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Lorenzo Amoruso, il Dio del capitano

Dopo due folgoranti anni in maglia Viola, conditi da una straordinaria vittoria in Coppa Italia, Lorenzo Amoruso vola a Glasgow, per giocare con i Rangers. Accolto da molto scetticismo, diventerà il primo capitano cattolico nella storia del club scozzese.
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Lorenzo Amoruso – Illustrazione di Tacchetti di Provincia

La religione è uno di quei temi che poco, o nulla, dovrebbero centrare con il gioco del calcio.

Potrebbe al massimo toccarlo di striscio, con segni della croce scaramantici all’ingresso in campo, o con braccia proiettate al cielo subito dopo un gol segnato.

Ma non si può non entrare nel merito se si parla di Glasgow, e della rivalità tra Celtic e Rangers. Filo-cattolici i primi, convinti protestanti i secondi. Non c’è mediazione tra i due mondi, e qualsiasi abitante della capitale scozzese nella propria vita, a un certo punto, ha dovuto scegliere da che parte stare.

Se a un qualsiasi tifoso di fede Rangers aveste detto, per esempio ad inizio anni ’90, che a breve il loro capitano sarebbe stato non solo straniero (fino ad allora al massimo qualche inglese aveva portato la fascetta), non solo italiano ma pure fervente cattolico, alla meglio vi avrebbero riso in faccia.

Nel 1997, invece, a Glasgow arriverà un difensore nativo di Bari, quartiere di Palese-Macchie per la precisione, che di nome fa Lorenzo e di cognome Amoruso. E in poco tempo quella fascia se la prenderà.

Diventando così il primo capitano cattolico della squadra, e scrivendo, anche per questo, una pagina di storia del calcio.

Amoruso e il primo amore a tinte viola

Difensore centrale vecchio stampo. Granitico. Marcatore efferato, talvolta addirittura libero, per quel suo educatissimo piede destro, che gli permette: sia di impostare il gioco da dietro con grande lucidità e precisione, sia di eseguire maligni calci di punizione, potenti e precisi, incubo di ogni portiere.

Dopo gli inizi con vari prestiti, e poi, ovviamente, con la maglia del Bari, Lorenzo conosce il primo grande amore della sua carriera: la maglia viola della Fiorentina.

Sbarca a Firenze nel 1995, unendosi alla ambiziosa banda guidata da Claudio Ranieri, che, dopo essere risorta dalle proprie ceneri e aver superato le Termopili della serie B, ora, trainata dai gol di un super Gabriel Omar Batistuta, vuole re-inserirsi tra le grandi del nostro campionato.

Trascorre appena due stagioni in riva all’Arno. Quanto basta per entrare nel cuore dei tifosi. Lo stesso amore che Amoruso tuttora prova per la Firenze città, dove ha scelto di trascorrere la sua vita al di là del calcio.

La coppa di Gabriel e Lorenzo

La cartolina della sua esperienza in viola è sicuramente il gol con cui apre le danze, nella finale di Coppa Italia del 1996, che la Fiorentina si trova a dover disputare contro un’altra nobile Cenerentola del nostro campionato: l’Atalanta di Mondonico.

All’andata, a Firenze, la decide Batigol. Al ritorno, all’Atleti Azzurri d’Italia di Bergamo, ci sono 26mila spettatori, ansiosi di vedere la Dea alzare il primo grande trofeo della propria storia.

Il primo tempo scivola via, grazie soprattutto alle parate di Ferron, e alla banda Ranieri va benissimo così.

Al terzo minuto della ripresa, su perfetto calcio d’angolo calciato da Rui Costa, a centro-area sbuca proprio Amoruso, che con una splendida girata volante indica alla coppa la strada verso Firenze.

Ci penserà poi ancora Batistuta a chiudere i conti, scatenando la festa in tutto il capoluogo toscano.

Scozia, arrivo!

I Rangers lo portano in Scozia a inizio estate del 1997, sborsando 5 sacchi da 1 milione di sterline l’uno per accaparrarselo.

A Glasgow Lorenzo trova una vera e propria colonia italiana.

Agli ordini di mister Smith, infatti, in maglia blues ci sono Sergio Porrini, Luigi Riccio, Marco Negri e pure un giovanissimo Gennaro Ivan Gattuso (non ancora Ringhio).

Come spesso accade, l’inizio non è dei migliori: subito un grave infortunio, poi uno sputo a un avversario, che oltre Manica non ti perdonano mai, e che gli costa 4 giornate di squalifica.

Poi però si prende, letteralmente, in mano le chiavi della difesa, diventando elemento imprescindibile nello scacchiere della squadra di Ibrox.

Dal 1997 al 2003 arriveranno, per i Rangers, 3 campionati, tre coppe di Lega, 4 coppe di Scozia.

E proprio una finale di Scottish Cup rappresenta la sua ultima partita con la maglia dei Blues.

Si gioca ad Hampden Park, lo stadio della nazionale. Avversario il Dundee (guidato fino all’anno precedente da un altro italiano, Ivano Bonetti).

Finisce 1 a 0 per i Rangers, e a deciderla è ovviamente lui, con uno stacco di testa in anticipo sull’incerto portiere avversario, l’argentino Speroni.

Quale miglior modo per congedarsi da un club, da un popolo che lo ha accolto a braccia aperte, superando anche quelle diversità che fino a poco prima parevano insormontabili?

I came, I saw, I conquered

Tanto lo scetticismo, il giorno del suo arrivo in Scozia. Le acredini sono più con la stampa, a dire la verità, che con i tifosi. Che pure non vedono di buon grado quel suo farsi il segno della croce prima di ogni ingresso sul terreno di gioco.

Lui chiede pazienza, di essere giudicato sul campo. Sposta, intelligentemente, quel suo gesto scaramantico qualche metro più indietro, nel tunnel degli spogliatoi. “Occhio non vede, cuore non duole”.

Tutto questo viene pian piano messo da parte. Perché Lorenzo alle polemiche preferisce sempre il campo.

I tifosi capiscono, ben presto, che questo difensore barese non solo ha tutte le qualità per portarli lontano, ma ha pure immense doti umane. Sarebbe disposto a dare tutto per quella maglia.

E così, la prima volta che esce dal tunnel di Ibrox con la fascia al braccio, i mugugni sono sensibilmente diminuiti.

Finirà con la stampa scozzese a chiedergli addirittura di indossare la maglia della loro Nazionale. Cosa che Amoruso, oltretutto, sarebbe pure disposto a fare, se non fosse per quelle due sporadiche presenze collezionate a inizio carriera, ai tempi del Bari, con l’under 21 azzurra.

Ma poco cambia.

Perché se è vero che “le vie del Signore sono infinite”, è vero anche che un  vero leader, un vero capitano, sa farsi seguire in battaglia dai suoi seguaci. A prescindere dal fatto che il Dio in cui essi credono sia lo stesso a cui crede lui.

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