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Domenico Morfeo, tre/quarti di classe

Morfeo era un vero e proprio numero 10 con una tecnica e una classe fuori dal comune, etichettato come talento sprecato. Tante le occasioni avute nella sua carriera senza rispettare le attese, ma altrettante gioie regalate all’Atalanta e, soprattutto, al Parma. In una piazza storica dal palato calcistico decisamente fine, Morfeo visse gli anni migliori della sua carriera. E che intesa con Gilardino …
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Il dio dei sogni, figlio di Ipno(dio del sonno) e Nyx (dea della notte), il cui nome deriva da “morphé”, forma. Gli antichi greci decretarono infatti che fosse in grado di entrare nella mente dei dormienti e di assumere la forma delle persone sognate.

E … No, non è stato lo charme di Domenico a dar vita all’ormai quasi dimenticata espressione “cadere tra le braccia di Morfeo”.

Eppure il talentuoso trequartista aveva il suo fascino, con quel mancino raffinato e l’estro dei grandi campioni.

Ma, come si evince dal titolo, nonostante i tre/quarti di classe il nostro protagonista odierno non troverà mai quel quarto mancante, impossibile da definire, per spiccare il volo. 

Del resto se Mino Favini, storico osservatore della Dea, sosteneva che Morfeo fosse il più grande talento che avesse mai visto, ci rendiamo conto di narrare le gesta di un vero e proprio campione mancato.

Il talento

Va bene, stiamo scrivendo le solite cose. Talento sprecato, chissà dove sarebbe arrivato, chissà cos’avrebbe vinto, chissà quanti milioni avrebbe guadagnato, chissà quanti premi avrebbe ritirato.

Eppure siamo davvero stanchi di queste storie. Morfeo purtroppo non lo conosciamo, altrimenti sarebbe molto più semplice avere una risposta alle domande che stiamo per fare.

Siamo sicuri che tutti questi talenti sprecati non siano stati felici così? Cosa effettivamente hanno sprecato? Chi ha stabilito che avrebbero dovuto fare di più? Perché non bastava regalare magia e classe a una nobile di provincia?

Del resto, quando una persona ha estro e facilità, arriva comunque a risultati significativi, con quella componente spontanea ed estemporanea che rende unico l’essere umano talentuoso.

Ma, come si dice sempre, il talento non basta. (A fare cosa, poi? A essere felici?)

E se provassimo a leggere diversamente questa associazione? Forse possiamo provare a dare un nome anche a quel famoso quarto mancante al nostro Morfeo e alla maggior parte di talentuosi nel mondo.

Il lavoro, la disciplina, la determinazione, la gestione… sono talenti! E il nostro Domenico, come tante altre persone nel mondo, forse non possiede questi talenti.

E non, come pensano in tanti, per pigrizia. Semplicemente perché per trovare stimoli nel fare una cosa che risulta così facile e spontanea, ci vuole un talento pazzesco. E una passione sfrenata.

Certo, se uniamo a un estroso il talento della determinazione, il talento della disciplina e quello del sacrificio, avremo quasi sicuramente l’equazione esatta di un campione. Ma vedete quante sono le componenti, quante sono le variabili.

Bisogna poi considerare la gestione della pressione, di come ognuno viva diversamente l’ansia e la prestazione, di come a certe persone non interessi l’attenzione mediatica, di come può non essere la grande passione ma semplicemente una cosa che riesce molto facile e spontanea …

Si dovrebbe insomma distinguere sempre in base al singolo individuo, senza fare un calderone “per categorie”.

E, come detto, Morfeo non lo conosciamo, quindi per oggi ci fermiamo qui e rientriamo nei ranghi.

Morfeo, quante aspettative!

Dicevamo. Morfeo, notato dal già citato Mino Favini, arriva alla Dea e conosce Cesare Prandelli, allenatore del settore giovanile orobico.

Con il mister bresciano c’è grande intesa, e i due vincono il Torneo di Viareggio.

Passa in prima squadra, debutta in Serie A a 17 anni, segna 22 reti in quattro stagioni riportando la Dea in massima serie dopo la retrocessione, e lascia intravvedere tutta la sua classe con giocate sopraffine.

Il suo temperamento inizia a essere evidente, come nel litigio per un rigore con quel Filippo Inzaghi a cui aveva servito svariati assist.

La Fiorentina decide quindi di puntare su di lui, e le cose sembrano andare alla grande. Poi arriva Edmundo Alves de Souza Neto, e trequarti per la nostra celeberrima esterofilia, un quarto per l’esborso economico, il nostro Domenico si accomoda in panchina.

Passa così al Milan, dove non gioca mai, ma mette in bacheca l’unico trofeo della sua carriera chiamato scudetto 1998/99 contribuendo alle rocambolesche vittorie contro Bologna e Samp. 

Inizia la classica serie di prestiti infruttuosi, con i ritorni non troppo gloriosi a Firenze e Bergamo, prima di passare all’Inter di Massimo Moratti a parametro zero. 

A Milano, nonostante il cambio sponda, è una riserva a tutti gli effetti, ma riesce comunque a farsi notare. Si, per il gol in campionato contro la Roma e in Champions contro il Newcastle, ma soprattutto per il litigio, recidivo dopo i fasti di Bergamo, per tirare un rigore.

Stavolta il contendente è Emre, con Morfeo che strappa il pallone dalle mani del turco in una delicatissima sfida europea contro il Bayer Leverkusen.

Lo segna e sistema tutto? No. Lo sbaglia e Hector Cuper non gli fa più vedere il campo, nonostante i nerazzurri vincano 2-0 contro quella che fu la squadra maledetta.

Parma, i migliori anni di Domenico

Così, nell’estate del 2003, un Morfeo 28 enne passa al Parma, ed è amore a prima vista.

Gli viene assegnata immediatamente la maglia numero 10, con Nakata decisamente al di sotto delle aspettative che si riprende la sua 7 in panchina c’è il suo mentore Cesare Prandelli; Mutu, che poteva rubargli la scena dopo aver trascinato la squadra al quinto posto, è sbarcato in Premier League; in attacco c’è un certo Adriano Leite Ribeiro alle prime esperienze italiane e un giovane bomber che quando esulta tenta di suonare il violino. 

Ha decisamente trovato il suo ambiente. 

I crociati lo accolgono a braccia aperte, lo fanno sentire al centro del progetto, altro argomento non affrontato nel discorso iniziale ma spesso fondamentale per la “categoria talentuosi”, e lui li ripaga con stagioni di assoluto livello. 

Quella tifoseria che solo quattro anni prima esultava per la vittoria della Coppa UEFA, aveva trovato il suo nuovo idolo. Ma come, direte voi. Erano abituati a Gianluigi Buffon, Ruddy Lilian Thuram-Ulien, Fabio Cannavaro, Dino Baggio, Alain Boghossian, Abel Eduardo Balbo, Juan Sebastian Veron, Enrico Chiesa, Hernan Jorge Crespo … Eppure Domenico Morfeo, è riuscito a entrare nei loro cuori.

E questo può dare la misura della sua classe … o del tracollo del Parma in pochi anni? No. Decisamente della sua classe sopraffina, delle sue giocate che infiammavano i tifosi, dei suoi assist a bomber Alberto Gilardino. Quelle prodezze estemporanee degne di un talento puro, quei passaggi illuminanti e gli scavini beffardi a superare il portiere.

E il nostro irrequieto, da non confondere con David Di Michele, trova pace e continuità.

La vita sregolata fatta di vizi, di litigi con gli allenatori e, come abbiamo visto, con i compagni, si trasforma in grinta e prodezze sul campo. 

La prima stagione è un successo, con un grande quinto posto in campionato a replicare il risultato dell’annata precedente, ma è nella seconda che si carica la squadra sulle spalle.  Adriano Leite Ribeiro lascia i gialloblù direzione Inter, e la nuova coppia titolare esplode grazie a un’intesa unica, che confeziona prodezze da vedere e rivedere.

8 centri per Morfeo e assist a volontà per il capocannoniere della serie A, un Gilardino decisamente grato al suo fantasista, uniti a una cavalcata in Coppa Uefa interrotta in semifinale dal CSKA di Mosca. 

Le fatiche internazionali costano però caro in campionato, con la salvezza raggiunta solo grazie a uno scontro diretto infuocato contro il Bologna, ribaltato al Dall’Ara per 0-2 in una battaglia arbitrata dal grande Pierluigi Collina terminata con 4 espulsioni, dopo la sconfitta tra le mura amiche del Tardini per 0-1.

“Giocare con Morfeo era una goduria, sapeva sempre come mi muovevo e mi serviva alla perfezione”.

Alberto Gilardino

Dopo cinque stagioni, diventato uomo e simbolo della squadra, saluta con affetto i ducali e finisce la carriera nella sua San Benedetto dei Marsi, in Abruzzo, dopo esser transitato senza successo da Brescia e Cremona.

Parma è però rimasta nel cuore, e decide così di aprire un locale chiamato “Dolce Vita”, di cui è tutt’ora proprietario.

Domenico Morfeo, sicuramente un grande talento, un giocatore ammirato con piacere nelle stagioni in cui è stato possibile.

Quando e se lo intervisteremo, vi faremo sapere il suo punto di vista, e la prima domanda sarà:

“Domenico, pensi di essere un talento sprecato”?

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