Salta al contenuto principale
TDP Originals

Shaun Wright-Phillips, che parli il calcio

La perenne lotta di un ragazzo figlio d’arte, contro aspettative, pregiudizi e ignoranza. L’unica risposta possibile: quella del campo. Shaun Wright-Phillips ha sconfitto tutti i suoi nemici.
Image
Shaun Wright-Phillips – Illustrazione di Tacchetti di Provincia

La nostra storia di oggi inizia come spesso ne finiscono molte altre: con un pianto.

A spandere lacrime è un ragazzino che semplicemente non vuole andarsene da “casa”. I suoi 165 centimetri d’altezza tradiscono la sua età, che quel 17 luglio del 2005 dice “24” alla voce “anni compiuti”.

Non vuole lasciare casa. Ma mica la casa dove è nato e cresciuto. Nooo.

Lui è nato a Greenwich, vicino al famoso meridiano. Mentre ora, che sta piangendo, è a Manchester, diverse miglia più a nord.

Eppure è lì che ora si sente a casa. Gioca per il City. Sfreccia veloce lungo la fascia destra. E, da qualche tempo, sulla panchina del club, siede finalmente un allenatore che lo ha capito davvero: Kevin Keegan.

Ha dovuto combattere, Shaun. Contro i pregiudizi, in primis, e contro il razzismo, addirittura, poi.

Una battaglia contro il mondo che merita di essere raccontata.

Il papà bomber

213 presenze, 113 gol. Signore e signori, eccovi Ian Wright. Splendido puntero di colore che, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 ha fatto impazzire i tifosi inglesi, quelli di Crystal Palace e Arsenal in particolare.

È giovanissimo, Ian, quando decide di adottare un bambino di appena 3 anni. È il figlio della sua compagna, Sharon. Di lui si sa solo che ha nelle vene un mix micidiale di sangue giamaicano e grenadino.

Lo prende con sé, e pochi anni dopo gli regalerà la compagnia di un fratellino, Bradley.

Quel bimbo sperduto è proprio Shaun. Nella sua adolescenza fatica terribilmente a mettere su centimetri di altezza, motivo per il quale molti dubitano che possa seguire le orme del padre, nel calcio che conta.

Ci si accorge invece ben presto, fin dalle sue prime sgambate, con le giovanili del Nottingham Forest, che questo ragazzino ci sa fare eccome. Per un motivo sopra gli altri, l’unico che renderebbe davvero appetibile un giocatore così poco strutturato: ha una impressionante velocità, con e senza palla al piede.

Lo metti largo, sulla fascia, preferibilmente la destra, ma fa poca differenza, e sembra di vedere uno sciatore impegnato nello slalom tra i paletti. Letteralmente imprendibile.

Il suo talento fa gola, e a vincere la corsa per accaparrarselo è il Manchester City, che lo aggrega, a 17 anni, alla propria squadra giovanile.

Wright-Phillips sarà un campione?

Sembra un percorso floreale ben segnato verso il successo. Ma non è così.

Il guaio, quando nasci con un cognome importante, anche se in aggiunta a quello paterno, nel suo caso, trova ovviamente spazio anche quello della mamma, e il “brutto” di crescere con un papà che è stato un tale campione sono le tremendissime aspettative.

Secondo una legge mai scritta in natura, e che nessuno ha mai capito, ci si aspetta che il dna sia lo stesso del genitore piuttosto che del talentuoso familiare, e che, per forza di cose debba crescere un campione.

La gente però spesso dimentica che, se c’è stato Diego Armando Maradona, ci sono stati anche Hugo e Lalo Maradona. E che se il Crujiff padre, Johan, ha incantato il mondo con la palla al piede, lo stesso non si può affermare del figlio Jordi.

Allo stesso modo, quindi, tutti si aspettano grandi cose da Shaun. E lui ci mette pure del suo, perché un paio di mesi dopo l’esordio ufficiale tra i grandi, avvenuto in un match di Coppa di Lega contro il Burnley, arriva anche quello in campionato, contro il Port Vale, che sta battendo i Citizens per 1 a 0.

Il suo ingresso, come si suol dire, spacca letteralmente la partita. Provoca l’autorete di Snijders, dell’1 a 1. Poco dopo entra anche nell’azione che porta al gol del vantaggio firmato da Granville.

Sembrerebbe il perfetto esordio di un giovane rookie, come tanti altri se ne sono visti. Invece questa brillante prestazione rischia di trasformarsi ben presto in un clamoroso boomerang per il giovane Shaun Wright-Phillips.

Le prime amarezze

Quando la settimana successiva alla partita si ferma per infortunio il titolare dell’attacco, lo scozzese Dickov, mister Joe Royle non ha dubbi, e lancia il ragazzino figlio d’arte da titolare.

Si capisce ben presto che, senza Dickov, non è la stessa cosa. Il ragazzo non è pronto per prendersi la squadra sulle spalle. Oltretutto, il gioco del City di allora (tanta palla in aria e poca a terra) non aiuta le sue qualità. Va regolarmente a schiantarsi, più che a scontrarsi, con i maniscalchi posizionati al centro delle difese avversarie.

Shaun viene provato praticamente in tutti i ruoli d’attacco, ma niente. Non incide.

Il commento che và per la maggiore, dalle parti del vecchio Maine Road, è il seguente: “Non ha nemmeno la tecnica di pisciata in comune con il padre, questo qui. Che delusione”

Serve una grande famiglia alle spalle, e una eccellente educazione al mondo dello sport, per far sì che il ragazzo non si smarrisca di fronte a questi pesanti giudizi. Soprattutto l’anno successivo, quando il City retrocede, e il ragazzo finisce, insieme al resto della squadra, sul banco degli imputati.

Stanno per cacciarlo via, e la sua carriera finirebbe presumibilmente lì, se sulla scena non irrompesse un allenatore che di talento, in tutte le sue forme, se ne intende eccome: Kevin Keegan.

Arriva Keegan

Kevin Keegan, bandiera del Liverpool, con cui ha vinto tutto, e protagonista assoluto anche con le maglie di Amburgo, Southampton e Newcastle, è forse uno dei più bei giocatori che il Regno Unito abbia mai prodotto.

Tecnico, estroso, rapido, creativo. Alla modestia del suo fisico abbinava una classe fuori dal comune.

Smessi i panni del giocatore, si siede in panchina, e ottiene dei buoni risultati, col Newcastle in particolare, con cui arriva secondo, nel 95-96, dietro allo United di Sir Alex Ferguson.

È reduce dalla disastrosa eliminazione della nazionale agli Europei del 2000. E la sua occasione di riscossa si chiama proprio Manchester City.

Come abbiamo detto e visto, Keegan di talento se ne intende.

Al suo arrivo a Manchester blocca subito la partenza di Shaun. Ha avuto un’idea.

Nella sua visione iper-offensiva, e innovativa, del calcio vuole provare il ragazzo come esterno di centrocampo. Qualche metro più indietro. In questo modo avrebbe la possibilità: A- di evitare di essere sempre in stretto contatto con i difensori avversari, partendo da più distante, senza marcatura; B- di sprigionare sulla fascia tutta la sua velocità.

Lavora poi sulla testa del ragazzo, come solo un campione del suo livello può fare: “Fottitene di tutto e di tutti. Pensa solo a giocare”.

Un insegnamento che Shaun Wright-Phillips non dimenticherà mai.

Il successo tanto agognato

L’esperimento di Keegan funziona. Dal 2000 al 2003 Wright-Phillips viene votato per 4 volte di fila “Giocatore Primavera dell’Anno”. Il mister talvolta lo fa pure giocare da quarto in difesa. Tanto ha capito che il ragazzo, quello che non sa, lo impara alla svelta.

Il City vince immediatamente la B inglese, e negli anni successivi centra regolarmente l’obiettivo salvezza.

Wright-Phillips di quella squadra diventa protagonista assoluto. Si parla di lui come “uno dei migliori giovani del calcio europeo”.

L’attenzione, ora, non è più sul primo dei suoi due cognomi. C’è chi, addirittura, si dimentica che sia figlio d’arte. Ora è semplicemente Shaun, un ragazzo che si è creato, tra mille peripezie, il suo percorso.

Il primo momento in cui, forse, deve aver pensato “ce l’ho fatta” è il 18 agosto del 2004. Quando esordisce con la Nazionale Inglese, subentrando a Nicky Butt al settimo della ripresa durante un’amichevole giocata al St. James’s Park contro l’Ucraina.

Nemmeno il tempo di ambientarsi, giusto una ventina di minuti, e si toglie pure lo sfizio di timbrare il suo primo gol con la Nazionale dei Tre Leoni. Che spettacolo!

Anche stavolta, sembra un sentiero floreale ben tracciato e segnato verso il successo. Ma la battaglia di Shaun Wright-Phillips contro il mondo non è ancora finita.

"Pensa solo a giocare"

Il nemico stavolta, però, è inaspettato e molto più subdolo. Una di quelle cose che mai al mondo, in nessun ambito della nostra vita, tantomeno nello sport, dovrebbe trovare posto. Il razzismo.

È il 17 novembre del 2004, quando Shaun, insieme ai compagni di nazionale, vola a Madrid, per disputare un amichevole contro la Spagna, al Santiago Bernabeu, uno dei migliori salotti della storia del football.

Solo che, evidentemente, la spazzatura e il marciume riesce a infiltrarsi anche in posti così di classe.

Così accade che, per tutta la durata della gara, sia lui che Ashley Cole, terzino dell’Arsenal, vengano bersagliati da copiosi e disgustosi “buuuu” ad ogni palla toccata.

Un episodio che indigna l’intero mondo del calcio, in un’annata in cui troppo spesso certi episodi hanno teso a ripetersi (è l’anno di Zoro, che vuole abbandonare il campo durante un Messina-Inter, è l’anno in cui il coraggiosissimo arbitro Temmink fischia la fine anticipata di una gara tra Den Haag e Psv, stanco di sentirsi appellare come “ebreo” dal pubblico locale).

Il peggior nemico del razzismo, però, è l’educazione e l’intelligenza. Due caratteristiche che, da sempre, albergano nell’animo di Shaun Wright-Phillips.

Non si scompone, niente sceneggiate né dichiarazioni al vetriolo a mezzo stampa. Nulla. Equivarrebbe a dare soddisfazione a quei mentecatti, quindi niente, avanti.

Tre giorni dopo si ripresenta in campo, al Fratton Park di Porstsmouth. Bastano 6 minuti dopo il fischio d’inizio, e la butta dentro. Di rabbia. Il City vince quell’incontro 3 a 1.

A fine gara, allora sì, Shaun si presenta di fronte ai giornalisti. Quando gli chiedono cosa ne pensi di quanto successo negli ultimi giorni, la sua risposta è:

" Avete visto, no? Ho semplicemente preferito che fosse il calcio a parlare. "

Le lacrime d’addio di Wright-Phillips

E quelle lacrime? Come mai?

Perché mai, al termine di una storia così bella, fatta di rivincite e soddisfazioni, contro nemici biechi e ostili, un ragazzo dovrebbe scoppiare in lacrime?

Come detto, è il 17 luglio del 2005. La crisi economica del City è più grave di quanto, inizialmente, si credesse. E il club, che di lì a poco passerà la mano ai facoltosi sceicchi che tuttora lo detengono, è costretto a vendere i propri gioielli.

Tra questi anche il 24enne Shaun Wright-Phillips, per il quale, oltretutto, è arrivata una richiesta molto allettante dal Chelsea: 21 milioni di sterline.

Lo sa. Lo sa che la sua cessione, probabilmente, salverebbe il club. Lo sa che andrebbe a giocare in una squadra ricca di talento, impegnata in Champions League e sulla cui panchina, da un anno, siede un fenomeno assoluto come Josè Mourinho. Lo sa che quel trasferimento vorrebbe dire rimanere nell’orbita della nazionale.

Lo sa. Ma non vuole andare.

Ci ha messo tanto tempo a vincere le sue battaglie, a crearsi il suo percorso. E ora che potrebbe veramente godersi, anche solo per pochi istanti, quello che si è creato non gli và di ricominciare tutto da capo.

Rimettersi in discussione, ripartire da zero. No, vi prego.

Ma non c’è soluzione. Non c’è alternativa.

Sarà buon profeta, perché al Chelsea, nonostante l’iniziale fiducia del club, non riuscirà mai a imporsi fino in fondo.

Perderà anche il treno per i Mondiali del 2006, complice, appunto, lo scarso minutaggio in Blues, e, soprattutto, una singola partita clamorosamente sbagliata, contro l’Irlanda del Nord (ma si sa, a quei livelli non ti perdonano niente).

Dopo 4 stagioni a Londra tornerà nella sua Manchester, trovando un City radicalmente cambiato: ambizioso e pieno di soldi. La sua carriera proseguirà tanti altri anni, con le maglie del Queen’s Park Rangers, in Inghilterra, e di New York e Phoenix, in America.

Ma ciò che accade dopo ha importanza relativa. È il percorso di Shaun Wright-Phillips, non più solo il figlio di bomber Ian, ma un talentuosissimo esterno inglese, dotato di grandi capacità di corsa.

E nessuno, mai più, si azzarderà a ululare a quel ragazzo. Perché chiunque, contro la sua educazione e la sua intelligenza, sarà sempre sicuro di perdere. Tanto a poco.

Ti potrebbero interessare anche ...

Mauro Bressan, la gemma del mediano

Mauro Bressan, trevigiano di Valdobbiadene, era un onesto centrocampista capace di ritagliarsi il suo spazio in Serie A. Una buona carriera indossando diverse maglie, quasi sempre da titolare, caratterizzata da sostanza e abnegazione. Poi, in quell’autunno fiorentino del ‘99, cambia tutto…
4 minuti Leggi subito

Keisuke Honda, un mondo senza confini

Keisuke Honda numero 10 irrequieto e vagabondo, in grado di girare a suon di gol tutti e 5 i continenti. Senza fermarsi mai, nemmeno una volta appesi gli scarpini al chiodo. Immergiamoci nel suo viaggio.
4 minuti Leggi subito

I fratelli Baggio

Florindo, grande appassionato di sport, decise di chiamare i suoi due ultimi figli maschi con i nomi dei suoi idoli: Roberto in onore di Boninsegna ed Eddy in onore di Merckx. I due figli divennero entrambi calciatori professionisti, Roberto e Eddy Baggio.
9 minuti Leggi subito