Il benedetto Forest
12 settembre 1974. Brian Clough non ce l’ha fatta, ha perso la propria scommessa.
Non che la cosa sia una novità per uno come lui, anche in senso non metaforico (perché il personaggio è viziosetto), ma stavolta il tonfo è clamoroso. Esonerato dopo appena 40 giorni dal Leeds United, la squadra più odiata, guidata fino a poco tempo prima dal suo acerrimo rivale Don Revie, passato in estate alla guida della Nazionale, e che aveva provato a redimere, a portare dalla propria parte, sposando un’idea di calcio più “pulita” di quella che gli Whites avevano applicato, pur vincendo, fino a poco prima.
Per quella scommessa si è pure separato con Thomas Taylor, qualcosa di più di un semplice braccio destro, per qualcuno la vera mente tattica dietro i successi di Clough, con il quale aveva, di fatto, inventato il calcio a Derby.
Quella squadra passerà alla storia, anche grazie al titolo dell’omonimo film, come “Il Maledetto United”.
Un’esperienza però formativa, che costringe anche un cocciuto e arrogante come lui, a tornare sui propri passi, e a rivedere le proprie posizioni. Riconciliandosi con Taylor e accettando, nel gennaio del 75, l’offerta del Nottingham Forest. Con cui scrive una o, meglio, un’altra pagina indelebile di storia del calcio.
Dalla Serie B alla vittoria della Premier League in soli 2 anni. E poi anche il trionfo in Europa, che non gli era riuscito ai tempi di Derby, con la conquista di ben due Coppe dei Campioni, che rendono il Forest l’unica squadra in Europa a poter vantare più titoli europei che nazionali, e che issano Clough nell’Olimpo, unico allenatore, insieme a Chapman e Dalglish, a vincere un titolo con due squadre inglesi diverse.
Non ci faranno forse un film, ma possiamo tranquillamente definire quella squadra “Il Benedetto Forest” di Brian Clough.
Di nuovo insieme
Solo uno come Clough può accettare, quell’inverno, l’offerta del Nottingham. Squadra di nobile tradizione, ma mai veramente vincente, conosciuta nel Regno più per Robin Hood e per il derby con il vicino County (i due stadi più vicini d’Inghilterra) che per i risultati ottenuti sul campo.
In quel momento la squadra, che veste le maglie color “rosso Garibaldi”, galleggia nella mediocrità della Serie B inglese, con il concreto rischio di retrocessione. Per questo suona piuttosto strano come uno degli allenatori più vincenti e chiacchierati dell’epoca, capace negli ultimi anni di portare il Derby County dalla B alla conquista del titolo, possa accettare un’offerta del genere. Ma altrimenti, non sarebbe Brian Clough.
Capisce subito di aver bisogno del fidato Taylor, finito da qualche parte nel sud del Paese, a Brighton, dopo la burrascosa separazione dell’estate precedente. Parte la telefonata, e scopre che non hanno bisogno nemmeno di fare la pace. E con Taylor ora Clough sa che si può veramente costruire qualcosa di bello.
Sono un duo perfettamente complementare: Brian si occupa della comunicazione, dei rapporti con stampa e dirigenza (la maggior parte delle volte per costringere il proprietario a sborsare qualche sterlina in più in sede di mercato), e della gestione psicologica dei giocatori; Taylor fa il lavoro sul campo, preparando la partita, studiando gli avversari e approntando le tattiche giuste per arrivare alla vittoria.
Nei restanti mesi dell’anno salvano la squadra, conducendola a un comodo ottavo posto finale, e studiano le mosse ideali per ricostruire l’idea vincente di Derby. Servono gli innesti giusti, giocatori pronti a sposare in pieno la filosofia del tecnico, e a sputare sangue sul campo.
In poco tempo, e con pochi soldi, viene approntato uno degli impianti calcistici più belli che il calcio inglese abbia mai visto.
La creatura di Clough
Nel 1977 il Nottingham Forest, terzo in classifica dietro alle nobili decadute Wolverhampton (la squadra preferita di George Best) e Chelsea, viene promosso in Premier League. E Clough inizia a “cucinare” preparando la squadra al campionato di prima divisione.
Dalla precedente avventura a Derby il tecnico ha portato con sé tre fidi scudieri scozzesi: John O’Hare, Archie Gemmill e John McGovern. Due fedelissimi, ai quali l’allenatore non serve che spieghi nulla: hanno già nel dna le sue idee e lo seguirebbero anche in mezzo al fuoco.
Dal glorioso Liverpool di Bill Shankly arriva un elemento d’esperienza come Larry Lloyd, difensore. E in casa Clough trova anche qualche giocatore di buona qualità, come il terzino Viv Anderson, nato a Nottingham, che presto diventerà il primo giocatore di colore a vestire la maglia della nazionale inglese, o come il centrocampista Martin O’Neil, che dopo aver imparato dal proprio maestro riuscirà anche a mettere insieme una onorevole carriera da allenatore. Soprattutto, però, John Robertson, centrocampista ma capace di giocare in almeno 4-5 ruoli, che Clough non esita a definire “il Picasso del calcio”. Davanti il peso dell’attacco è tutto sulle spalle di Peter White, che dopo quella con il Forest scriverà, grazie ai suoi gol, un’altra favola del calcio, portando l’Aston Villa a vincere la Coppa dei Campioni.
Serve un portiere, è basilare. È qui serve tutto l’intuito e la capacità dissuasiva di un genio come Clough. Che convince nientemeno che Peter Shilton a sposare la causa dei Reds. Storico portiere di Leicester e Stoke City, con quest’ultima squadra reduce da un’amara retrocessione, e alla ricerca di un nuovo progetto, anche per mantenere il proprio posto in Nazionale, insidiato sempre più dall’estremo difensore del Liverpool Ray Clemence.
La squadra ora c’è, al resto penserà l’allenatore, con la propria inventiva e le proprie intuizioni.
Il risultato è roboante: vittoria, da neopromossa, del campionato (una cosa riuscita, in precedenza, solo all’Ipswich di Alf Ramsey, poi anche commissario tecnico dell’unica Inghilterra campione del Mondo nel 1966). Messe in riga tutte le superpotenze inglesi: dall’onnipotente Liverpool a un Everton che sta vivendo, in quegli anni, il proprio periodo di massimo splendore; dal Manchester City, per una volta finito davanti ai cugini dello United, all’ambizioso Arsenal. Tutti ai piedi del Nottingham Forest di Brian Clough, che con questo trionfo, cancella definitivamente la brutta parentesi di Leeds.
I leoni di Anfield
Stagione 1978-1979. Ora si fa sul serio, con il Nottingham che si appresta a partecipare, per la prima volta nella propria storia, alla Coppa dei Campioni.
In Europa, quegli anni, è dominio assoluto del Liverpool, che salutando Bill Shankly in favore del vice Bob Paisley non ha comunque smesso di vincere. La squadra del Merseyside si è aggiudicata le ultime due edizioni della Coppa, dando, appunto, un senso di sostanziale onnipotenza. Ci sono le tedesche, sia dell’Ovest che dell’Est, in particolare il Colonia, la Dinamo Dresda ma soprattutto il Bayern Monaco, privo però della guida del Kaiser Franz Beckenbauer, volato a New York per sposare la causa dei Cosmos. C’è, ovviamente, il Real Madrid, che non puoi mai non inserire tra i favoriti; ma quel Real, al netto delle vittorie in patria, non dà l’idea di essere il solito squadrone dominante, in grado di dettar legge in Europa. Per intenderci: i tempi di Di Stefano, Puskas e Gento sono ben distanti.
La sensazione, dunque, è che ci possa essere spazio, in quell’edizione, per una sorpresa. E chissà che non possa essere proprio il Forest.
A Nottingham si parte subito con una decisione “alla Clough”: via Peter White, il bomber della squadra, ceduto al Newcastle a titolo definitivo. Sostituto? Nessuno, almeno per il momento. Di quattrini ce ne sono, ma l’allenatore vuole inizialmente dare fiducia a Garry Birtles, attaccante cresciuto all’ombra della Foresta di Sherwood, giocatore molto generoso ma, almeno fino a quel momento, poco lucido sotto porta, e non in grado, secondo molti addetti ai lavori, di reggere il peso della squadra sulle spalle, soprattutto in un contesto importante come quello continentale.
Alle pressioni di stampa e tifosi Clough fa in sostanza capire questo: “Valutiamo il nostro impatto con la Coppa dei Campioni, vediamo quanto riusciamo ad avanzare. Poi nel caso provvederemo a prendere una punta di spessore”. La speranza è quella di avere un iniziale sorteggio soft e di superare, senza troppi patemi qualche turno. Il nome sul taccuino c’è già: Trevor Francis, attaccante giovane ma già esperto, che ha fatto faville al Birmingham e che ora, pur di lasciare la seconda città più popolosa del Regno, è finito in America, a segnare più gol che partite giocate, con la maglia dei Detroit Express.
Le speranze di Clough però si frantumano con la cruda realtà.
Sorteggio (integrale) del primo turno di Coppa dei Campioni: Nottingham Forest contro… LIVERPOOL.
Peggio non poteva andare. Ad Anfield già si leccano i baffi all’idea di fare un sol boccone dei garibaldini. Andata al City Ground, e Clough presenta il proprio piano-partita, di una semplicità disarmante: “Cercheremo di segnare un gol e di mantenere il clean sheet, per avere più possibilità al ritorno in casa loro”.
I suoi ragazzi fanno di più, riuscendo in una vera e propria impresa: 2-0, reti di Birtles, proprio lui, e di Colin Barret, quest’ultimo probabilmente al primo gol in carriera. Al ritorno resistono anche nel tempio di Anfield, pareggiando 0-0 (Shilton monumentale) e spedendo così fuori, ignominiosamente, al primo turno, i bis-campioni in carica. Una tramvata micidiale per il club del Merseyside.
Arriva Trevor
Nei turni successivi il Forest, sostanzialmente, passeggia. Doma l’Aek nell’inferno di Atene (2-1), prima di surclassarlo al City Ground (5-1 e altra doppietta di Birtles). Stessa sorte tocca agli svizzeri del Grasshoppers, solo che a campi invertiti: poker calato in Inghilterra (4-1 timbrato da Birtles, Robertson, Gemmill e Lloyd) e onesto 1-1 a Zurigo.
Ora la semifinale, da giocare contro il temibile Colonia. Ma a questo punto Clough ha calato l’asso.
“1 milione di sterline. Anzi 999.999”. 1.2 milioni, se si considerano anche le tasse. E Trevor Francis lascia il Birmingham per approdare al Nottingham Forest. Il primo acquisto nella storia del calcio inglese superiore al milione. Una cifra, all’epoca, quasi astronomica.
I Reds però si assicurano l’attaccante che volevano. Incontenibile nelle sue giornate migliori, capace di segnare letteralmente in tutti i modi.
C’è un solo problema: l’acquisto tardivo permetterà al Forest, per motivi di regolamento, di averlo a disposizione, in Europa, solo in caso di ipotetica finale. Ma nessun problema, perché nel frattempo c’è Birtles.
La prima semifinale, in Inghilterra, contro il Colonia è una partita da tregenda. Dopo venti minuti, i Reds sono sotto di due gol. Poi proprio Birtles lancia la rimonta, completata dalle reti di Robertson e di Bowyer. Ma a 9 dalla fine Yasuhiko Okudera, un giapponese finito chissà come in Bundesliga, timbra la rete del 3-3. In risultato parecchio rognoso con cui presentarsi in Germania.
Il Nottingham, che ha nel frattempo “mollato” sostanzialmente il campionato, stravinto dal Liverpool, al ritorno in Germania mette lo stesso abito indossato ad Anfield mesi prima: partita di strenua resistenza difensiva fino al gol, a metà ripresa, ancora di Ian Bowyer che vale un biglietto per la finale di Monaco di Baviera.
Contro il Malmoe (effettivamente c’era spazio, in quell’edizione, per delle soprese), però, Clough può contare finalmente su Trevor Francis. Ovviamente la decide lui, incornando di testa un cross di Robertson, e il Forest conquista un successo storico, leggendario.
La banda di Clough si ripeterà, in Coppa dei Campioni, anche l’anno successivo, battendo in finale un’altra tedesca, l’Amburgo, pur senza Francis, frenato per quasi tutta la stagione da un brutto infortunio.
3 titoli in 3 anni. Un’epopea, quella di Clough a Nottingham, seppur con meno gloria, fino al 1993. Quando il tecnico decide di chiudere la propria meravigliosa carriera, che gli vale due statue, nelle due città che ha reso grandi nel Firmamento del calcio: Derby e Nottingham, appunto.
Il “Benedetto Forest” è l’underdog per eccellenza, una favola che probabilmente mai più si ripeterà nella storia del football. Il trionfo di un uomo e di una città, issatisi insieme, mano nella mano, nell’Olimpo dello sport.
Racconto a cura di Fabio Megiorin