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Gonzalo Higuain, stare bene a metà

La carriera di Higuain è un numero di equilibrismo continuo: un gioco perenne tra realtà e incredulità. Un filo sottile su cui ha disegnato acrobazie e parabole degne dei suoi migliori gol.
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Gonzalo Higuaín - Illustrazione Tacchetti di Provincia

È il dicembre del 1987 quando, in Francia, Jorge, difensore del Brest, diventa nuovamente papà. È arrivato in Francia l’anno prima dal Boca Juniors. È un lottatore, ha il naso pronunciato e per questo motivo in patria lo chiamano “El Pipa”.

Sente la mancanza della sua Argentina e soltanto un anno dopo vi fa ritorno difendendo i colori della “sponda opposta” di Buenos Aires: il blanco y rojo (bianco-rosso) del River Plate. Proprio il River diventa centro nevralgico del destino della famiglia di Jorge, che di cognome fa Higuain. Il piccolo, appena nato in terra francese, crescerà calcisticamente proprio nel settore giovanile dei Los Millonarios.

Il piccolo Gonzalo Gerardo, così è registrato all’anagrafe, oltre alla passione per il calcio, erediterà da Jorge anche il soprannome: sarà, per tutti, “Il Pipita” Higuain.

O capitano! Mio Capitano!

In Argentina il calcio è ragione di vita e i calciatori diventano veri eroi, icone uniche e vanto per la nazione. Se esiste un giocatore, tolte le vere e proprie “divinità”, che può essere considerato un vero e proprio monumento, quello è Daniel Passarella. El Caudillo (il condottiero) o El Gran Capitan (il grande capitano), come è soprannominato in patria, è l’unico argentino ad aver vinto due volte la Coppa del Mondo ed è proprio lui l’uomo del destino del giovane Gonzalo.

Passarella è al fianco del padre Jorge quando, a dieci mesi, il Pipita rischia di morire per una meningite fulminante. Ed è proprio lui, nel 2006, a concedergli spazio in prima squadra. Leonardo Astrada lo aveva fatto esordire un anno prima ma è sotto la guida del Capitan che Higuain esplode definitivamente. Determinante è anche l’intuizione di Alejandro Sabella, collaboratore tecnico del River, che vede in lui le qualità giuste per giocare al centro dell’attacco e non, come aveva fatto fino a quel momento, da enganche, cioè da trequartista. 

È nella partita più importante del calcio argentino, il Superclàsico di Buenos Aires River-Boca, che esplode la stella luminosa del Pipita. È l’8 Ottobre del 2006 quando sui tifosi del Boca Juniors si scatena la tempesta perfetta: al 30’ Gonzalo impatta di tacco una palla vagante in area di rigore aprendo le marcature. Al 54’, invece, capitalizza un contropiede dribblando Bobadilla, il portiere del Boca, con la freddezza di un veterano. Il momentaneo pari del “Trenza” Palacio è annullato e, pochi minuti dopo, il River dilaga chiudendo la partita sul 3-1. La crescita realizzativa di Higuain non passa inosservata e il CT della Francia Domenech cerca, invano, di convincerlo a giocare per la nazionale francese.

Contemporaneamente Franco Baldini, assistente tecnico del Real Madrid, apre le trattative che portano Gonzalo, su espressa richiesta di Fabio Capello, in Spagna. Il Pipita sbarca alla corte dei Blancos.

Bildungsroman

L’esperienza madrilena di Higuain ha tutti gli stilemi del più classico Bildungsroman, il romanzo di formazione: passa in pochi anni da predestinato a riserva, cade, si rialza, cresce esponenzialmente, si realizza, ricade.

L’inizio è quello di un predestinato: segna il suo primo gol europeo nel derby di Madrid contro l’Atletico all’Estadio Vicente Calderon. Il secondo gol, invece, è storia. A un minuto dalla fine di Real-Espanyol, il Pipita segna la rete del definitivo 4-3 che regala al Real il titolo di campioni di Spagna proprio ai danni della squadra catalana.

In casa Blancos, come da nessun’altra parte del mondo, le aspettative sono altissime, i tifosi sono esigenti, la pressione è tanta: Capello, nonostante la Liga conquistata, viene criticato per il calcio espresso alla luce della rosa. I tifosi lo descrivono, abbastanza ingenerosamente, come, passatemi il paragone, un giovane chef alle prime armi che non sa gestire le materie prime di uno stellato. Finita la stagione viene esonerato e, per Higuain, comincia un periodo ai margini della rosa.

Il nuovo tecnico, Bernd Schuster, non riesce a trovargli una collocazione utile alla sua idea di gioco. È con l’arrivo in panchina di Juande Ramos, a metà stagione 2008, che ritrova minuti e prestazioni che culminano nelle 27 reti in campionato (più del neoarrivato Cristiano Ronaldo) della stagione 2009-2010 targata Manuel Pellegrini.

Florentino Perez, ritornato alla presidenza del club, punta, però, alla Champions e vede in Josè Mourinho l’allenatore giusto per ritornare a brillare in Europa. L’allenatore portoghese ha grande fiducia in lui e, nonostante il Real continui ad acquistare attaccanti, preferisce principalmente l’argentino accanto a Ronaldo. Il Pipita è un giocatore molto più maturo e decisivo: è costantemente in doppia cifra, sa essere spietato ma allo stesso tempo sa cucire il gioco per le numerose frecce dell’attacco madrileno (negli anni si alternano, come compagni di reparto, Van Nistelrooy, Raul, Cassano, Cristiano Ronaldo, Kakà, Adebayor, Robinho, Benzema).

Il continuo turnover, l’assenza di fiducia del Real che continua a rimpolpare il suo reparto, la pressione di giocarsi sempre risultato e posto negli undici titolari, porta Higuain a manifestare il suo malcontento e a scegliere una nuova destinazione per la sua carriera, accettando la corte sfrenata del Napoli di Rafa Benitez.

Napoli e Spaccanapoli

L’arrivo di Higuain a Napoli è un intreccio tutto rioplatense (il rio de la Plata è l’estuario formato dal fiume Uruguay e dal fiume Paranà che separa Argentina e Uruguay). Gonzalo arriva a Napoli per sostituire il partente Edinson Cavani, uruguaiano. Higuaín accoglie la sfida con entusiasmo, trovando a Napoli un ambiente che sembra fatto su misura per lui. La passione dei tifosi e la centralità del calcio nella vita cittadina sono elementi che ricordano la sua amata argentina.

Nella sua prima stagione in Italia segna 24 gol in tutte le competizioni, di cui 17 in Serie A. La squadra si piazza al terzo posto in campionato e vince la Coppa Italia, battendo la Fiorentina in finale proprio con una sua rete. Nella stagione successiva, 2014-2015, il rendimento di Higuaín cresce ulteriormente: migliora il bottino con 18 reti in campionato e guida il Napoli fino alle semifinali di Europa League. Il finale di stagione lascia, però, l’amaro in bocca: il Napoli perde la doppia sfida contro il Dnipro, avversario ampiamente alla portata, e fallisce, all’ultima giornata, la qualificazione in Champions League perdendo contro la Lazio una partita drammatica in cui Gonzalo sbaglia anche un rigore sul 2 a 2.

L’estate è accesa come poche volte in quegli anni. Il Pipita è al centro del ciclone. I napoletani lo amano ma la delusione è cocente e cominciano a serpeggiare le prime perplessità sul suo status, le stesse che aleggiavano su di lui a Madrid e che esplodono anche in Argentina dopo l’occasione sprecata, da solo davanti a Neuer, nella finale, poi persa, dei Mondiali 2014.

La stagione inizia con l’arrivo di Maurizio Sarri in panchina. Il tecnico, reduce da una stagione rivelazione con l’Empoli, fa di Higuain il perno di un sistema di gioco capace di stregare il mondo intero. Il Napoli gioca un calcio dinamico fatto di continuo movimento e di grande impostazione che parte, rigorosamente, dal basso e che vede inserimenti costanti delle mezzali e dei terzini. Il Pipita, in queste continue triangolazioni, ritrova il suo passato da enganche: è perfetto nel rifinire il gioco abbassandosi sulla trequarti, è intelligentissimo nell’aprire lo spazio al centrocampista di turno prima di servirlo ed è fondamentale nella gestione palla che chiede il mister. Ma il gioco spumeggiante di Sarri lo esalta, ancor di più, dal punto di vista realizzativo. Segna, in 35 partite, ben 36 goal, superando il record di Nordahl del 1950.

Osvaldo Soriano, uno dei più importanti giornalisti e scrittori Argentini, diceva: “il calcio è dubbio costante, decisione rapida” e Il Pipita in campo sembra poter manovrare il tempo in modo da decidere, sempre, in anticipo. Non ha lo strapotere fisico di Cristiano Ronaldo, non ha l’accelerazione di Cavani né il dribbling di Neymar. È decisivo nella lettura delle situazioni, trova sempre uno spiraglio per infilarsi, per calciare per disorientare il difensore con proverbiali movimenti a mezzaluna e finte di corpo. Le 36 reti sono delle vere e proprie tavole della legge dell’attaccante. È sbalorditiva la capacità di segnare in qualsiasi modo possibile. Il gol che sancisce il record, poi, è una gemma di una bellezza tale da giustificare le urla incredule di Lele Adani in telecronaca.

Per i napoletani il Pipita è un nuovo Masaniello, il capopopolo che guidò le insurrezioni contro la pressione fiscale imposta dal governo spagnolo nel 1647, un nuovo idolo, una nuova divinità argentina per tentare di scalfire il potere di una rivale sempre più forte come la Juventus.

Edoardo Galeano diceva “Lei è all’orizzonte… mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve, quindi, l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.” È proprio il sogno, la speranza utopica di ritornare a vincere uno Scudetto che tiene in vita la passione proverbiale dei napoletani.

Ma i sogni, si sa, spesso devono fare i conti con la realtà: al termine della stagione la Juventus, si, proprio lei, paga la clausola rescissoria di 90 milioni convincendo Gonzalo Higuain a trasferirsi a Torino. La città è ammutolita. I tifosi sono increduli davanti a quello che, per loro, è un tradimento impossibile da dimenticare. Si sentono, come diceva Pino Daniele, “carta sporca”.

L’avventura napoletana di Higuain si conclude con una spaccanapoli emotiva. Così come il decumano sud (Spaccanapoli, appunto) divide la città antica tra nord e sud, così la sua decisione di firmare per la Juventus ha diviso le viscere emozionali del popolo napoletano creando una frattura insanabile.

 

Nel bene e nel male

Lo scossone emotivo non cambia le prestazioni dell’attaccante argentino. Higuain segna 32 goal in 55 partite stagionali, contribuendo in maniera decisiva alla conquista del sesto scudetto consecutivo della Juventus e alla vittoria della Coppa Italia.

È il sogno Champions, però, uno dei motivi cardine del suo trasferimento. I bianconeri vengono trascinati dalle sue reti in finale a Cardiff contro il Real Madrid. È la sua occasione per scrollarsi di dosso l’incubo delle finali e per togliersi qualche sassolino contro la dirigenza dei blancos che lo aveva scaricato preferendogli Benzema. Gonzalo, come tutta la squadra, dopo un incoraggiante primo tempo, scompare dal campo. È ancora una volta Cristiano Ronaldo a influenzare il destino del Pipita: segna una doppietta nel 4-1 finale, elimina la Juve con un rigore al 93esimo nella semifinale di ritorno dell’anno successivo per poi firmare proprio con la Juve relegando, di fatto, Higuain ad un nuovo ruolo di comprimario.

È in questo momento che qualcosa nella testa del bomber argentino si accartoccia. La Juventus lo manda in prestito al Milan dove è letteralmente evanescente. Si nota più per il costante nervosismo verso avversari e compagni che per la qualità delle sue giocate. Non deve essere mai stato facile caratterialmente ma, vedendolo giocare, sembra alla ricerca di un’identità smarrita.

Il ghigno famelico che caratterizzava il volto quando attaccava è sostituito da un broncio costante. Higuain non è felice e cerca di ritrovarsi alla corte di chi lo ha fatto esprimere meglio: Maurizio Sarri. Lo segue prima al Chelsea, dove vince un’Europa League di cui non si sente protagonista, poi nuovamente alla Juve. Segna dei gol importanti per la conquista dello scudetto ma è ben lontano dai livelli di forma degli anni precedenti e, a fine stagione, col contratto in scadenza, firma per l’Inter Miami, squadra della MLS. Ed è negli USA, in un momento di rinnovata brillantezza in campo, con un Mondiale alle porte che Higuain dice addio al calcio.

È la doppia faccia di un campione così onnipotente nella sua lucidità calcistica, tanto fragile alle tossicità di quel mondo in cui, nel bene e nel male, ha lasciato un’impronta luminosa e, soprattutto, indelebile. 

Racconto a cura di Emilio Picciano

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