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Stadio Grezar

Un tempo casa della Triestina e teatro di Serie A e Mondiali, oggi è un impianto di atletica leggera. Il Grezar ha perso il pallone, ma non la memoria.
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Stadio Giuseppe Grezar - Trieste - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Ci sono stadi che muoiono di colpo, inghiottiti dalla ruggine e dall’indifferenza. E poi ci sono stadi che invecchiano piano, cambiano pelle, si spogliano del loro passato e continuano a vivere in una forma diversa. Resistono. Camminano a testa bassa. Non gridano più, ma respirano ancora. 

Lo Stadio Giuseppe Grezar di Trieste è uno di questi. Un tempio che forse non vede più il pallone, ma che ha ancora il respiro di un tempo. Oggi è un impianto di atletica leggera, ma porta ancora addosso le cicatrici e la gloria di un’epoca lontana.

La nascita

Lo stadio nacque nel 1932 con un altro nome: Stadio Littorio, costruito in pieno ventennio fascista, in una Trieste ancora sospesa tra il suo orgoglio mitteleuropeo e la spinta verso la nuova Italia nazionalista. Era un impianto all’avanguardia: pista d’atletica, spalti in cemento armato, capienza superiore ai 20.000 spettatori. Per l’epoca, un colosso. Ma anche per gli standard di oggi non scherzava: la capienza non era poi così lontana da quella del Nereo Rocco, lo stadio che oggi accoglie i giocatori della Triestina, che può contenere fino a 26000 spettatori.

Il Grezar si trovava – e si trova ancora – a Valmaura, quartiere periferico della città, dove la pietra carsica incontra le ultime case prima del mare. Uno stadio pensato per durare. E in effetti, ha retto per quasi un secolo.

L'Unione e i giorni di gloria

La Triestina, la squadra della città, lo fece suo. Il Grezar diventò casa dell’Unione negli anni d’oro, tra Serie A, partite leggendarie e grandi nomi del calcio italiano. Negli anni ‘40 e ‘50, il Grezar vide passare il Grande Torino, Boniperti, Nordahl, Meazza. Vide la Triestina sfiorare lo scudetto nel 1947-48, chiudendo seconda dietro al Toro. Quella squadra aveva dentro un'anima. E il suo cuore batteva tra le curve di questo stadio.

Nel 1957, lo stadio fu rinominato in onore di Giuseppe Grezar, triestino di nascita, centrocampista del Grande Torino, scomparso nella tristemente celebre tragedia di Superga insieme a tutta la squadra. 

Il mondiale che (quasi) nessuno ricorda

Nel 1934, il Grezar ospitò anche una partita dei Mondiali di calcio. Una sola, ma storica: Spagna-Brasile, 3-1. 

A vincere furono gli spagnoli, con una formazione epica che schierava Zamora, Iraragorri e Lángara. Ma nella memoria collettiva, quell’evento è rimasto in ombra. Forse perché, da lì in avanti, il calcio mondiale guardò altrove. Ma per un giorno, Trieste fu centro del mondo.

Il declino del pallone

Negli anni 60 e 70, il Grezar visse una fase di transizione. La Triestina non era più la squadra che riempiva le cronache nazionali, ma lo stadio continuava a essere un punto di riferimento cittadino. Si alternavano campionati di Serie B e C, piazzamenti modesti, salvezze sudate e perfino una drammatica retrocessione in serie D, ma ogni domenica portava ancora pubblico, speranza, attaccamento. Il cemento cominciava a screpolarsi, le strutture a invecchiare, ma il legame tra la città e il suo stadio era ancora vivo.

Col tempo, la Triestina perse slancio. Scese di categoria, lottò con la crisi economica, con l’identità. Anche lo stadio invecchiò.

A partire dagli anni 80, il Grezar cominciò a mostrare tutti i suoi anni. I servizi erano superati, le strutture obsolete, la capienza insufficiente. Nel 1992, la Triestina si trasferì nel moderno Stadio Nereo Rocco, costruito a poca distanza. Il Grezar restò vuoto. O meglio: restò senza calcio.

Ma non morì.

Un nuovo cuore: l’atletica

Per più di un decennio, il Grezar rimase sospeso nel tempo. Quando la Triestina traslocò al nuovo Stadio Nereo Rocco nel 1992, il vecchio impianto venne lasciato indietro, come una reliquia scomoda di cui non si sapeva bene cosa fare. Le porte si chiusero, i seggiolini si coprirono di polvere, l’erba crebbe a caso. Dal 1992 in poi, il Grezar visse un lungo abbandono, rotto solo da qualche sporadico evento minore, senza più un’anima né un futuro chiaro.

Nel 2004 venne annunciata la ristrutturazione: l’idea era quella di trasformarlo definitivamente in un impianto di atletica leggera, con una nuova pista, spogliatoi, servizi. Lavori previsti in conclusione per l’autunno del 2010. Ma come spesso accade in Italia, le promesse finirono per inciampare nella burocrazia, nei ritardi, nei fondi che si spostano e nei cantieri che si fermano. I lavori slittarono, anno dopo anno, e il Grezar rimase un cantiere abbandonato a sé stesso, mezzo impianto e mezzo fantasma.

Solo nel 2017, dopo oltre vent’anni di oblio e tredici anni di attesa, il vecchio stadio tornò finalmente a respirare. Ma non più come casa del calcio: il Grezar rinasceva con un’anima nuova.

Il Grezar oggi

C’è qualcosa di nobile in questa nuova vita del Grezar. Forse più silenziosa, certo. Ma più coerente. “El vecio stadio” ha accettato di cambiare. Di servire lo sport in un altro modo. E nel farlo, ha conservato la sua dignità.

Chi ama l’atletica leggera, chi si allena su quelle piste, chi accompagna un figlio alle gare, sta calpestando la stessa terra che vide Giuseppe Meazza correre verso la porta, che vide la Spagna battere il Brasile, che sentì i cori della Serie A e le sirene della guerra. E questo, forse, è il modo migliore per ricordarlo: continuando a farlo vivere.

Certo, non c’è più la Triestina. Non ci sono più le bandiere, le radioline, le partite della domenica. Ma c’è ancora il fiato corto degli atleti, la tensione della partenza, il salto che riesce o non riesce. C’è ancora sport. 

E tanto basta.

Racconto a cura di Andrea Possamai

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