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Grecia 2004: Gli ultimi dei dell’Olimpo

La cavalcata dei ragazzi di Rehagel, che conquistarono l’Europa sovvertendo ogni tipo di pronostico. Gli unici a credere in quell’impresa: 375 fortunati, o lungimiranti, scommettitori.
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Grecia campione nel 2004 - Illustrazione Tacchetti di Provincia

William Shakespeare diceva che siamo fatti anche noi della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Già, ma di cosa sono fatti, effettivamente, i sogni?

A volte essi assumono le sembianze di paesaggi paradisiaci, in cui ci sogniamo di venire catapultati per sfuggire da una qualsivoglia situazione. A volte i sogni sono invece delle situazioni che speriamo si verifichino durante il nostro percorso. Altre volte sono semplicemente obiettivi, mire a cui tendiamo, e che bramiamo prima o dopo di raggiungere.

Ci sono posti poi come la Grecia, dove mare e montagna, collina e pianura, isole ed entroterra diventano un tutt’uno. Una terra dove una volta si diceva dominassero dodici dei, che dal Monte Olimpo determinavano il destino di noi uomini.

Proprio qui, in Grecia, dall’anno 2004 dopo Cristo, i sogni hanno sembianze umane, e sono dotati di nomi e cognomi. Di questi, undici sono diventati una filastrocca da recitare a memoria: Nikopolidis, Seitaridis, Kapsis, Dellas, Fyssas, Zagorakis, Katsouranis, Basinas, Charisteas, Vryzas, Giannakopoulos.

Per arrivare ai fatidici 12 aggiungiamoci Otto Rehagel, il loro allenatore.

Loro, più altri dodici compagni, sono la Grecia del 2004. Che una sera di inizio luglio, a Lisbona, pensò bene di laurearsi Campione d’Europa.

L’accoglienza della Grecia al rientro in patria

La fiducia dei 375: lungimiranza o azzardo puro?

Nessuno credeva in loro alla vigilia della spedizione in terra lusitana. Nessuno tranne 375 persone. Tali furono infatti i lungimiranti scommettitori che il giorno dopo si recarono nelle ricevitorie a riscuotere la propria vincita, consistente nella cifra puntata moltiplicata per 80.

A nessuno è dato di sapere se ci credessero veramente, se avessero denaro da buttare o se semplicemente desiderassero tentare l’azzardo.

Ma non c’è da meravigliarsi. Perché il Campionato Europeo di quell’anno era infarcito di Nazionali colme di grandi campioni. E pronte ai ranghi di partenza con enormi ambizioni.

C’era il Portogallo padrone di casa, a cui sì mancava una prima punta di ruolo, ma che poteva contare su una linea di trequarti tra le più forti della storia: con Cristiano Ronaldo, Figo e Deco (più Rui Costa pronto a subentrare).

C’era l’Inghilterra forse più forte che la storia ricordi. Con Rooney e Owen davanti, e centrocampisti del calibro di Gerrard, Scholes, Lampard.

C’era la solita Germania, giunta in finale della Coppa del Mondo due anni prima. La frizzante Repubblica Ceca, altra sorpresa del torneo, trascinata dal capocannoniere Milan Baros. E poi la Francia di Zidane, l’Olanda di Van Nisterloooy, la Svezia di Larsson.

C’era anche l’Italia, l’ultima Italia di Trapattoni. Che però si fermò clamorosamente alla fase ai gironi, fatta fuori dai propri limiti, prima, e dal biscottone tra Danimarca e Svezia, dopo. Una disfatta che pose però le basi per la rinascita del 2006 targata Marcello Lippi.

Con avversarie così, chi mai avrebbe puntato un euro sulla voce “Grecia Campione d’Europa”?

I ragazzi di Otto

Per analizzare la rosa della Grecia bisogna necessariamente partire dal commissario tecnico degli ellenici: Otto Rehagel.

Tedesco della Vestfalia, uno score di tutto rispetto come allenatore in patria, con 3 titoli vinti con Werder e Kaiserslautern, alla faccia delle superpotenze Bayern e Borussia Dortmund. Uno che di imprese se ne intende, viene da dire. Sul finire della propria carriera, decise di accettare la panchina della nazionale greca, che più che un obiettivo aveva un sogno: qualificarsi per l’Europeo (impresa che le riuscì una volta sola, nel 1980).

Rehagel plasmò la sua Grecia su un 4-2-3-1, molto in voga in quel momento. 

In porta la certezza Nikopolidis. Brizzolato, esperto, una netta somiglianza con George Clooney (così infatti lo soprannominarono i tifosi del Panathinaikos).

Ai lati della difesa a 4 Seitaridis e Fyssas. Due terzini di buona gamba, con licenza di spingere e accompagnare l’azione, senza mai dimenticarsi di dare una mano ai due centrali, Traianos Dellas e Michalis Kapsis. Fisico e macchinoso il primo, che in Italia vedremo con alterne fortune vestire le maglie di Perugia e Roma. Più rapido in copertura il secondo, il cui padre Anthimos fu tra i convocati nella prima e unica partecipazione della Grecia a un Europeo 24 anni prima.

A centrocampo capitan Zagorakis e Katsouranis schermavano la difesa. Qualche metro più avanti di loro agiva il vero cervello della squadra: Angelos Basinas. Bandiera del Panathinaikos, praticamente ambidestro. Giocatore dotato di visione di gioco, abile nel dettare i tempi e maestro nei calci di punizione. Praticamente ogni iniziativa offensiva doveva per forza passare dai suoi piedi.

Davanti, insieme al generoso Giannakopoulos, le due vere punte: Zyssis Vryzas e Angelos Charisteas. Tutt’ora non si è capito chi di loro fosse l’effettiva prima punta, tanto amavano incrociare i movimenti tra loro. Vryzas veniva da delle buone stagioni a Perugia, più un’ultima molto meno fortunata a Firenze. Charisteas invece si era laureato campione di Germania con la maglia del Werder Brema qualche anno prima, ma non aveva mai realmente impressionato per il suo fiuto del gol.

Di grandi nomi neanche l’ombra. Come nelle grandi storie. Tanta classe operaia e spirito di sacrificio. Come nelle grandi storie. I favori del pronostico, tutti altrove. Come nelle grandi storie. Una sconfitta annunciata, una missione impossibile. Come nelle grandi storie.

Il cammino in Portogallo: un crescendo rossiniano

Già nel girone di qualificazione la Grecia di Rehagel stupì tutti, riuscendo a classificarsi prima davanti alla Spagna (ben altra cosa rispetto alla selezione che nel giro di qualche anno vincerà tutto, ma pur sempre la Spagna), ottenendo una storica qualificazione a 24 anni di distanza dall’impresa dei ragazzi di Alketas Panagoulias.

Il sorteggio vide Zagorakis e compagni inseriti nel gruppo A. Quello dei padroni di casa del Portogallo (ahia), della Spagna ancora (ri-ahia) e della più malleabile Russia.

All’esordio subito i portoghesi. Arbitra Collina a Oporto. Stadio esaurito, tutto di fede lusitana. Risultato finale, che ci crediate o no, 2 a 1 Grecia. Reti di Karagounis e di Basinas su calcio di rigore. Solo allo scadere arrivò il consolation goal di un ancora imberbe Cristiano Ronaldo.

Sembrò la classica sorpresa delle rassegne internazionali (in stile Senegal contro la Francia nel 2002). Invece i ragazzi di Rehagel si ripeterono, strappando un ottimo pareggio per 1 a 1 contro la Spagna nel match successivo.

Questo provocò probabilmente un eccesso di confidenza negli ellenici, che pensarono di passeggiare nella terza gara contro la Russia e invece uscirono sconfitti 2 a 1. Nuno Gomes però, che in terra greca troverà sempre una moussaka offerta da quel momento, castigò la Spagna 1 a 0, permettendo alla Grecia di qualificarsi, clamorosamente, per la fase a eliminazione diretta.

Quarti di finale. Arriva la Francia. “Se cadremo, lo faremo da veri eroi greci” proclamò Rehagel, preparando l’ambiente ad  una sconfitta che pareva annunciata. La Francia di Zidane, Henry, Pires e Trezeguet appariva uno scoglio insormontabile. Roba da fare invidia al colosso di Rodi. Invece un’altra zuccata di Charisteas al minuto 65 mandò avanti i ragazzi di Rehagel. E’ semifinale.

Qualcuno cominciò a crederci. Osservò il tabellone e pensò che in sole due partite tutto potesse accadere. Anche perché la Repubblica Ceca, rispetto all’Olanda (accoppiata nell’altra sfida con il Portogallo), appariva come un avversario contro cui giocarsela.

Ma i cechi furono una tremenda gatta da pelare per tutti in quell’Europeo. Pur senza Nedved, infortunatosi nei primi minuti, le geometrie del “violinista” Rosicky, i centrimetri di Jan Koller e la rapidità di Milan Baros misero a dura prova la resistenza difensiva di Dellas e soci. Al 90′ fu 0a0. Supplementari.

Il minuto del destino fu il numero 105. Corner di Tsiartas. Testa proprio di Dellas. Una impercettibile deviazione e la palla terminò in rete. Fu il golden gol, quello che mandò la Grecia direttamente alla finale di Lisbona.

Fate spazio nell’Olimpo

Il resto è storia: l’ennesimo calcio piazzato di Basinas, un’altra incornata di Charisteas, le lacrime di Ronaldo, il senso di impotenza di capitan Figo, la delusione del c.t. portoghese Scolari, capitan Zagorakis che alza la coppa al cielo.

Si dice che nessuno riuscì mai a riunire il popolo greco, diviso da sempre per natura, come quei ragazzi allenati dal tedesco della Vestfalia. I critici parleranno di pessimo spot per il calcio, criticando lo stile di gioco eccessivamente sparagnino e guardingo di quella squadra.

La verità è che, insieme forse alla Danimarca del 92, passata dalle vacanze estive al titolo di campione d’Europa in meno di un mese, la storia della Magna Grecia del 2004 rimarrà iconica e indelebile. Monumento del calcio operaio, emblema di un gruppo di uomini capaci di sovvertire qualunque tipo di pronostico.

E forse agli dei del Monte Olimpo toccherà far posto a tavola. Perché l’eternità è il posto a cui appartengono anche i ragazzi di Rehagel, dopo quella sera di inizio luglio a Lisbona.

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