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Maurizio Sarri, il valore del tempo

Tutti conoscono la storia dell’impiegato della Banca Toscana arrivato poi, da allenatore, sul tetto d’Europa. L’italia calcistica, negli ultimi anni, è stata travolta dal cosiddetto “sarrismo”. Andiamo a scoprire di cosa si tratta
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Maurizio Sarri - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Se fossimo in America, i mozziconi di sigaretta che pipa come un pazzo in panchina, verrebbero rivenduti all’asta per chissà quanti milioni di dollari. Magari ce ne sarebbe uno per ogni singola partita che in qualche modo ha segnato la storia della sua carriera.

In un mondo che vedeva solo il bianco e nero della giacca e cravatta ha riportato in auge la tuta, che qualsiasi allenatore di provincia porta la domenica, quando è chiamato a guidare i suoi ragazzi nei più sperduti campi di paese.

Ha portato la comunicazione ad altri livelli: niente giri di parole, niente conformismi. Si và dritti e secchi, e se c’è una parolaccia che può rendere bene l’idea di una determinata situazione, allora quella va usata. Perché tempo di girare intorno ai discorsi non ce n’è, il campo chiama.

Ci ha sorpreso, mostrandoci come non si debba per forza essere nati in Catalogna, o cresciuti nella scuola di calcio e pensiero dell’Ajax, per far giocare bene al football le proprie squadre. E ha dato una speranza a tutti coloro che, tra i dilettanti, si barcamenano tra campo e lavoro: credete e investite nella vostra passione, un giorno verrete ripagati.

Qualcuno ha definito tutto questo “Sarrismo”. La Treccani ha accettato di buon grado.

Perché che si voglia o no, nella storia del calcio italiano ci sarà un prima e un dopo Maurizio Sarri.

A Sorrento, il principio

Il 14 dicembre del 2011 Maurizio Sarri viene sollevato dall’incarico di allenatore del Sorrento (Serie C). Squadra sesta in classifica, partita con 2 punti di penalizzazione. Non abbastanza per l’allora presidente Aniello Taurisano, che opta per l’esonero, e chiama in panchina Gennaro Ruotolo.

È mercoledì. La sera prima l’Inter di Claudio Ranieri ha battuto il Genoa di Alberto Malesani con un gol di Nagatomo. In serie A comandano la Juventus e la sorprendente Udinese di Francesco Guidolin. La Nazionale Italiana ha chiuso da primatista il proprio girone di qualificazione per Euro 2012 (dove sarà assoluta protagonista fino alla finale, stra-persa contro la Spagna), e un mese prima è uscita sconfitta all’Olimpico in un amichevole contro l’Uruguay, complice un gol di Sebastian Fernandez.

Il calcio italiano quel giorno non lo sa, ma ha motivi per sorridere. Perché da quell’esonero inizia a scoprire quel che oggi, appunto, definiamo “sarrismo”.

Prima di quel giorno la carriera del mister toscano è una lunga scalata, iniziata praticamente dal centro della Terra. Fatta di successi, senza ombra di dubbio, dal momento che vince in tutte le categorie del nostro calcio, guidando squadre come Stia, Faellese, Cavriglia, Antella,Valdema, Tegoleto, Sansovino. Il tutto mentre continua il suo impiego presso la Banca Toscana.

Ma è anche un percorso contrassegnato dalla poca pazienza, di un calcio italiano dedito sempre di più alla ricerca del “risultato, e subito”. Con presidenti che vogliono la cena pronta all’orario concordato, senza prima preoccuparsi se lo chef ha un frigo sufficientemente capiente, e abbastanza tempo tecnico per soddisfare i commensali.

Anche prima di quel dicembre 2011 Maurizio Sarri aveva dimostrato di essere un grande allenatore. Lo dicono meglio le parole di chi con lui ha collaborato, piuttosto che i trofei messi in bacheca a prendere polvere.

Prepara le partite in maniera maniacale, conosce perfettamente caratteristiche, punti di forza e punti deboli di ogni singolo giocatore. Sfianca la squadra sul campo, sia da un punto di vista fisico, perché chi ha allenato nelle categorie basse sa che “correre di più” fa sempre e comunque la differenza, sia con il lavoro tattico, curando in particolare la fase difensiva (se non prendo gol, mal che vada finisce 0a0).

La verità è che il nostro calcio si stava perdendo questo fine pensatore di pallone. E più di qualcuno, magari al bar il giorno dopo, leggendo il misero trafiletto che ne annunciava l’esonero da Sorrento, avrà pensato:

“Carriera finita. 52 anni, dove volete che vada? Se doveva sfondare lo avrebbe già fatto”

La scoperta di Corsi

Quando lo storico presidente dell’Empoli Fabrizio Corsi, l’estate successiva, lo chiama per allenare gli azzurri, non sa di avere improvvisamente scoperto una miniera d’oro.

È vero che in Toscana l’eco di quanto effettivamente sia bravo Maurizio Sarri arriva prima, rispetto al resto d’Italia. Ma è comunque una scommessa, affidare una squadra che ambisce al ritorno in serie A a un mister che, negli ultimi anni, ha collezionato solo esoneri (Arezzo, Verona, Perugia, Grosseto), al netto di una vera e propria impresa compiuta alla guida dell’Alessandria (portata ai playoff dopo essere partito, in ritiro, con soli 8 giocatori e due della Berretti).

Nelle prime 9 giornate l’Empoli è ultimo in classifica con 4 punti. Tutti si aspettano la testa dell’allenatore, ma il lungimirante Corsi agisce controcorrente, rispetto al nostro modo calcistico di pensare: dà tempo al proprio mister. Tempo di capire la squadra ed essere capito dalla stessa. Tempo che il lavoro fisico e tattico dia i suoi attesi frutti.

Quell’Empoli arriverà quarto, e perderà i playoff contro il Livorno, fallendo la promozione in serie A. Che arriverà, tuttavia, l’anno dopo, con un magnifico secondo posto alle spalle dell’inarrivabile Palermo.

Maurizio Sarri saluta la Serie B e le serie inferiori. Non ci rimetterà più piede. Da lì, infatti, sarà una lunga ascesa.

Il Sarrismo sul campo

Ma come Maurizio Sarri ha meravigliato la serie A?

I capisaldi del suo credo sono pochi, ma imprescindibili. Difesa a 4, sempre e comunque. Con due terzini da sfiancare, su e giù per tutta la corsia. Centrocampo a tre, con un cervello (Jorginho sarà il miglior interprete di questo ruolo) affiancato da due mezzali tecniche e di gamba, pronte a leggere le situazioni e a buttarsi dentro negli spazi che si aprono.

Davanti largo alla fantasia: se in rosa c’è un trequartista, meglio, altrimenti ne costruiremo uno su misura. Se l’esperimento non funziona, faremo in altro modo. A Napoli va di tridente puro, con Insigne e Callejon dietro Higuain. Quando il Pipita parte direzione Juventus, e Milik si rompe prima ancora di fare la differenza, ecco la soluzione fatta in casa, con Dries Mertens a fare da riferimento centrale.

Qualcuno lo ha impropriamente definito “falso nueve”,ma si sbaglia. La verità è molto più semplice: ha insegnato a Mertens, folletto belga di soli 169 cm, a fare il centravanti. Spiegandogli che se parte marcato, non la vede manco col binocolo. Se vuole fare gol, deve leggere lo spazio.

Esatto, lo spazio. Altro punto cardine del suo orientamento tattico. I suoi ragazzi devono occuparne poco, e stare perciò molto corti, per averne di più da aggredire al momento della riconquista del pallone.

Come lo riconquistiamo? Semplice. Copriamo bene le zone del campo, e lavoriamo sulle linee di passaggio. Dell’avversario, inteso come figura fisica quadrimensionale, poco ci interessa.

Con questa filosofia Sarri va alla conquista del calcio italiano e internazionale.

Da Empoli finisce al Napoli, la squadra per cui tifava da ragazzino. E in riva al Golfo scrive probabilmente le migliori pagine della propria vita. Una marea di punti conquistati, che se non fosse stato per la stradominante Juventus di quell’epoca, gli scudetti sarebbero stati almeno un paio.

Quindi al Chelsea, dove vince il suo primo grande trofeo alla guida di un club professionistico: l’Europa League 2018-2019.

Prima di unirsi al “nemico”, e andare ad allenare la Juventus.

Cambiare gioco e pensiero

Le ultime due esperienze di Maurizio Sarri sono il riassunto perfetto di tutta la sua carriera da allenatore.

Viene chiamato alla Juventus per cambiare il modo di giocare e di pensare. Con Massimiliano Allegri i bianconeri hanno sì vinto scudetti e Coppe Italia a ripetizione, ma non hanno mai sfondato veramente in Europa, pur arrivando a due finali di Champions, a Berlino e a Cardiff, rispettivamente contro Barcellona e Real Madrid.

Colpa, secondo molti, di un sistema di gioco poco “internazionale”, fatto di tattiche conservative, in attesa che siano i singoli, poi, a deciderla.

Secondo il board bianconero solo Sarri può portare una ventata di novità, e mettere in pratica un gioco vincente ed efficace, sia in Italia che oltre le Alpi.

Due problemi: al momento di mettere i magneti sulla lavagna, Maurizio chiede un paio di acquisti alla società. In particolare vuole un cervello (magari Jorginho, che da Napoli si è portato pure a Londra). Il club non lo accontenta: è arrivato Cristiano Ronaldo, altri margini non ce ne sono.

La Juventus 2019-2020 non è ancora una squadra propriamente di Maurizio Sarri. Vince, certo. Arriva infatti il nono scudetto consecutivo, che nemmeno l’interruzione dovuta alla pandemia scuce dalle maglie bianconere. Ma esce anche inopinatamente, quello sì, dalla Champions League agli ottavi per mano di un non irresistibile Olympique Lione. E più in generale quel gruppo, di grandi campioni, dà l’idea di fare ancora fatica a calarsi in uno spirito così diverso da quello precedentemente vissuto.

A fine anno Agnelli decide di cacciare il tecnico toscano. Panchina a Pirlo (!), e lo stesso presidente definisce, parlando con la squadra alla presentazione del nuovo allenatore, l’anno precedente come “un anno di merda”. Mah.

Dopo il purgatorio Maurizio Sarri riparte dalla Lazio. Il primo anno la squadra chiude al quinto posto, fuori dalla zona Champions, e viene eliminata, in coppa Uefa, dal Porto. Quest’anno la musica pare essere diversa, e in un campionato stra-dominato dal Napoli di Spalletti i biancocelesti risultano in piena corsa per un posto nella top 4.

Il vero sarrismo

Perché alla fine è questo il vero insegnamento che dobbiamo trarre dall’avvento di Maurizio Sarri in serie A: il valore del tempo.

Il tempo è l’ingrediente essenziale per il raggiungimento di qualsiasi obiettivo. Dev’essere calmierato, è chiaro: alcune volte te ne danno molto, altre meno. Ma ci vuole.

Il tempo, in una squadra di calcio, ti dà la possibilità di entrare nelle menti dei tuoi giocatori, capirne i limiti e convincerli che la strada che gli stai indicando è quella giusta. Il tempo è ciò che serve per dimostrare a tutti il valore delle tue idee, e che se hai delle richieste specifiche è proprio perché lì o là manca qualcosa.

Agli allenatori bravi va dato tempo. Di capire, incidere e determinare. Senza quello siamo tutti presidenti del Sorrento, accecati dalla ricerca del risultato, non in grado di accorgerci che la soluzione ce l’abbiamo tra le mani.

Il “sarrismo” allora, forse, è semplicemente questo.

Scopri un altro allenatore che di gavetta, ne ha fatta tanta. Scopri Massimiliano Alvini, duro come il cuoio.

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