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Questione di centimetri

L’incredibile epilogo della finale di Parigi della Champions League 2006, in cui l’Arsenal di Arsene Wenger poteva passare da Invincibile a Campione d’Europa.
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Sogni infranti - Arsenal 2006 - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Sembrava proprio essere arrivato il loro momento. L’ora dell’Arsenal. Il guizzo tanto atteso dei Gunners per uscire da una mediocrità europea che mal si costuma a un club così storico e così forte negli anni, migliorando una bacheca continentale in cui muore di solitudine la Coppa delle Coppe vinta nel 1994.

Una creatura praticamente perfetta, forgiata da un fabbro alsaziano di nome Arsene Wenger. Capace negli anni di guidare il club in una lenta ma costante transizione, salutando e ringraziando leggende come David Seaman, Tony Adams, Martin Keown, Ray Parlour per lasciare spazio a una nuova linfa, più giovane e più internazionale.

Ma il sogno si frantuma una notte a Parigi in pochi centimetri, che ai tifosi del club del North London paiono chilometri. Centimetri di fuorigioco, non ravvisato dall’assistente del direttore di gara, che Samuel Eto’o si prende con voracità, facendosi poi stendere da Lehmann e cambiando per sempre le sorti di una partita e di un club.

Col Var sarebbe stato tutto diverso. Col Var oggi insieme all’Arsenal degli Invincibili del 2004 ricorderemo anche i Gunners campioni d’Europa del 2005-2006.

La rivoluzione alsaziana

Arsene Wenger siede per la prima volta sulla panchina del club il 1 ottobre 1996. Arrivato su consiglio di Gerard Houllier, in quel momento direttore tecnico della federazione francese, che caldeggia il nome dell’alsaziano al vice-presidente David Dein, appena costretto a prendere atto delle dimissioni dell’ex allenatore Bruce Rioch, e che decide di contraddire la storia, ponendo a capo della prima squadra per la prima volta un manager non originario della Gran Bretagna o dell’Irlanda.

Arsene inizia subito a cambiare la filosofia del club, troppo legato ai vecchi successi, e involutosi dopo il campionato vinto nel 1991. Dapprima modifica la metodologia di allenamento, per “de-britannizzare” una squadra di grande struttura fisica, e per questo dedita un po' troppo spesso al lancio lungo (ma siamo pur sempre nella Premier di fine ‘900).

In secondo luogo, amplia gli orizzonti di mercato, andando a cercare in tutta Europa i giusti interpreti per il proprio spartito. Ultimo ma non meno importante aspetto di rinnovamento, ringrazia e consegna alla storia del club i vecchi già citati senatori, capaci comunque di riportare il club al successo in Premier nella stagione 1997/1998, ma ormai giunti alle ultime righe della propria onorevole carriera, per dare inizio a una nuova era.

In sede di campagna acquisti il vero capolavoro Wenger lo realizza a fine estate del 1999, quando per 10 (oggi misere) milioni di sterline si aggiudica le prestazioni di Thierry Henry, francese come lui, ma originario delle Piccole Antille, accompagnato alla porta dalla Juventus che ha invano provato a fare di lui il nuovo esterno destro di centrocampo titolare, senza tuttavia riuscire ad ottenere troppi dividendi da questo tentativo.

Nemmeno Arsene lo sa, ma quel giorno, con l’approdo ai Gunners di Titì, cambia tutta la storia: la sua, quella del giocatore e dell’Arsenal in generale, dal momento che l’ultima volta che chiuderà l’armadietto del centro sportivo di London Colney, Henry lascerà dentro ben 228 reti.

The Invincibles

Il processo trova un suo quasi definitivo completamento nella stagione 2003/2004, quando i Gunners vincono, da imbattuti, una straordinaria Premier League, mettendosi dietro autentici squadroni come il Manchester United di Ferguson, l’ultimo Chelsea di Claudio Ranieri (capace di chiudere a 79 punti al secondo posto) e il Liverpool di un Houllier, malconcio per i problemi di salute, ma comunque trascinato dalle reti (ben 18) del golden boy Michael Owen.

49 risultati utili consecutivi, messi insieme tra il 7 maggio 2003 e il 16 ottobre 2004, prima che Sir Alex a Old Trafford ristabilisca le gerarchie. I Gunners al termine della stagione alzano una coppa eccezionalmente tutta d’oro. Il modo in cui la Football Association ricompensa le squadre che trionfano senza sconfitte.

Henry chiude la regular season in testa alla classifica marcatori con 30 reti, e con l’olandese “non-volante” (per via della sua paura dell’aereo) Dennis Bergkamp forma una coppia micidiale. Sulle fasce Ljungberg e Pires sembra viaggino a bordo di motorini, e a centrocampo spicca la struttura fisica e la capacità di lettura di uno dei migliori e più rocciosi centrocampisti che l’Inghilterra abbia mai visto: Patrick Vieira. Dietro Kolo Tourè e Sol Campbell si muovono all’unisono, con meccanismi ben oliati, e a sinistra si consacra uno dei ragazzi dell’Academy: Ashley Cole, per anni titolare anche della nazionale inglese. Wenger riesce addirittura a far ben figurare un portiere ruvido come Jens Lehmann, che ai tifosi del Milan ancora provoca brividi dopo la sua tanto breve quanto disastrosa esperienza in rossonero nel 98/99.

In quegli anni l’Arsenal riesce a portarsi a casa anche qualche trofeo nazionale, tra la gloriosa FA Cup e la meno considerata Coppa di Lega.

Ma a fare da contraltare a questa epopea di successi è il cammino in Europa, dove i Gunners zoppicano vistosamente. Raggiungono una finale di Coppa Uefa nel 2000, persa alla lotteria dei rigori contro il Galatasaray dello stregone Mircea Lucescu. Ma in Coppa dei Campioni non superano mai lo scoglio dei quarti di finale, finendo per essere eliminati a volte da squadre strutturate per vincere, come Chelsea e Bayern Monaco, altre volte anche da squadre decisamente abbordabili per il talento che il club del North London porta con sé, come Valencia, Ajax, Bayer Leverkusen e Deportivo La Coruna.

Per questo motivo la storica proprietà, formata dalle famiglie Hill-Wood e Bracewell-Smith, al timone del club dall’immediato dopoguerra, dopo l’irripetibile successo in Premier chiede ad Arsene un cambio di rotta nelle competizioni continentali. Per provare a portare finalmente a casa una coppa che manca piuttosto incredibilmente nelle bacheche societarie, se si considera che invece squadre come Nottingham Forest e Aston Villa possono vantarne almeno una.

E quale occasione migliore se non il 2006, in occasione del 110mo compleanno del club? Che l’Arsenal giocherà oltretutto con una divisa particolare: non più rosso acceso, ma ribes, come la prima divisa ufficiale della propria storia.

E per di più, nell’ultimo anno di Highbury, lo storico impianto londinese già pronto alla demolizione, per lasciare spazio al futuristico Emirates Stadium.

110 volte Arsenal

L’ Arsenal che si presenta in griglia di partenza per la stagione dei 110 anni è una squadra la cui ossatura è rimasta pressappoco, e giustamente, quella degli Invincibili di due stagioni prima. È stato operato un cambiamento tattico, con il passaggio dal 4-4-2 molto british allo spagnoleggiante 4-2-3-1, in cui ad Henry viene affidato ovviamente il ruolo di riferimento offensivo, con comprensibile possibilità di svariare.

Nei Gunners sono cresciuti giovani molto interessanti. Come Cesc Fabregas, passato giovanissimo dalla cantera del Barcellona all’Academy londinese, e a cui ora Wenger, dopo la partenza di Vieira destinazione Juventus, ha affidato le chiavi del centrocampo (sempre in coppia con l’insostituibile Gilberto Silva), nonostante sia ancora un under 21.

Qualche metro più avanti si stanno ritagliando uno spazio importante il bielorusso Aljaksandar Hleb, ex Stoccarda, pensato dal tecnico inizialmente come sostituto di Ljungberg e Pires sulle fasce, ma sovente impiegato anche da trequartista alle spalle di Henry, e lo spagnolo Josè Antonio Reyes, esterno tutto mancino messosi in evidenza negli anni precedenti con la maglia del Siviglia.

Davanti corre veloce il talento di Robin Van Persie, lui sì olandese volante. Cresciuto nel Feyenoord, dove si alternava sia come ala sinistra sia come trequartista. E che all’Arsenal, negli anni, scriverà da centravanti la storia, sia in positivo (con i 132 gol segnati in 8 anni) sia in negativo (a causa del discussissimo trasferimento ai rivali del Manchester United).

Lehmann è confermato in porta, e anche la Linea Maginot difensiva è pressoché la stessa di due anni prima, se non per il fatto che l’ivoriano Ebouè nelle gerarchie scavalca spesso e volentieri, sulla destra, il camerunense Lauren.

La vera forza di quella squadra, però, risiede probabilmente sulle corsie offensive, occupate ancora dallo svedese Ljungberg e dal francese Pires. Due frecce imprendibili, due mine vaganti brave ad aprire le difese avversarie e a creare spazi per i compagni, oltre ovviamente a sfornare decine e decine di assist, senza soluzione di continuità

Percorso netto

In campionato la squadra perde subito il treno di testa. Impossibile il ritmo imposto dal nuovo Chelsea, del magnate Roman Abramovich ma soprattutto di Josè Mourinho, e delle solite Manchester United e Liverpool (quest’ultimo campione d’Europa in carica, dopo la folle notte di Istanbul).

Il focus, quindi, si sposta presto sulla Champions League. Dove i Gunners superano in agilità (16 punti su 18 disponibili) un girone tutto sommato abbordabile, in cui l’unica vera difficoltà è rappresentata dall’Ajax, mentre Thun e Sparta Praga sono troppa poca cosa.

Agli ottavi l’Arsenal pesca invece male, trovandosi di fronte il Real Madrid, la squadra la cui storia parla da sola. Contro i veri Galacticos (Ronaldo, Beckham, Roberto Carlos, Robinho, Sergio Ramos, Zidane, Raul, Cassano… solo per citarne alcuni) i ragazzi di Wenger compiono una vera impresa, vincendo 1-0 al Bernabeu (con rete sensazionale di Henry a zittire il Bernabeu) e resistendo ad Highbury, portando a casa uno 0-0 che vale la qualificazione, e che apre ovviamente la contestazione per la Casa Blanca madrilena, con una squadra di fenomeni, costruita a suon di milioni per dominare il mondo, finita fuori al primo scontro diretto senza riuscire a segnare nemmeno un gol in 180 minuti.

La squadra arriva così ai quarti di finale, fin lì Colonne d’Ercole della propria storia in Coppa dei Campioni, Di fronte un’altra grande delusa delle recenti Champions: la Juventus di Fabio Capello e del grande ex Patrick Vieira.

I bianconeri, anche loro uno squadrone, finisco per essere catturati nella ragnatela dei Gunners nell’andata a Londra. Buffon salva il salvabile, ma deve capitolare, prima su un colpo da biliardo di Fabregas (su assist di Henry), e poi su un facile appoggio a porta vuota dello stesso francese (su assist del catalano).

Al ritorno al Delle Alpi gli inglesi mostrano la solita difesa impenetrabile e portano a casa un altro 0-0, un altro clean sheet, approdando così per la prima volta alle semifinali, e maturando la convinzione che sia decisamente l’anno giusto. Anche per il fatto di aver eliminato due delle favorite per la vittoria finale, come appunto Real e Juve.

A dare ulteriore fiducia a Campbell e compagni è l’accoppiamento previsto per la gara di accesso alla finalissima, in cui se la vedranno con il Villarreal.

Quella del Submarino Amarillo è una delle più belle favole di quegli anni, di una città di appena 50 mila abitanti che sogna ora di riscrivere la storia della competizione. Ma i ragazzi di Manuel Pellegrini, trascinati dalla classe dei sudamericani Riquelme e Forlan, non paiono in grado di competere con la corazzata messa in piedi da Wenger, e soprattutto con un Henry che pare veramente in stato di grazia, capace di fare in campo praticamente ciò che desidera.

Ma all’andata ad Highbury si capisce subito che per i londinesi non sarà affatto una passeggiata. Gli spagnoli giocano duro, e per vincerla serve uno dei rari guizzi offensivi di Kolò Tourè, bravo a bucare Barbosa nel finale del primo tempo.

Al ritorno, nell’inferno del Madrigal va forse pure peggio. Lehmann compie almeno 3-4 interventi decisivi, e Franco, di testa, sfiora il palo e il gol che manderebbe tutti ai supplementari. L’Arsenal fatica terribilmente. A 2 dalla fine c’è un contatto in area tra Clichy e Josè Mari. Per il bulgaro Ivanov è calcio di rigore. Dal dischetto va l’ex Boca Riquelme, che bacia il pallone e prega prima di tirare, ma si vede respingere la conclusione da Lehmann, supereroe per una sera, che ammutolisce il Madrigal, e manda all’Arsenal in finale con un bottino di appena 2 gol subiti in tutta la competizione (e tutti e 2 subiti nella fase a gironi).

La sensazione è che gli invincibili siano tornati

I catalani e il norvegese

Finale in programma il 17 maggio allo Stade de France di Parigi.

L’avversario è il Barcellona, capace di eliminare, nel proprio percorso, Chelsea, Benfica e Milan nella fase a eliminazione diretta. In Catalogna da 3 anni è sbarcato Frank Rijkaard, a proseguire la tradizione degli allenatori olandesi, capace di far tornare il club a un calcio spumeggiante, grazie anche alla bravura dei propri interpreti. Uno su tutti: Ronaldinho Gaucho, un fenomenale giocoliere, uno di quelli per cui vale la pena spendere i soldi del biglietto.

Il brasiliano è circondato da una squadra di assoluto rispetto, con gente come Deco, Eto’o, Giuly, Van Bommel, Rafa Marquez. Oltre a questi, ovviamente, ci sono i ragazzi della cantera: Valdes, Puyol, Xavi, Iniesta, Oleguer.

A questi si è aggiunto, da qualche mese, un ragazzino di cui si parla un gran bene, e che già dalle prime apparizioni ha fatto intravedere di avere il dna da campione. Veste la maglia numero 30 e si chiama Lionel Messi. Ma secondo alcuni è troppo fragile fisicamente per sfondare, e infatti in quella finale non risulterà disponibile per infortunio.

I Gunners sono i soliti: Lehmann in porta, Ebouè, Tourè, Campbell e Cole a comporre la solita linea imperforabile. Centrocampo a 2, con Fabregas e Silva. Ljungberg, Hleb e Pires pronti ad azionare il fenomeno Henry.

Arbitra un norvegese, Terje Hauge. Dopo la fastosa cerimonia inaugurale si comincia.

Henry è in serata, e costringe subito Victor Valdes a un paio di interventi prodigiosi. Più in generale l’Arsenal in campo sempre maggiormente sicuro di sé, rispetto a un Barcellona inizialmente impaurito e che prova ad affidarsi alle genialate di Ronaldinho per provare a fare qualcosa.

Come detto, sembra davvero essere arrivata l’ora dell’Arsenal. Ma al minuto 18 i Gunners pescano il “cartellino degli imprevisti”. Uno di quelli in grado di mandare a monte un piano e una partita preparati da mesi.

Ronaldinho accede il suo personale visore immaginario e manda in porta Eto’o. Il camerunense pare subito al di là della linea difensiva, e i replay paiono confermare l’offside, anche se per pochi centimetri. Il camerunense poi salta Lehmann prima di venire falciato dallo stesso portiere tedesco appena fuori dall’area.

L’arbitro fischia il rigore, non curandosi del fatto che nel frattempo Giuly ha insaccato a porta vuota, commettendo dunque un doppio errore. Calcio di punizione e cartellino rosso per il portiere: interrotta una chiara occasione da gol. Wenger manda in campo a freddo il secondo portiere Almunia, togliendo dal campo il povero Pires.

Ora in 10 si fa veramente dura.

Ma al minuto 37 Henry pennella una punizione sulla testa del gigante Campbell, bravo a girarla all’angolino alle spalle di Valdes, portando in vantaggio l’Arsenal nonostante l’inferiorità numerica.

Forse c’è ancora spazio per sognare. Forse è ancora ora!

Nella ripresa Rijkaard le prova tutte. Il Barça inizia a muovere meglio il pallone con l’ingresso di Iniesta al posto di Edmilson. Larsson, entrato in sostituzione di Van Bommel, acuisce la pericolosità dei blaugrana. Al 71esimo esce anche uno stremato Oleguer ed entra Juliano Belletti, terzino brasiliano.

I cambi funzionano: a un quarto d’ora dalla fine Iniesta imbuca per Larsson, geniale tocco dello svedese a far proseguire la corsa ad Eto’o, bravo poi a far passare il pallone negli unici 20 centimetri concessi da Almunia sul primo palo. Centimetri, anche qui. Poco più in là e la palla sarebbe finita sulla rete esterna; poco più in qua e la parata del platinato portiere spagnolo si sarebbe persino rivelata facile.

1-1 e palla al centro, ma ora è cambiata l’inerzia della partita.

Minuto 81. Ancora Larsson, che si defila sulla destra. Altra palla splendida per la sovrapposizione interna di Belletti, che arriva fino alla linea di fondo. In mezzo non c’è nessuno, perché Eto’o è in leggero ritardo, e il brasiliano arriva oltretutto sul fondo con troppo slancio per coordinarsi per il cross. Decide allora di chiudere gli occhi e tirare, da posizione impossibile.

La palla parte rasoterra, si infila tra le gambe di Almunia, colpisce un tacchetto della sua scarpa e rotola in rete. Belletti praticamente non esulta, perché le lacrime sono immediate. Figuriamoci per uno come lui, con all’attivo sin lì appena una decina di gol in carriera. Segnare e decidere una finale di Champions.

Finisce così. Per un Barça campione e pronto ad aprire una nuova era di successi.

E per un Arsenal arrivato a centimetri dalla storia. E ancora in attesa che arrivi la propria ora

Racconto a cura di Fabio Megiorin

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