ora è addirittura presidente.

Ha deciso di non volare più l’Airone. Non solo perché ha smesso di giocare, e quindi di dispiegare le ali dopo ogni gol. Ma anche e soprattutto perché ha deciso che, da casa sua, dal suo nido, non vale davvero più la pena muoversi.

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