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Il cucchiaio che valse l’Europa

Ci sono partite che restano scolpite nella memoria collettiva perché ribaltano i pronostici e sfidano la logica. L’Europeo del 1976, ultimo della storia con la formula a quattro squadre, ne è un esempio perfetto. Nella finale di Belgrado, a sollevare la coppa non è la Germania Ovest campione del mondo o l’Olanda del calcio totale, ma la Cecoslovacchia, una squadra che arriva in Jugoslavia da outsider, ma che torna a casa con il trofeo e la consapevolezza di aver compiuto un’impresa destinata a entrare nella leggenda.
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Per capire il peso di quel successo bisogna guardare oltre il campo. La Cecoslovacchia vive ancora nell’ombra della Primavera di Praga del 1968, soffocata dall’intervento del Patto di Varsavia. La vita è scandita dal controllo politico, e il calcio diventa una delle poche occasioni di svago e di libera espressione di orgoglio nazionale. 

Il commissario tecnico Václav Ježek, lucido e meticoloso, ha costruito una squadra compatta, con uomini chiave come il portiere Viktor, i difensori Ondruš e Gögh, il regista Móder, il duttile Nehoda e l’estroso Panenka.

Il torneo è breve e senza seconde chance: quattro squadre, due semifinali, una finale. Le altre tre partecipanti sono colossi. L’Olanda di Cruijff e Neeskens è la stessa che ha incantato ai Mondiali del 1974 con il “calcio totale” di Michels. La Germania Ovest di Helmut Schön è ancora più temibile: Beckenbauer, “der Kaiser” in difesa, Breitner in mezzo, e davanti la coppia Gerd Müller–Dietmar Hoeneß, con Sepp Maier tra i pali.

Dalla pioggia di Zagabria alla notte di Belgrado

In semifinale, a Zagabria, la Cecoslovacchia sorprende l’Olanda sotto una pioggia incessante. Nehoda e Veselý firmano i gol di una vittoria per 3-1 ai supplementari, ma il vero capolavoro deve ancora arrivare.

A Belgrado, il 20 giugno 1976, l’atmosfera è calda e tesa. In molti vedono una Germania con la vittoria già in tasca, ma dopo appena 25 minuti i cechi sono già avanti di due reti: prima Švehlík insacca dopo un’azione insistita, poi Dobiaš gonfia la rete con un preciso sinistro da fuori area. La Germania Ovest reagisce subito con Gerd Müller, che dimezza lo svantaggio al 28'.

La partita diventa un braccio di ferro. I cechi difendono con ordine, Viktor compie almeno due interventi decisivi, ma all’89’ Hölzenbein trova il pareggio con un colpo di testa che manda la gara ai supplementari. Nei trenta minuti extra regna l’equilibrio: la Germania spinge, la Cecoslovacchia resiste.

L’invenzione che diventa leggenda

Si arriva così ai rigori, la prima volta nella storia di una finale di un grande torneo per nazionali. Dopo i primi sette tiri a segno, Hoeneß spara alto: è il possibile match point per la Cecoslovacchia. 

Sul dischetto va Antonín Panenka. Davanti a sé ha Sepp Maier, uno dei portieri più forti del mondo. Panenka parte con una rincorsa lenta, finta di calciare forte e, invece, accarezza la palla con l’interno piede, facendola scivolare al centro della porta mentre Maier si tuffa di lato. 

È il cucchiaio per eccellenza, un gesto di pura follia e genio che passerà alla storia con il suo nome.

Oltre il risultato

La Cecoslovacchia è campione d’Europa e in patria la vittoria viene celebrata come un trionfo sportivo e politico: un piccolo Paese, segnato da anni difficili, ha piegato due superpotenze calcistiche nel giro di pochi giorni. Nel resto del mondo, la favola di Belgrado rimane impressa come una delle più grandi imprese del calcio moderno.

Non è solo la storia di una coppa alzata al cielo, ma la dimostrazione che il coraggio, la compattezza e un tocco di audacia possono rovesciare ogni gerarchia. Che anche di fronte a campioni imbattibili sulla carta, c’è sempre spazio per l’imprevedibile. E che, a volte, la differenza tra l’ordinario e la leggenda può essere racchiusa in un colpo morbido al centro della porta.

Racconto a cura di Andrea Possamai

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