Christian Riganò, da un posto quasi scordato dal mondo
Laddove il sole luccica, sulle pietre salmastre delle sette sorelle adagiate sul marenostrum, in mezzo a tanto sfoggio di soprannaturale bellezza, si nasce pescatori o si muore marinai, le facce tramate da rughe e scolpite da un diosole che da queste parti fa sudare pure le pietre.
Laddove soffia la grinta stizzosa di Eolo dio d’ogni folata e padre di tutte le procelle di mare, laddove Ulisse lo scaltro passò a trovarlo per avere ragione di ogni vento esistente, si nasce soli in mezzo al mare, lontano da ogni barlume di terraferma e in balia di onde e vulcani, di acqua che bisticcia colla terra e di fuoco che da sotto agita le notti insonni degli isolati dal mondo conosciuto.
La fatica
Eppure in questa landa perduta del globo terracqueo c’è stato chi non fu né marinaio né pescatore, chi non volle seguire le orme di antenati dalla pelle salata che vissero l’epopea del mare come unica fonte di vita: come Christian Riganò, una vita passata a sconvolgere le difese avversarie ed iniziata colla faccia imbrattata di calce e di cemento.
Riganò è stato un calciatore che ha preso di petto la fatica, quella vera. Quella che non conosce rispetto per l’uomo, fatta di albe precoci e freddo dentro le ossa, le dita intorpidite tra il secchio e la cazzuola, i sacchi sulle spalle e i calli sulle ginocchia. A venticinque anni è ancora un muratore ma sogna di andare a inseguire un pallone sui campi brulli e sgarbati dell’isola, dove se una domenica pomeriggio per far esultare quattro gatti di spettatori ti guasti le caviglie sulle pietre che spuntano nell’area avversaria, il giorno dopo perdi la misera paga che ti sarebbe toccata. Sogna e giura Christian, che se non dovesse riuscire a farlo, il calciatore, quatto quatto sarebbe tornato tra il cemento ed i mattoni.
Gli inizi
Ma è caparbio, sicuro di quello che fa; gioca inizialmente in difesa fin quando la dea bendata del circo del pallone fa sì che il compagno attaccante si rompa. Lo mandano in attacco e segna subito, dichiarando che vuole rimanere nel ruolo perché da quelle parti si fa meno fatica. Di lui si accorgono al Taranto, due sole stagioni, quarantuno gols, dopo esser stato con Messina e Igea Virtus.
La definitiva affermazione
Ma è a Firenze che scoppia la riganomania, quando un fallimento impone alla squadra toscana un cambio di ragione sociale. Alla Florentia Viola Christian regala cinquantadue gol e due salti di categoria, arrivando direttamente in serie A. Passa pure da Empoli, dove forse dimentica di essere goleador di razza, fin quando torna nella provincia di nascita, a Messina che dopo un quarantennio ritrova la massima serie; segna 19 gol in 27 partite sebbene la stagione del Messina si concluda con la retrocessione.
Gli ultimi anni da calciatore li passa girando varie squadre, tra le quali il levante, in Spagna e compagini di serie inferiori mettendo ancora a segno una settantina di reti.
Da solo, se non con l’aiuto della sua testa caparbia, Christian Riganò ha saputo costruire la sua carriera, un mattone sopra l’altro, come i muri che gli hanno fatto dannare l’anima di muratore; quelle albe precoci, quelle dita intorpidite, quelle scapole scavate da quei sacchi portati sulle spalle; centinaia di sacchi di cemento tanti quanti i palloni che i portieri avversari hanno dovuto raccogliere dalla rete.
Se c’è un’immagine che la storia del calcio ha messo nella bacheca degli eventi per ricordare questo umile servitore del gioco del pallone è certamente quella del tifoso viola che sventola un giusto efficacissimo striscione: Dio perdona, Riga-nò.
Racconto a cura di Vincenzo Di Salvo