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Henrik Larsson, I dread della fenice

Secondo i medici non sarebbe nemmeno dovuto tornare a camminare normalmente con le proprie gambe. Ma Henrik Larsson, lo svedese con i dread, ha saputo fare molto di più. Sempre letale, sempre decisivo. Chi il migliore in Svezia: lui o Zlatan?
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Henrik Larsson - Illustrazione di Tacchetti di Provincia

È Zlatan Ibrahimovic il miglior calciatore nella storia della Svezia?

Quasi tutti vi risponderanno di sì. A Malmoe, terra natale del numero 9 del Milan, la percentuale di risposte positive a questa domanda sfiora il 100%.

Eppure c’è chi non è d’accordo.

A Helsingborg, per esempio, hanno idee diverse. Per gli abitanti della cittadina del profondo sud del paese il migliore è stato un altro: Henrik Larsson.

Attaccante come Zlatan, ma con caratteristiche differenti. Meno accentratore, forse meno tecnico, ma estremamente letale sotto porta. E che, a differenza di Ibra, ha nella propria bacheca personale quella Coppa dei Campioni che il campione rossonero non ha mai nemmeno sfiorato.

Leggendo la sua storia vi accorgerete non solo di come questa opinione degli abitanti di Helsingborg possa effettivamente trovare quartiere. Ma scoprirete anche che, oltre all’araba fenice che tutti conosciamo, capace di risorgere dalle proprie ceneri, nella storia dell’uomo ce n’è stata un’altra, svedese stavolta.

Una fenice con i dread.

Henrik Larsson Rocha a Usa ‘94

Il mondo pallonaro si accorge di Henrik Larsson, che in realtà dovrebbe chiamarsi Rocha, come il cognome del padre capoverdiano, ma a cui i genitori preferiscono dare il cognome della madre per tutelarlo da eventuali discriminazioni razziali, nel 1994.

Siamo negli Stati Uniti, dove si stanno disputando i primi mondiali nordamericani della storia. La Svezia del c.t. Svensson compie una piccola impresa, riuscendo a classificarsi al terzo posto, dietro solamente alle finaliste Italia e Brasile. Nella finalina i gialloblu battono una Bulgaria spremuta da un torneo giocato comunque a livelli formidabili per 4 a 0. Oltre ai gol di Brolin, Mid e Kennet Andersson balza agli occhi la marcatura di un giovane ragazzo di 23 anni da compiere, che si distingue dagli altri non solo per i lunghi dread giamaicani con cui scende in campo, ma anche per la pelle olivastra: Henrik Larsson, appunto.

In realtà il ragazzo, che già in semifinale aveva realizzato uno dei rigori con cui la propria selezione ha eliminato la Romania, si è già fatto apprezzare negli anni immediatamente precedenti i mondiali, segnando caterve di gol con la maglia dell’Helsingborg. 

51 reti in 61 partite. Numeri pazzeschi che gli valgono una chiamata dall’Olanda, sempre lungimirante nell’andare a pescare i talenti dalla Scandinavia. Solo che stavolta il biglietto aereo non ha come destinazione Amsterdam, sede dell’onnivora Ajax, ma Rotterdam, con Larsson va a giocare per il Feyenoord.

Da Rotterdam a Glasgow

Con la maglia del “club del popolo” Henke, come è da sempre soprannominato, non riesce a mantenere la stessa media gol avuta in patria. Ciò nonostante riceve la chiamata del Celtic di Glasgow, club che da secoli si contende la leadership nazionale con gli odiati cugini dei Rangers, e che sovente riesce a togliersi qualche soddisfazione a livello internazionale.

L’esordio però in bianco- verde è tutt’altro che memorabile: un suo errore, infatti, manda in porta un certo Chic Charnley, che timbra la rete decisiva con cui gli Hibernian battono i capitolini 2 a 1.

Sarà solo il primo, e il più facile da superare, di una lunga serie di bastoni che si andranno presto a incastrare tra le ruote della carriera di questo fantastico cannoniere.

“Non camminerà più”

Il secondo turning-point avviene all’inizio della stagione calcistica 1999-2000. Larsson viene da due annate giocate alla grande, e condite da qualcosa come 45 gol.

Il Celtic si appresta a disputare un match di Champions League alla Gerland contro il Lione. Al 10 minuti Henke si scontra in maniera molto violenta con Serge Blanc, onesto maniscalco della retroguardia transalpina. Cade a terra, e il suo urlo di dolore riecheggia in tutto l’impianto, gelando anche i cori della Virage Nord lionese. Viene ovviamente sostituito e sottoposto ad opportune analisi, il cui esito è raggelante.

Doppia frattura della gamba e rottura di tibia e perone. Il manager scozzese Charles Barnes, che si è nel frattempo dovuto spendere per consolare i propri giocatori, abbattuti più da quell’infortunio che non dalla sconfitta, chiede un parere al medico: “Quando potrà tornare in campo?”

“Mister, le dirò la verità: è già tanto se tornerà a camminare con le proprie gambe”

Spesso però si sottovaluta, a torto, la tempra di un popolo come quello svedese. Se a questo si aggiunge che nelle vene di Henrik scorre il sangue di gente notoriamente resiliente come quelle capoverdiane, potrete allora immaginare cosa avviene l’anno dopo.

Larsson non solo torna a giocare. Ma con la bellezza di 28 gol in 35 partite vince pure la Scarpa d’Oro 2001, davanti ad elementi del calibro di Crespo, Shevchenko, Raul e Hasselbaink.

Il segno della rinascita nella sua acconciatura: via i tanto amati e iconici dread, spazio a una crapa rasata tipo naziskin.

Larsson decisivo anche in blaugrana

Sì, è vero. Parte del merito lo ha sicuramente il non eccelso livello della Scottish Premier League. Lo sa anche lui. Che dopo aver sfiorato la vittoria in Coppa Uefa, alzata poi dal Porto di un giovane Josè Mourinho, nel 2004 decide di mettersi alla prova in un campionato dove si gioca calcio vero. Dove i numeri e i gol contano eccome, contano di più.

Anche perché la chiamata che arriva è una di quelle che non si possono rifiutare: Barcellona, Catalogna.

In blaugrana parte bene. In Champions segna pure un gol al suo vecchio Celtic (e, ovviamente, non esulta).

Il 21 novembre di quell’anno, al Camp Nou, è in programma la partita più attesa dell’anno. Barcellona contro Real Madrid. Blaugrana contro merengues. Indipendentismo catalano contro regime. In poche parole: Il Clasico.

Larsson parte titolare, in un fantascientifico tridente con Ronaldinho ed Eto’o. 

Al minuto 72 i ragazzi di Rijkard hanno già messo in saccoccia la partita, grazie alle reti proprio del camerunense Eto’o e di Van Bronckhorst (alla fine sarà 3 a 0 con la firma pure di Dinho). All’improvviso il gioco si ferma, la palla viene sportivamente buttata fuori. C’è un giocatore a terra: è proprio Larsson.

Anche qui, sostituzione immediata: entra Iniesta. Larsson lascia il campo in barella, con lo sguardo pieno di brutte sensazioni. Che verranno poi confermate dagli esami del giorno dopo: il ginocchio sinistro è spappolato, con la rottura del crociato anteriore e la lesione del menisco.

A 33 anni nessuno pensa che il ragazzo possa riprendersi. Magari lo farà anche, ma non riuscirà mai più a tornare ad alti livelli.

Ma, anche stavolta, le malelingue sbagliano parrocchia.

La finale di Parigi

Il Barcellona decide cavallerescamente di rinnovargli il contratto. Nel contempo però compra Giuly dal Monaco per completare il tridente, che vedrà ora Eto’o fare la prima punta.

Lo aspettano, con pazienza. Hanno fiducia, non si lasciano spaventare da ciò che l’anagrafe afferma inconfutabilmente. Sanno che il ragazzo è smosso da qualcosa di non comune, nel proprio animo. Una fame che ogni giocatore del glorioso Barça dovrebbe avere.

La stagione 2005/2006 vede i catalani compiere una memorabile cavalcata europea, che li porta ad andare a giocarsi la finale di Coppa dei Campioni allo Stade de France di Parigi, contro l’Arsenal degli invincibili di Arsene Wenger.

Rijkard punta sull’ossatura del gruppo che lo ha condotto fin lì. Cerniera difensiva con Oleguer, Puyol, Marquez e Van Bronckhorst. Centrocampo a tre, Edmilson gioca più basso rispetto a Van Bommel e Deco. Davanti sempre loro: Ronaldinho a sinistra, Giuly a destra, Eto’o in mezzo. Numerose le licenze di svariare concesse.

Al 37esimo i Gunners la sbloccano. Centro di Henry per il buttafuori Sol Campbell, che di testa la insacca alle spalle di Valdes. 1 a 0.

Nella ripresa Rijkard prova a confermare gli 11 iniziali. Ma la scossa non arriva. Così a mezzora dalla fine il tecnico olandese decide di osare: fuori un mediano, Edmilson, dentro una punta Larsson. Per un 4-2-3-1 iper offensivo.

L’azzardo paga subito in dividendi.

Minuto 76. Deco imbuca in area di rigore per Larsson, che vede l’inserimento a fari spenti di Eto’o dalla sinistra. Tocca quel tanto che basta il pallone per mandare in porta il camerunense, che, nonostante un angolo di tiro molto limitato, buca Almunia (subentrato all’espulso Lehmann) e risistema il risultato. 1 a 1.

Minuto 81. Belletti gioca una pallaccia in area al solito Larsson, che in qualche modo riesce a gestirla. Il passaggio di ritorno no-look per il terzino brasiliano è visionario. Belletti controlla e tira sul primo palo, infilando ancora un Almunia non irreprensibile, e regalando ai catalani la seconda Coppa dalle grandi orecchie della propria storia.

Due assist in finale. Non male per chi avrebbe dovuto passare zoppo il resto della propria vita!

The last dance: lo United

Dopo il trionfo europeo Larsson decide di tornare a casa per chiudere la propria carriera, all’amato Helsingborg (amore ampiamente ricambiato).

Ma non puoi togliere la voglia di cacciare da un leone che ce l’ha per indole.

Nel gennaio 2007 Larsson accetta l’offerta del glorioso Manchester United,  e 35 anni decide di mettersi in gioco ancora una volta.

Sei mesi, a dire la verità, da comprimario, ma lo sapeva fin da subito.

È lo United di un Rooney in rampa di lancio e di uno dei migliori Cristiano Ronaldo che si siano mai visti, secondo forse solo a quello di Madrid.

Henke riesce comunque a togliersi le proprie soddisfazioni. Il gol, d’altronde, ce l’ha nel sangue. Ne segna 3: al Watford in Premier, al Lille in Champions e all’Aston Villa in FA Cup.

Alla fine, dunque, c’è anche la sua firma nel titolo vinto dai Red Devils, eliminati invece dal Milan nelle semifinali europee. 

Una last dance, per Henrik, giusto per dimostrare di essere ancora all’altezza.

Agli svedesi l’ardua sentenza

Il bello del calcio è che, alla fine, siamo un po’ tutti allenatori, arbitri, presidenti e direttori sportivi.

Non sta a noi decidere se Larsson sia stato meglio di Zlatan. Uno dei due può vantare numeri che l’altro non ha, viceversa l’uno può mostrare tronfio un successo prestigioso in bacheca che al rivale manca.

La realtà è che sono stati due giocatori molto diversi, che hanno avuto in comune forse solo la nazionalità svedese. E proprio agli svedesi lasciamo la libertà di autodeterminare il proprio idolo nazionale.

Resta eccezionale la carriera di un giocatore fantastico, capace di ricostruire la propria carriera allo stesso modo di come i vari luminari gli ricostruivano le ossa rotte.

Il dato finale parla di 433 reti in 765 partite. Numeri, forse freddi e cinici, ma indicativi.

Che ci dicono che sì, oltre all’araba fenice è esistita davvero una fenice svedese. Dalla pelle olivastra e con i dread. Capace anch’essa di rigenerarsi dalle proprie ceneri.

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