Omar Sivori, vizio e anarchia
Gianni Agnelli è stato uno degli uomini più influenti economicamente, socialmente e politicamente del Novecento italiano. Tifoso bianconero da sempre (è stato presidente della Juventus dal 1947 al 1954), era noto per la sua perspicacia e per aver dato ad alcuni giocatori juventini soprannomi e definizioni geniali come Alessandro del Piero “Pinturicchio” (e poi “Godot” nell’attesa che tornasse quello di prima dopo il brutto infortunio del novembre 1998), Roberto Baggio “Raffaello” (e poi “coniglio bagnato”), Claudio Gentile “Gheddafi”, Zbigniew Boniek “Bello di notte”, Gianluca Vialli “Michelangelo della Cappella Sistina”, Zinedine Zidane “bello ma inutile” e nel parlare di Platini ne parlò come “lo abbiamo comprato pagandolo un tozzo di pane e lui ha messo su il caviale”.
Ma il primo, iconico, soprannome dato a un giocatore della Juventus, o meglio la definizione migliore data dall’Avvocato a un giocatore della Juventus, è stato definire Enrique Omar Sivori “un vizio”.
Sivori è morto il 20 febbraio 2005 all’età di 69 anni. E a venti anni dalla sua morte, vogliamo ricordare cosa è stato e cosa ha dato non solo al calcio italiano, ma anche alla storia di questo sport.
C'erano una volta gli oriundi
Esiste un termine italiano che definisce Omar Sivori: oriundo. Con questa parola si intende una persona nata in un Paese diverso rispetto all’origine della sua famiglia. E’ un termine usato nello sport, ma che può essere traslato anche ad altri “discorsi”: in Argentina oggi oltre 2/3 della popolazione ha origine italiana e tanti argentini hanno cognomi tipicamente italiani senza che questi nella loro vita abbiano avuto la cittadinanza italiana.
Uno su tutti, Papa Francesco al secolo Jorge Bergoglio aveva i nonni provenienti dall’Italia, precisamente da Piemonte e Liguria, e, come il Santo Padre, tantissimi argentini hanno discendenza piemontese e ligure. Omar Sivori è stato uno di questi, avendo origini nel Belpaese sia da parte di padre che di madre.
Per spiegare la storia (personale e non) di Omar Sivori c’è da partire dalla parola “oriundo”. Il calcio italiano scoprì questo termine tra gli fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta: le squadre, per via delle barriere chiuse dal fascismo verso l’acquisto di giocatori stranieri, decisero di pescare giocatori stranieri all’estero per rinforzare le loro rose ma a una condizione: la loro origine italiana.
E per questo la nostra Serie A in quegli anni divenne molto competitiva grazie all’arrivo di giocatori sudamericani che non sapevano una parola di italiano ma che avevano sangue italiano grazie ai loro nonni o ai loro genitori emigrati anni dall’Italia in cerca di fortuna.
I calciatori oriundi fecero il percorso inverso dei loro padri e dei loro nonni. Di questi, ben quattro (Atilio Demaría, Raimundo Orsi, Luisito Monti, e Enrique Guaita) vinsero la Coppa del Mondo del 1934 e uno (Michele Andreolo) quella del 1938. Addirittura Monti è ancora oggi l’unico ad aver giocato due finali Mondiali con due nazionali diverse (Argentina nel 1930 e, appunto, Italia quattro anni dopo).
Omar Sivori rientra in pieno in questa categoria, ma ora c’è da scoprire come ha mosso i primi passi nel calcio argentino.
Da San Nicolás de los Arroyos ai Los Millonarios. L’intuito di Renato Cesarini.
Enrique Omar Sivori è di origine italiana. Il padre Adeodato Sivori era figlio di un immigrato della Liguria (Giulio Sivori, di Cavi di Lavagna, nel genovese di Levante) mentre la madre Carolina Tiracchia era originaria della provincia di Chieti, precisamente di Tornareccio.
Essendo l’Argentina terra di passione e amore per il fútbol, il piccolo Omar si diletta a giocare con la pelota nei potreros, i campi polverosi argentini dove si pratica il cosiddetto futbol callejero (trad. “calcio di strada”). I Sivori non navigavano nell’oro e avevano sei figli, l’ultimo è proprio Enrique Omar. Adeodato Publio muore quando Omar ha quattro anni e quando si muore giovani e si hanno sei figli (Leonardo, Julio Nereo, Enriqueta, Carlos Alberto, Horacio e Enrique Omar) da crescere, questi possono fare una sola cosa: andare a lavorare. Tutti i Sivori lavorano, tranne l’ultimogenito Enrique Omar. Enrique Omar gioca a calcio ed è anche bravo: è il migliore del Teatro Municipal, una piccola squadra locale. Ma non si vive di sogni e speranze, si vive lavorando e Omar impara a fare il meccanico.
Sogna in grande Omar e sogna quando viene a sapere da un amico di famiglia che alcuni osservatori del River Plate saranno nella zona di San Nicolás per visionare alcuni bambini da portare a Buenos Aires e far vestire loro la maglia biancorossa. Omar si iscrive, ma non passa il test. Eppure uno degli osservatori presenti quel giorno vede qualcosa in lui, un qualcosa che i colleghi non hanno visto ma che lui vede subito. E poco tempo dopo Sivori jr fa un altro provino con il River, lo passa e parte alla volta di Buenos Aires. Chi ha creduto in lui? Un uomo dalla vita incredibile, uno nato a Senigallia ed emigrato in Argentina ad un anno, diventato argentino e che nel 1929 è tornato in Italia per giocare nella Juventus dove in sei stagioni vince cinque scudetti di fila e segna 46 reti di cui molti a tempo scaduto: Renato Cesarini, quello della “zona”. Cesarini da un anno allenava le giovanile del River Plate e vede nel ragazzo di San Nicolás de los Arroyos, pura Pampa argentina, il futuro della squadra.
Omar però è uno scapestrato: famiglia povera che si arrabatta, sette persone sotto un unico tetto, polvere. Omar è l’ultimo, non è neanche poi tanto coccolato e riversa in campo l’odio per la sua situazione. Ma con il pallone tra i piedi è un qualcosa di fantastico. Non ha una buona tecnica, è un po’ “veneziano”, è irriverente. Questo agli osservatori del River non piaceva, ma a Cesarini sì. E nel 1951, a 16 anni, Enrique Omar Sivori diventa un giocatore dei “Millonarios”, i milionari, quelli ricchi, i più forti di Argentina. Non vede l’ora di iniziare.
Tra San Nicolás de los Arroyos e la capitale ci sono 230 chilometri, riuscirà a non avere nostalgia di casa?. Non l’avrà perché Renato Cesarini, argentino di Senigallia provincia di Ancona, lo tiene sotto la sua ala protettrice.
Titoli in serie con il River Plate, la Copa America 1957. Nasce il mito del “cabezon” e dell’”angelo con la carasucia”.
Omar Sivori ha un apodo, un soprannome. E per chi gioca a calcio in Argentina, avere un apodo è una cosa normale: il suo è “cabezon”, “testone”, non perché sia cocciuto ma perché ha una massa di capelli tale da fargli sembra la testa enorme su una corporatura minuta (è 163cmx59kg).
Anche il River Plate ha un apodo, “los Millonarios”. Il motivo è dovuto al fatto che è la squadra più ricca d’Argentina. Non solo come conto in banca, ma anche la più ricca di trofei. Quando Sivori approda al River, in bacheca ci sono nove titoli nazionali e la squadra è nota per due cose: la ricchezza monetaria, i talenti della squadra. I biancorossi sono chiamati “millonarios” perché nel 1932 il River Plate ha acquistato l’attaccante Bernabé Ferreyra usando anche dell’oro e solo una società con tanto budget si poteva permettere di usare l’oro come merce di scambio. In più era la squadra che ha fatto la storia del calcio argentino tra gli anni Trenta e Quaranta attraverso “la maquina”: quel River giocava un calcio perfetto, offensivo ed efficace. Gli interpreti? Il meglio del calcio sudamericano del tempo: Adolfo Pedernera, Felix Loustau, Angel Labruna, Carlos Peucelle, José Manuel Moreno. Entrenadores prima Cesarini e poi José Minnella. Omar Sivori nel 1951 si apprestava ad indossare la maglia indossata da campioni di quel calibro. E ovviamente la sua “risposta” fu eccellente: tra il 1951 ed il 1958, Sivori giocò 62 partite segnando 37 reti (più di un gol a partita di media) e contribuendo alla vittoria di tre titoli consecutivi. A 22 anni Omar Sivori è sulla bocca di tutti e pronto a prendersi anche la Nazionale.
Il Mondo (sudamericano) è ai piedi del ragazzo di San Nicolás de los Arroyos. Ma il calcio argentino iniziava a stargli stretto e con lo sguardo (e la testa) guardava all’Europa, dove si giocava il calcio migliore del Mondo.
Sivori è in campo il 5 maggio 1957 nel match contro il Rosaio Central. Il River ha vinto il titolo e l’asso argentino non sa ancora che quella sarà la sua ultima partita con il club di Baires.
Essendo tecnico, estroso, fantasioso e forte, si prese la maglia numero 10, quella che indica il giocatore più forte di ogni squadra. E viene convocato e gioca in Nazionale. Ed infatti debutta in maglia albiceleste in Copa America: prima partita e gol contro il Perù a Montevideo il 22 gennaio 1956. In quell’edizione del campionato sudamericano per Nazioni, Sivori giocò in tutto quattro partite, segnando solo quel gol alla Blanquiroja e l’Albiceleste arrivò terza, mentre Sivori divenne importante nella Copa America successiva, quella giocata l’anno dopo in Perù: cinque partite, tre gol e Argentina che nell’ultima partita del “super girone” a sette squadre perde contro i padroni di casa ma vincono la coppa per l’undicesima volta. In quell’edizione l’Albiceleste è trascinata non solo da Sivori, ma anche da Humberto Maschio e Antonio Valentín Angelillo. Tutti e tre erano forti e tutti e tre avevano chiare origini italiane. Avevano il soprannome di “gli angeli con la faccia sporca” (trad “Angeles con caras sucias”), perché erano bravi tecnicamente e contemporaneamente cattivi (in campo). Maschio giocava nel Racing de Avellaneda, Angelillo nel Boca Juniors e Sivori, come detto, nel River Plate. Alla fine della Copa America 1957 non lo sanno ancora, ma tutti e tre si imbarcheranno su un aereo e verranno a giocare in Italia: Maschio firma con il Bologna, Angelillo con l’Inter e “el cabezon”?
Estate 1957: l’arrivo in Italia. Nasce il “trio magico”
I calciatori forti sono costosi: lo erano allora, lo sono ancora oggi. E se si vuole ingaggiarli, c’è da, come si dice in gergo, “aprire il portafoglio”. Non si dice di arrivare a pagare un giocatore in oro come per Ferreyra, ma se si vuole portare nella propria squadra un asso, l’assegno deve essere corposo. E lo stesso discorso vale per Sivori: “per avere cabezon, sganciare dinero”. Per l’attaccante del River inizia a stare stretto il campionato argentino e sogna l’Europa, Magari l’Italia dove i suoi avi erano partiti per cercare fortuna. Ora il percorso è inverso: salpare verso il Bel Paese per cercare la consacrazione. E nell’estate 1957 Enrique Omar Sivori, 22 anni, arriva in Serie A e l’”intermediario” dell’operazione che lo porta in Italia è quello che più di tutti ha creduto nel ragazzo, quel Renato Cesarini che aveva visto in lui il tassello mancante nell’allora River Plate. Sivori firma con la Juventus, allora la squadra più titolata d’Italia e la più ricca, grazie al fatto che dietro al club bianconero c’era la famiglia Agnelli, proprietaria della FIAT, l’azienda privata più grande d’Italia, e patron del club torinese dal 1923.
L’allora presidente del club, Umberto Agnelli, acconsentì all’ingaggio dell’attaccante argentino: al nuovo allenatore Ljubiša Broćić serviva un attaccante del genere per vincere quello scudetto che sarebbe valso al club piemontese la stella sul petto, il simbolo che indica dieci scudetti vinti. Agnelli acconsente e fece avere al club bonaerense oltre 10 milioni di pesos. L’arrivo di Sivori sconvolge il calcio italiano: era il giocatore con il cartellino più alto l’ingaggio. Del resto, se si vogliono i campioni c’è da pagarli. Il River incassò la somma e davanti perse un attaccante formidabile. La “consolazione” fu che con i soldi incassati, il River Plate rifece il look allo stadio “Monumental”, rinnovandolo drasticamente: da allora il River entrò in una crisi di risultati che durò fino al 1975, quando vinse il primo titolo nazionale dai tempi di Sivori.
In una sorta di 4-3-3, Sivori nella Juve giocò in attacco con due compagni di reparto molto diversi tra loro, ma letali davanti ai portieri avversari: Giampiero Boniperti e John Charles. I tre attaccanti si completavano: Boniperti era la mente, Charles il panzer e Sivori il genio. Dei tre, solo Boniperti era alla Juve da più tempo (dalla stagione 1946/1947) mentre Charles e Sivori erano arrivati insieme durante l’estate 1957.
La Juve quell’anno vinse il titolo diventando la prima squadra a vincere la stella. I tre attaccanti segnarono a raffica: 58 gol in tre, con Charles capocannoniere del campionato con 28 reti. I tre debuttarono con il botto: domenica 8 settembre 1957 3-2 al Verona e tutti e tre in rete. E quella fu la partita di debutto di Sivori con la squadra piemontese. Quella fu la prima partita del “Trio magico”, uno degli attacchi più forti nella storia della Serie A (ancora oggi).
Rispetto ai due compagni di reparto, Sivori era il più basso ma era quello più tecnico, forte, intuivo. Quello di cui si poteva dire “date la palla a Omar e qualcosa succede”. I tre attaccanti militarono insieme per quattro stagioni (1957-1961), vinsero tre scudetti, due Coppe Italia e giocarono le prime stagioni in Coppa dei Campioni, arrivando al massimo fino ai sedicesimi di finale.
I tre attaccanti segnarono insieme 257 reti in campionato (Charles e Sivori che vinsero due classifiche marcatori) e “cabezon”, numero 10 e calzettoni abbassati, cazzimma e sfrontatezza argentina, divenne un giocatore clamoroso. Il “Comunale” era la sua casa, ma in tutti gli stadi dove giocava la Juve erano pieni per vedere dal vivo quel pibe che faceva impazzire le difese avversarie. Insomma, la nostra Serie A aveva tra le proprie fila un giocatore davvero forte anche se quando sbarcò a Torino nessuno in Italia sapeva chi fosse.
Dei tre, Sivori era quello con il carattere più difficile, introverso, ma quando perdeva le staffe (ovvero quando un arbitro gli fischiava contro un fallo o un difensore avversario gli “mordeva” troppo le caviglie), “cabezon” dava di matto. Ed il 13 settembre 1959, nella finale secca di Coppa Italia contro l’Inter, Sivori, all’ennesimo fallo subìto non fischiato e all’ennesima escandescenza mostrata all’arbitro, si vide “minacciato” da Charles il quale, all’ennesima sua intemperanza, mollò uno schiaffo al compagno per dirgli di smetterla, il quale smise. La coppa nazionale, grazie ai gol dei due attaccanti così affamati di gol ma così diversi nella vita, tornò nella Torino bianconera dopo diciassette anni.
Sivori rimase in bianconero fino al termine della stagione 1964/1965, diventando l’ultimo del Trio magico a lasciare la Vecchia Signora. Il motivo dell’addio era dovuto al fatto che dalla stagione 1964/1965 la Juventus aveva Heriberto Herrera come allenatore, un “hombre vertical” si direbbe oggi, cui non piacevano i fenomeni e gli anarchici (in campo). E quindi ebbe un rapporto conflittuale con quel giocatore che incarnava le due caratteristiche, ovvero Omar Sivori, 135 gol fino a quel momento e considerato tra i più forti del Mondo. Ma al breriano “accacchino” ciò non interessava, anche se Sivori era quello che da solo poteva cambiare la storia di una partita. Fatto sta che nell’estate 1965 Omar Sivori, dopo otto stagioni in bianconero decise di cambiare aria. Lasciava Torino dopo 257 partite e 170 gol segnati, di cui 135 in campionato, lasciando un vuoto nel cuore dei tifosi bianconeri.
Delle 257 partite, quella più famosa è il recupero del match della ventottesima giornata di campionato contro l’Inter: domenica 16 aprile 1961, l’Inter a “Comunale” vinse 0-2 a tavolino perché ci fu un’invasione di campo e l’arbitro Gambarotta chiuse la partita alla mezzora. La Juventus fece ricorso e lo vinse: la partita doveva essere rigiocata e si decise di rigiocarla a campionato terminato e vinto dalla Juventus (che godette dell’annullamento del match). Per protesta l’Inter il 10 giugno, giorno del recupero, fece giocare la formazione Primavera guidata da un promettente 19enne figlio d’arte (Sandro Mazzola, figlio di Valentino). La partita fu senza storia, la Juventus si impose 9-1 e Sivori siglò sei reti: era dal 28 ottobre 1933 (Pro Vercelli-Fiorentina) che un giocatore non segnava sei reti in una singola partita ed allora a segnare le sei reti era stato Silvio Piola con la maglia della “Pro”.
La vulgata dice che Sivori durante il corso della partita aveva sentito lo stesso Mazzola parlare con il compagno Giovanni Morosi il quale, marcatore del “cabezon”, era contento di averlo marcato senza fargli vedere la palla nei primi dieci minuti. L’argentino, quasi offeso dall’essere stato annullato da un ragazzino di 19 anni al debutto in Serie A, decise di fare sul serio e segnò sei reti al malcapitato diciannovenne Antonio Annibale. Ma l’estate 1965 è l’estate dell’addio tra la Vecchia signora ed il suo numero 10 argentino, anzi italo-argentino.
L’approdo al Napoli e l’intesa con José Altafini. La lunga squalifica e l’addio
Heriberto Herrera sapeva di avere in rosa un giocatore fuori da ogni Mondo, ma sapeva di avere in rosa un giocatore troppo bizzoso, troppo insofferente alle regole, troppo indisciplinato, troppo…Sivori. E la Juventus decise nell’estate 1965 di tenere il tecnico paraguaiano (che vincerà la Coppa Italia in agosto senza Sivori e nel 1966/1967 lo scudetto) a scapito del “cabezon”. Una scelta discutibile, ma legittima: l’allenatore ha sempre ragione.
Dopo otto stagioni l’addio. Per i tifosi fu doloroso dire addio al loro fantastico numero 10, quello che aveva contribuito a portare in alto la Juve facendole vincere lo scudetto della Stella, le prime due edizioni vinte consecutivamente da una squadra della Coppa Italia ed aver portato la Juventus a giocare le prime stagioni in Coppa dei Campioni. Ma tutto ebbe una fine e quindi il 17 luglio 1965 Omar Sivori è un giocatore del Napoli e quel giorno approdò nella città del Golfo come un messia.
I tifosi partenopei accorsero in massa per vedere dal vivo il loro nuovo numero 10, quello che li avrebbe portati a competere con gli squadroni del Nord. Perché se la Juve era la squadra più scudettata d’Italia, il Napoli era sempre l’eterna incompiuta: fino a quel momento, i suoi migliori piazzamenti erano stati due quarti posti e la vittoria di una Coppa Italia. Gli azzurri, neopromossi dalla Serie B, volevano diventare una grande. E per farlo si affidarono al “cabezon”.
Come nel caso della Juve, la persona che aveva spinto per l’acquisto del giocatore era un altro oriundo: allora Renato Cesarini, questa volta Bruno Pesaola, il “petisso”, di origini marchigiane come l’inventore della “zona”. L’allora presidente Lauro staccò un assegno al collega Vittorio Catella da 70 milioni: n grosso sacrificio, ma il Napoli ci credeva anche perché l’attacco sarebbe stato composto dal “cabezon” e da un altro oriundo, José Altafini, già campione del Mondo con il Brasile nel 1958 e anche lui naturalizzato per le chiare origini italiane, e arrivato come Sivori in quell’estate 1958.
Il Napoli si classificò al terzo posto, miglior posizione di sempre, e l’estate successiva vinse la Coppa delle Alpi (un trofeo che vedeva di fronte squadre italiane e svizzere). Si pensava che con l’approdo di Altafini e Sivori il Napoli poté diventare una grande del nostro calcio, ma nelle quattro stagioni in cui giocarono insieme non arrivò nessun titolo: arrivarono due secondi ed un terzo posto, ma lo scudetto fu sempre ad appannaggio delle squadre del Nord.
Anzi, le stagioni di Sivori a Napoli non sono state fantastiche, in quanto giocò solo 76 partite e segnò sedici reti. Gli anni napoletani, forse ancora di più di quelli torinesi, misero in luce un Sivori debilitato fisicamente dai troppi colpi presi in campo ed un Sivori “loco”. Il momento clou fu Napoli-Juventus del 1° dicembre 1968 quando il “cabezon” fu espulso per un fallo sul bianconero Favalli e nel parapiglia che si creò diede un pugno anche a Salvatore e diede in escandescenza contro l’arbitro Pieroni: sei giornate di squalifica. Quella decisione (oltre ad aver capito di aver fatto una sciocchezza) lo portò il 21 dicembre a tornare in Argentina e a ritirarsi dal calcio giocato, lasciando il Napoli di mister Chiappella senza il suo numero 10.
Sivori lasciava il calcio italiano dopo undici stagioni e mezzo, 190 gol segnati e ben trentatre giornate di squalifica. In pratica, Sivori ha saltato un campionato intero per colpa dei tanti cartellini presi negli anni italiani. Un carattere tosto, difficile, anarchico. Ma senza questo tipo di carattere non avremmo mai avuto il vero Enrique Omar Sivori.
1961, il Pallone d’oro. Le esperienze con l’Albiceleste e gli Azzurri
Delle undici stagioni e mezzo giocate in Italia, l’anno (solare) migliore per Sivori è stato il 1961. In quell’anno, in due metà campionati, segnò 35 reti. Il clou, le sei reti contro l’Inter nella partita-recupero del giugno 1961.
Sivori era un giocatore affermato, l’idolo dei tifosi della Juve ed è uno dei giocatori più forti del campionato e del Mondo. Nel 1961 ottenne anche lo status di oriundo, quindi aveva la cittadinanza italiana e poteva anche giocare in Azzurro dopo aver giocato con la Nazionale argentina. Allora era una cosa normale aver giocato in due Nazionali maggiori e l’asso juventino debuttò in azzurro il 25 aprile 1961 a Bologna contro l’Irlanda del Nord in amichevole. Con la Nazionale albiceleste aveva giocato 19 partite, segnando nove reti e vincendo la Copa America 1957.
Se con la Albiceleste ha preso parte a due edizioni della Copa America, Sivori con l’Italia partecipò anche ad un Mondiale, Cile 1962, ma l’esperienza fu negativa per lui e per la squadra: carattere bizzoso, ambiente difficile ed Italia già eliminata al primo turno.
Eppure in sole nove partite, Omar Sivori aveva segnato otto reti, di cui quattro contro Israele il 4 novembre 1961 nella “sua” Torino in una partita di qualificazione a Cile ’62. Prima di lui avevano segnato quattro reti in azzurro solo Carlo Biagi e Francesco Pernigo e dopo “cabezon” ci riusciranno solo altri tre (Orlando, Riva e Bettega).
In azzurro Sivori ha ritrovato anche Maschio e Angelillo: i tre “angeli” non giocheranno mai insieme, ma Sivori giocherà una partita con gli altri due: con Maschio il 5 maggio 1962 in amichevole a Firenze contro la Francia, mentre con l’attaccante dell’Inter nel match contro Israele dove lo vedrà andare anche in gol.
Il 1961 di Sivori si concluse alla grande con la vittoria del Pallone d’oro. Sivori, superando Luis Suarez dell’Inter e Johnny Haynes del Fulham, divenne il primo giocatore della Serie A ed il primo italiano (anche se oriundo) a vincere il prestigioso premio indetto dal 1956 dalla rivista francese France Football. Due anni prima il compagno di reparto nella Juventus Johan Charles si piazzò al terzo posto dietro a Kopa e Di Stefano. Sivori fu il quinto italiano ad entrare nella classifica del premio fino a quel momento e nell’edizione dell’anno precedente arrivò nono. Il primo italiano “italiano” a vincere il premio sarà poi Gianni Rivera nel 1969.
Gli anni da allenatore. L’abbraccio con Maradona
La popolarità di Sivori in Italia era diventata anche televisiva, tanto da partecipare, interpretando sé stesso, a due film: Idoli in controluce di Enzo Battaglia del 1965 e “Il presidente del Borgorosso Football Club” di Luigi d’Amico quando fu “acquistato” dall’improbabile presidente Benito Fornaciari (interpretato da un iconico Alberto Sordi) per far vincere la sua scapestrata squadra.
Tornato in Argentina, a partire già dal 1969, Sivori divenne allenatore sedendosi sulla panchina di due grandi del calcio nazionale, il Rosario Central e l’Estudiantes, con poco successo. Il momento più alto del Sivori allenatore fu quando “cabezon” allenò, dal 27 settembre 1972 al 7 ottobre 1973, la Nazionale argentina. Obiettivo: la qualificazione a Germania 1974 e far tornare l’Albiceleste al Mondiale dopo aver “bucato” Messico ’70.
L’esperienza alla Albiceleste (per un totale di sedici partite) è ricordata per la “Nazionale fantasma”. L’Albiceleste era stata sorteggiata con Paraguay e Bolivia, due Nazionali molto rognose da affrontare, soprattutto la Verde in quanto giocava le sue partite all’”Hernando Siles” di La Paz, a 3.600 metri di altitudine. Le due partite decisive per la qualificazione si giocarono a pochi giorni di distanza nel settembre 1973 e Sivori pensò ad una cosa particolare: “una Nazionale giocherà a Asuncion, un’altra andrà ad allenarsi in quota al confine con la Bolivia per allenarsi e giocare in quota dove l’aria è rarefatta e poi scenderà in campo pronta per giocare perché acclimatata”. L’Albiceleste pareggiò con il Paraguay e vinse contro la Bolivia, unendo ai giocatori impegnati ad Asuncion quelli che si erano allenati in quota. Solo dopo si scoprì questo stratagemma e la Seleccion che si allenò in quota e nel silenzio di tutti fu chiamata “fantasma” ed era agli ordini del vice- di Sivori, Miguel Ignomiriello. Si scoprì che soggiornò a La Paz a partire da un mese e mezzo prima della partita organizzando partite amichevoli cui incassi furono usati per il vitto e l’alloggio in terra andina della “Seleccion fantasma”
Anche da Ct, Sivori era sempre…Sivori e non manifestò mai gradimento per Juan Domingo Peron, il politico argentino più importante di sempre tornato il 20 giugno 1973 dal suo esilio in Spagna e che lo vide trionfare nelle elezioni del successivo 23 settembre che lo portarono ancora alla guida della Casa Rosada. Per colpa di questo poco feeling, Sivori fu allontanato dalla panchina e al suo posto fu chiamato Vladislao Cap, il quale condusse l’Argentina al Mondiale tedesco-occidentale dopo che Sivori la portò alla qualificazione.
Toccante fu l’intervista che “El grafico” organizzò tra Sivori e Diego Armando Maradona: Sivori era il giocatore albiceleste più famoso e forte degli ultimi anni ed il ragazzo di Villa Fiorito stava diventando…Maradona, ma l’allora Ct argentino Menotti aveva deciso di non convocarlo per il Mondiale casalingo (poi vinto dai ragazzi del “flaco”). Il futuro pibe de oro ci rimase molto male tanto da mettersi a piangere, certo della chiamata di Menotti. La convocazione non arrivò (dopo che lo stesso Menotti ne parlò con lo stesso Maradona nel ritiro di Ezeiza, la “Coverciano” argentina) e Sivori durante la chiacchierata lo abbracciò per consolarlo e gli disse che presto avrebbe giocato un Mondiale in quanto era davvero forte per avere 18 anni e aveva la tutta la carriera davanti.
Nel 1979 Omar Sivori tornò ad allenare e sedette per un breve periodo sulla panchina del Racing de Avellaneda e nel 1983 fu chiamato ad allenare i canadesi del Toronto Italia con cui vinse campionato e coppa nazionale: l’esperienza con il club canadese è stata l’ultima di Sivori nel calcio giocato, dopodiché, a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, tornò in Italia e si distinse come opinionista.
Cosa rimane a 20 anni da quel 17 febbraio
Enrique Omar Sivori è morto a San Nicolás de los Arroyos 17 febbraio 2005 all’età di 69 per un tumore. Lasciava la moglie María Elena e i figli Néstor e Miriam (il terzogenito Humberto era morto nel 1978 per le complicanze di un cancro ad appena 15 anni). “El cabezon”, malato da qualche tempo, decise di tornare definitivamente a casa e morire dove era nato. Tra l’altro il nome della sua tenuta argentina si chiamava “La Juventus”, segno che l’ex giocatore bianconero ha sempre avuto la Vecchia Signora nel cuore tanto da chiamarci casa e decidere di morirci. E la Juve, quasi per sdebitarsi dell’omaggio, ha dato il nome del suo funambolico numero 10 ad una sala VIP dell’area hospitality dello “Stadium”, anche se magari l’asso di San Nicolás de los Arroyos, un hombre del pueblo, non avrebbe gradito. Ma del resto la società bianconera ha voluto omaggiare lui e l’ex compagno Giampiero Boniperti (oltre ai fratelli Gianni e Umberto Agnelli) in quanto parte della storia del club.
E’ stato un grande del calcio, Enrique Omar Sivori. Un genio, un genio irriverente. Un genio irriverente che faceva del tunnel all’avversario il marchio di fabbrica. Oltre ai tunnel, Sivori è ricordato anche per i calzettoni abbassati, segno di irriverenza alla regole e voglia di esercitare pressione sull’avversario: La sua vita (calcistica) è stata legata a Renato Cesarini e Sivori ha legato il suo nome poi a Diego Armando Maradona: un fil rouge che unisce i tre fenomeni del futbol argentino.
Dopo Sivori, la Juventus ha avuto altri numeri 10 per nulla irriverenti e sfrontati come il ragazzo di San Nicolas e che, come lui, hanno scritto una grande pagina del calcio mondiale: Michel Platini, Roberto Baggio, Zinedine Zidane e Alessandro del Piero. Tutti Palloni d’oro tranne “Pinturicchio” che però è diventato il giocatore più famoso e riconducibile alla storia ultracentenaria di Madama. Tutti con un soprannome iconico dato dall’Avvocato.
Il ricordo di Sivori è forte ancora oggi anche tra i tifosi del Napoli, poi superato da Diego Armando Maradona, quello che appena 18enne è stato consolato dallo stesso Sivori il quale gli prospettava un futuro radioso nel calcio. Poi ampiamente soddisfatto.
Cosa rimane di lui, oggi? Ecco tornare le parole di Gianni Agnelli, che più di tutti ha capito cosa fosse Omar Sivori: un vizio, un qualcosa di cui non si può fare a meno. Un qualcosa che magari crea dipendenza e che fa male, ma che non appena lo si vede giocare in campo con quella tecnica senza eguali, i calzettoni abbassati, i colpi dati e i colpi presi, i tunnel, l’estro, il piede mancino che ha fatto scuola, ti fa dimenticare del “male” che può fare.
Enrique Omar Sivori in due parole? Vizio e anarchia. Del resto, i grandi del calcio sono così: faresti di tutto per averli ed in campo basta dare loro la palla per risolvere qualsiasi cosa. E fugare ogni dubbio.
Racconto a cura di Simone Balocco