Alessandro Diamanti, e poi ci pensa Alino
A.A.A. Trequartista italiano cercasi.
Razza in via d’estinzione. Chiamateli come volete: trequartisti, fantasisti, oppure semplicemente numeri 10.
Sta di fatto che, nel nostro movimento calcistico, sono diventati delle mosche bianche. Difficili da reperire, spesso confinati in ruoli che non gli appartengono. Il loro estro soffocato dalla morsa di questo o quel sistema di gioco, a volte addirittura violentati dall’esigenza di una qualsivoglia fase difensiva.
Una volta il nostro calcio traboccava di 10 talentuosi. Dal Principe Giannini che poi ispirò Francesco Totti. Da Roberto Baggio che lasciò l’eredità ad Alessandro Del Piero. Poi Gianfranco Zola fu costretto ad andarsene da Parma, perché l’idea di gioco di Ancelotti non prevedeva l’utilizzo del trequarti (Carletto lo definirà “l’unico grande, vero, rimpianto della mia carriera”). Andrea Pirlo fu tramutato, in primis da Mazzone al Brescia, nel regista “Maestro” che tutto il mondo del calcio tuttora riconosce. Una fine simile a quella toccata a Marco Verratti, nato come fantasista puro a Pescara e poi in grado di costruirsi una carriera internazionale di tutto rispetto giocando 20 metri più indietro.
Eppure, pensandoci bene, un ultimo reduce di questa categoria c’è. E gioca ancora, anche se per cristallizzare il suo talento ha dovuto emigrare in terre lontane.
Le coordinate per trovarlo ci sono: basta cercare al 370 di Moorabool Street, a South Geelong, Australia. Perché al Kardinia Park giocano i neroverdi del Western United.
Il loro capitano è un italiano, e si chiama Alessandro, anche se tutti lo conoscono ormai come Alino.
Alino Diamanti.
Il Trequartista. Nella sua vera accezione.
Alino Diamanti possiede tutto quello che un vero numero 10 dovrebbe avere. Visione di gioco, intuito, estro, capacità di determinare. Un piede magico (il sinistro, nel suo caso) con il quale può fare esattamente quello che vuole.
E mica è un modo di dire. Lo può fare davvero. Che si tratti di spedire la palla, l’amica di una vita, sotto al sette, che si tratti di mandare in porta i compagni, con delizie sferiche a cui mancherebbe solo il bigliettino di accompagnamento con la scritta “spingila dentro e vieni ad abbracciarmi”.
Quando la palla va sul suo piede mancino, e Alino ha la possibilità di alzare la testa e vedere quello che accade intorno a lui (e a volte non ne ha nemmeno bisogno), per gli avversari butta davvero male.
E poco importa che la palla sia ferma o in movimento. Anche se da fermo, per uno come lui, il tutto diventa persino troppo facile. Tanto che i suoi gol da calcio piazzato, diluiti in 20 anni di carriera, non si contano.
Spontaneo, genuino, a volte bischero. Ma mai banale.
Ma se di un giocatore così non innamorarsi è difficile, dell’uomo è praticamente impossibile.
Ha saputo conservare la genuinità e la spontaneità del ragazzo toscano di Prato che è stato e che, in fondo, sempre sarà. Quell’essere imprevedibile, mai scontato, a volte persino burbero (e anche un po’ bischero) che ai tifosi di qualsiasi latitudine del mondo fa impazzire.
Perché sembra uno di noi. Sembra uno dei tanti ragazzi dei campetti di periferia che, tutt’un tratto, si è ritrovato catapultato nel gigantesco business del pallone, senza esserne ancora contaminato dalle sue dinamiche.
Non è mai uscita dalla sua bocca una, dico una, di quelle dichiarazioni banali e quasi sempre pre-confezionate di cui ultimamente i microfoni si nutrono. Mai e poi mai. Che si sia appena usciti sconfitti dal Romeo Menti di Montichiari, o che si sia appena battuta 2 a 0 la Germania agli Europei, quello che pensava lo ha sempre detto.
Capita così che, a chi gli chiedeva un commento su Francesco Totti, bandiera della Roma, lui abbia risposto:
Impossibile non amarlo.
Su e giù da Prato
E pensare che il mondo del calcio ha rischiato di non conoscere mai Alino Diamanti.
Perché agli inizi della carriera, ai tempi dell’Albinoleffe, il suo allenatore Vincenzo Esposito, paradossalmente lo stesso che al Prato lo fece esordire, lo mise fuori squadra. Forse litigarono, forse semplicemente non lo vedeva. Sta di fatto che a Diamanti toccò tornarsene a casa, a Prato. Dove era già tornato altre volte, dopo alcuni prestiti poco fruttuosi ad Empoli, Firenze (quando la Fiorentina si chiamava ancora Florentia Viola) e a Fucecchio.
Tornò così nella sua Prato, in serie C2. È vero, nessun posto è come casa. Oltretutto a Prato Alino trova un allenatore come Pierpaolo Bisoli che si innamorò follemente del suo talento, e non ci pensò minimamente a privarsi di lui.
Ma per un ragazzo di 24 anni che di mestiere vuole fare il calciatore rischia di essere un po’ tardi per fare il grande salto.
Un Galante per amico
In momenti come questi, Antonello Venditti direbbe che “ci vorrebbe un amico”.
L’amico in questione è Fabio Galante, difensore toscano pure lui, di Montecatini Terme, che sta concludendo la sua carriera in riva al mare di Livorno, dove la squadra del patron Spinelli è riuscita a conquistarsi il ritorno in serie A dopo un purgatorio durato 55 anni.
Galante fa al presidente il nome di Alino, in un dialogo che dev’essere andato più o meno così:
“Presidente, per conquistare la salvezza ci vuole un giocatore di classe in rosa. Io ne conosco uno che gioca poco distante da qua, a Prato. Ha talento da vendere, e aspetta solo un’occasione. Vada, vada e faccia un’offerta. Che può darsi che venga via anche a pochi soldi”.
Andò esattamente così. E Alino compì un salto potenzialmente mortale. Dalla serie C2 alla Serie A.
E forse non ringrazieremo mai abbastanza Galante per averci regalato un talento così.
Un unico talento per 3 continenti
A Livorno inizia dunque una carriera che porterà Alino fino in Nazionale. 17 presenze e un Europeo sfumato in finale contro una Spagna stratosferica. Più un bronzo in una Confederations Cup in cui si toglie pure lo sfizio di timbrare il suo primo e unico gol in azzurro. Contro l’Uruguay, su punizione. Alla sua maniera.
Non c’è da stupirsi. Il suo sinistro è merce rara. Roba che non si vede più.
Tuttora non si spiega come nessuna delle nostre “grandi” abbia mai pensato di affidare le chiavi del proprio attacco a un giocatore così.
Poco male, comunque. Perché ciò ha dato la possibilità ad Alino, e alla sua splendida moglie Silvia, di esportare il proprio talento verso terre lontane.
In Inghilterra prima, dove con la maglia del West Ham fa innamorare i tifosi londinesi, che a fine anno vorrebbero pure assegnarli il premio “Hammer of The Year”, come miglior giocatore della stagione (lo vincerà poi Scott Parker, ma solo perché gli inglesi si innamorano facilmente dei propri centrocampisti).
In Cina poi, seguendo il condottiero Marcello Lippi (altro toscano), che si porta Alino a vincere uno scudetto con il Guangzhou Evergrande.
Infine, prima di una ulteriore toccata e fuga in Inghilterra, in Australia, appunto. Dove diventa subito capitano e miglior giocatore del campionato.
In mezzo, tanta provincia Italiana. Brescia, Bologna, Atalanta, Palermo, Perugia.
In tutti questi posti i tifosi hanno amato alla follia Alino Diamanti. E non è solo una questione di talento. È che non puoi non amare un giocatore così.
E poi bo …
Perché alla fine, quel suo motto, quel suo modo di dire, ora diventato brand di abbigliamento di successo, racchiude tutto quello che è Alino Diamanti.
“E poi, bo”
Una frase che lascia spazio a improvvisazione, fatalità, creatività, genuinità. Quante volte ci è capitato di dirla, magari in un momento chiave della nostra vita, quando siamo chiamati a fare una scelta delle cui conseguenze non siamo sicuri. “Io ci provo, poi boh…”.
E chissà quante volte i suoi allenatori lo avranno pensato. In partite chiuse, bloccate. Quando gli avversari non ti lasciano spazio, quando ti servirebbe un gol a tutti i costi, quando non sai più cosa inventarti per mandare la “maledetta” alle spalle del portiere.
“Sai cosa c’è? Io metto Alino. E poi bo… magari ci pensa lui”
E tante volte, effettivamente, ci ha pensato proprio lui.