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Il giorno del riscatto

Ai Mondiali di Russia sembrava arrivato, finalmente, il momento della Croazia, simbolo di rivalsa di un intero popolo balcanico. Dopo anni di guerre e titoli solo sfiorati.
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Croazia Mondiale 2018 - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Stava accadendo di nuovo. Il dio del football ci stava nuovamente mettendo lo zampino. Con un intervento a piedi uniti sulle caviglie della storia, da rosso diretto con annesse 3 giornate di squalifica.

Un intervento mirato a strappare le pagine scritte fin lì per comporne di nuove. Per dar da bere, o comunque ristoro, a chi la storia fino a quel momento l’ha semplicemente subita sulla propria pelle. A chi ha scoperto che le bombe non sono solo in televisione, ma possono esplodere persino a pochi passi da casa. A chi si è visto improvvisamente diviso da coloro che fino a prima poteva quasi considerare fratelli, salvo poi ritrovarseli di là, dall’altra parte della trincea.

Il 2018 pareva proprio essere l’anno della Croazia. La consacrazione di un calcio balcanico arrivato sempre vicino al grande obiettivo, senza mai riuscire a metterci le mani una volta per tutte. Come avviene in altre discipline, vedi la pallanuoto.

Ma nel 2018, ai Mondiali di Russia, il popolo croato stava per fare gol anche con i piedi e senza costume.

Salvo poi trovarsi di fronte un giovane principe e i suoi compagni, così diversi e così uniti tra loro sotto la stessa bandiera, come solo la Francia figlia delle sue colonie nel mondo sa essere.

La ricetta giusta

Nel 2018 c’erano tutti gli ingredienti per il trionfo del popolo croato, c’erano davvero tutti.

C’era la squadra, forte. Molto forte. Tanti giocatori arrivati alla rassegna continentale all’apice della propria carriera, al momento dell’”adesso o mai più”. Da Ivan Perišić a Dejan Lovren, da Mario Mandžukić a Ivan Rakitić, quest’ultimo per anni motore di una delle più belle fuoriserie che il mondo del calcio abbia mai visto: il Barcellona campione di tutto.

C’era il campione, colui che avrebbe dovuto sparigliare le carte, accendere la luce nei momenti di maggiore oscurità, guidando i compagni con la propria classe. Luka Modrić, nato a Zara, nel bel mezzo di quella lunga lingua di terra croata che bacia appassionatamente il mar Adriatico. Un ragazzo partito allevando bestiame con il nonno e laureatosi poi nelle migliori università del calcio. Prima in Inghilterra, fino quasi a far vedere le stelle a chi non le aveva quasi mai viste, come la gente del Tottenham; poi in Spagna, al Bernabeu, con la maglia del Real Madrid, là dove il margine di errore devi ridurlo per forza il più possibile vicino allo zero, se vuoi rimanere o semplicemente non essere fischiato.

C’era anche l’allenatore giusto: Zlatko Dalić. Scappato da Mostar, quando ancora era giocatore, un attimo prima che arrivassero i missili delle truppe federali jugoslave a deturparne la bellezza. Uno di quelli che hanno vissuto tanto e vinto poco (giusto qualche titolo nella lontana Arabia Saudita) e che perciò conosce il valore del sacrificio e la cultura del lavoro. Uno con cui tutto il popolo croato possa identificarsi, sentirsi rappresentato, distante dai salotti buoni dove la vittoria sta praticamente di casa.

C’era soprattutto un’intera nazione pronta a spingere i propri beniamini, così distanti ma nemmeno così tanto. Al di là di un girone da molti considerato proibitivo. Al di là di qualsiasi sfida faccia a faccia, senza paura come solo chi ha visto la morte in faccia sa davvero essere. Per provare, una volta per tutte, a dire finalmente: “stavolta tocca a noi”

Cavalcata trionfale

Quel girone che molti consideravano molto ostico, con l’Argentina del dio del calcio Messi, la Nigeria con la sua proverbiale imprevedibilità, e persino con l’Islanda, capace di stupire l’Europa intera agli Europei di due anni prima, e di portare i titoli dei giornali là dove molti pensavano ci fossero solo neve e geyser, la Croazia di Dalić lo supera in pantofole e pipa.

9 punti su 9 a disposizione. 3 vittorie in 3 partite.

All’esordio a Kaliningrad, contro gli africani, ci pensano la fortuna in grado di aiutare gli audaci (autogol di Etebo) e il solito Modrić. Contro la pluri-favorita Argentina è addirittura accademia (3-0), con buona pace di Lionel e dei suoi Palloni d’Oro. L’unica a far sbandare gli scaccati è proprio l’Islanda, arresasi solo allo scadere di fronte al gol di Ivan Perišić.

Dagli ottavi in poi l’urna dei sorteggi diventa più benevola con Mandžukić e compagni. Che sanno tuttavia, in quanto croati, di essere destinati a soffrire sempre, anche per le cose più piccole.

Con la Danimarca si arriva fino ai calci di rigore, stessa cosa ai quarti contro i padroni di casa della Russia. E allora tocca anche a Danijel Subasic vestirsi da supereroe. Concittadino di Modrić, estremo difensore, e poi anche capitano, dell’Hajduk Spalato, la squadra più tifata della costa. Avanti ancora, non sembra essercene per nessuno.

Alle semifinali lo scoglio si fa duro, durissimo: Inghilterra.

Non più gli spocchiosi Leoni D’Albione, convinti di avere inventato il gioco, e che per questo motivo spetti loro di diritto un posto in paradiso. Ma una truppa giovane e forte, ricca di stelle militanti in un campionato visto in tutto il mondo. E presentatisi con la voglia vera di riportare “il calcio a casa” come recita un famoso loro coro.

Ma non c’è trippa nemmeno per Gareth Southgate e i suoi gatti (più che leoni). La punizione di Trippier illude i sudditi della Regina. Ma ancora Perišić prolunga di altri 30 minuti la contesa, durante i quali quel cattivone di Mario Mandžukić fa piovere lacrime sui cieli di tutto il Regno.

Il principino Kylian

Il 15 luglio al Luzhniki di Mosca, lo stadio di Lenin, sono tanti i cuori che preferiscono battere per Dalić e i suoi prodi piuttosto che per la Francia di Didier Deschamps.

Un po' perché i francesi non sono mai stati troppo bravi, e a onor del vero non perdono nemmeno troppo tempo, nel farsi amici oltre i propri confini. Ma soprattutto perché sarebbe il perfetto happy ending per un popolo spesso maltrattato come quello croato. Se si riuscisse ad andare oltre l’odio che la guerra porta con sé sarebbe una rivincita per tutto il popolo balcanico, maggiore anche della Champions vinta dalla Stella Rossa nel ’92 (con tanti serbi in campo, è vero, ma pure con un certo Robert Prosinečki, nato in Germania da genitori croati, e con il montenegrino Dejan Savićević a inventare là davanti.

La Francia però è forte, lo è sempre stata, ma in quegli anni lo è forse ancora di più. Squadra multietnica, e per questo ricca di sfaccettature, tecniche e umane.

La sfida nella sfida è tra Luka Modrić e Kylian Mbappè, il ragazzo del “troppo presto”. Diventato campione troppo presto, dato che a 16 anni già giocava e segnava con il Monaco. Pagato fiori di milioni troppo presto, per alcuni, dal Paris Saint Germain, per portarlo sotto la Torre Eiffel. Arrivato, forse troppo presto, a giocarsi il titolo di campione del mondo.

Il problema è che tutti quei “troppo presto” Kylian li ha presi e li ha messi in bacheca. Come farà anche quella sera a Mosca, chiudendo una partita che, nel suo ondivago andamento, racconta perfettamente la linea mai perfettamente retta seguita dal destino in tutte le cose.

L’autogol iniziale di Mandžukić puzza già di beffa atroce al 18esimo minuto. Ci pensa Perišić, poi a rinfrescare l’aria. Griezmann e Pogba provano a mettere altre ruote dietro la schiena della Francia, ripresa però ancora da Mandžukić, stavolta nella porta giusta. Poi arriva Kylian, a dare un colpo di chiave dicendo “buonanotte a tutti”, e prenotando ufficialmente chissà quanti Palloni d’Oro, una volta che il Dio di Rosario deciderà di diventare un ricordo per tutti i suoi tifosi.

4-2 e tutti a casa. Ad aspettare ancora che il momento del popolo croato finalmente arrivi.

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