Stadio Appiani
E’ il 19 ottobre 1924 e un'aria di festa aleggia nell'aria. Non è una domenica come le altre: le prime luci dell'alba accarezzano le otto cupole della Basilica di Santa Giustina, simbolo di una Padova spirituale e devota a Sant’Antonio. Incastonato tra le antiche mura e il suggestivo Prato della Valle, sorge un nuovo tempio di devozione, un catino di emozioni che avrebbe fatto battere all’unisono i cuori di generazioni di padovani: lo stadio Appiani.
Un nome che evocherà ricordi di epiche battaglie calcistiche, di domeniche vissute col fiato sospeso, di un calcio romantico che sembra ormai perduto. Lo Stadio Appiani non è solo un campo sportivo, è un monumento all'anima di una città, un luogo dove il pallone non era solo un gioco, ma un vero e proprio rito.
Non un semplice rettangolo verde, ma un crocevia di destini, un teatro dove le passioni umane, le speranze e i sogni di un'intera città si intrecciavano in un unico, grande racconto.
Le origini della "Fossa dei leoni"
La partita inaugurale contro l’Andrea Doria (la futura Sampdoria) termina con un sonoro 6-1 per i padroni di casa, e l'Appiani, per i padovani, diventa subito il cuore pulsante del calcio cittadino. Il primo gol, siglato da Nane Vecchina dopo soli tre minuti dal fischio d’inizio, risuona come una promessa, un patto d'amore tra la città e la sua squadra.
Lo stadio, in un primo momento battezzato semplicemente “Comunale” cambia presto denominazione e viene intitolato al ricordo e alla memoria di Silvio Appiani, giovane eroe caduto sul Carso durante la Grande Guerra, che con le sue gesta ha incarnato i valori della passione e del sacrificio, doti che si dovevano riflettere indissolubilmente con l'anima della squadra e della città.
L'impianto fu completato definitivamente nel novembre del 1926 e, edificato su un'area di 12.500 metri quadrati, poteva ospitare 9.800 spettatori, di cui 1.300 nelle tre, bellissime tribunette coperte sul lato ovest costruite in cemento armato e rivestite in legno, in perfetto “stile inglese”. Il campo, invece, sopraelevato di 60 centimetri rispetto al suolo e dotato di drenaggio naturale, misurava 110 metri in lunghezza e 65 in larghezza e le fasce di contorno, che lo distanziavano dalle tribune, misuravano un massimo di 3 metri. Costo totale dell'opera: 66.046 lire. L'impianto moderno e innovativo per l’epoca è un vero fiore all'occhiello per la città e viene progettato anche per ospitare gare internazionali.
La capienza iniziale viene aumentata, tra il 1929 e il 1949, quando l’Appiani fu sottoposto a modifiche e ampliamenti, tra cui la costruzione della curva nord e il potenziamento della gradinata est, arrivando ad accogliere fino a 24.000 persone a fine anni 80.
L’Appiani ha ospitato diverse partite storiche come quella contro il Grande Torino del 20 febbraio 1949 (tre mesi prima che lo squadrone granata fosse spazzato via dalla tragedia di Superga), la Nazionale italiana in diverse occasioni ed è stato anche palcoscenico di una partita di rugby tra una selezione di giocatori italiani contro gli All Blacks, la leggendaria nazionale neozelandese. Il record di presenze, però, fu registrato nel 1983, con 25.346 spettatori per una partita di Coppa Italia contro il Milan con un incasso totale di quasi 250 milioni di lire.
Riavvolgendo il nastro e guardando le Immagini in bianco e nero di un'epoca passata, si nota come i tifosi siano parte integrante della partita, un dodicesimo uomo in campo, capaci di incitare i giocatori con un calore indescrivibile. Un’atmosfera magica, un tifo infernale che fa tremare le gambe agli avversari. Le tribune, così vicine al terreno di gioco, permettono ai tifosi di sentire il respiro dei giocatori, di vivere la partita come se fosse in campo.
Proprio la sua struttura, con le tribune a ridosso del terreno di gioco, crea un'atmosfera unica, tanto da far meritare all’Appiani il soprannome di "fossa dei leoni”, un catino ribollente di tifo, un'arena dove il calcio diventa una battaglia, dove ogni gol è un'esplosione di pura adrenalina e le reti a ridosso del campo permettono un contatto fisico quasi diretto dei tifosi con i giocatori.
Tra questi spicca la figura di "Mussa", un tifoso leggendario, un vero e proprio capo ultrà ante litteram. Mussa è sempre presente sugli spalti vestito con una maglietta a righe orizzontali bianche e azzurre e un ombrello arrotolato sotto il braccio ma sempre pronto a essere sguainato per infilzare, con la punta, le natiche dei giocatori avversari durante le rimesse laterali. Mussa, durante le partite, solca senza sosta su e giù per la gradinata mettendosi il più vicino possibile all’azione di gioco, con il solo scopo di inveire, anche in maniera poco ortodossa, contro avversari e arbitro ogni volta che quest’ultimo fischia contro il Padova. Una leggenda popolare, non verificata, attribuisce a Mussa una delle frasi più ingiuriose gridata a uno dei più famosi arbitri dell’epoca, Jonni di Macerata: “Arbitro, te gà più corna ti che un cestèo de bòvoi!”, lasciamo al lettore la traduzione.
Mussa diventa l'incarnazione della passione viscerale del tifo patavino, un personaggio pittoresco che con il suo tifo rende unica l’atmosfera dell'Appiani. E se le gradinate dell’Appiani hanno in Mussa il loro “paròn”, la squadra lo trova in Nereo Rocco, l’allenatore che trasforma il Padova in leggenda.
Il leggendario Padova di Nereo Rocco
Il "Paròn" triestino, arrivato sulla panchina del Padova nel 1954, porta con sé un'aura di carisma e un calcio fatto di passione, sacrificio e battaglie. In pochi lo ricorderanno in divisa e scarpette, nonostante la sua carriera da calciatore: una carriera che si era sviluppata nei campi di Trieste, Padova e Napoli, se consideriamo le piazze più importanti. Eppure, il nome di Rocco è esclusivamente associato, nelle menti degli appassionati, alla panchina, laddove è ricordato come uno tra i più influenti allenatori della storia italiana ovvero l’inventore del catenaccio.
La sua avventura da allenatore comincia alla Libertas Trieste, seconda squadra della sua città, che milita nell’allora campionato di Serie C e il suo arrivo sulle rive del Brenta è quasi rocambolesco e avvolto da un aneddoto: si narra che, mentre si trovava nella sua macelleria a Trieste, a preparare salami, la madre entra e lo avvisa “Ghe xe queli del Padova”. Rocco, con affare insolentito anche per il recente esonero dalla panchina della Libertas, risponde: “no, via via, no ghe penso, sto’ stufo del balon” ma, alla fine, accetta la proposta del Padova e ci va iniziando un'avventura che avrebbe segnato per sempre la storia del club biancoscudato.
Il suo Padova è una squadra di "poareti" composta di uomini umili e forti, dotati di gran spirito di sacrificio e forte senso di appartenenza alla maglia, capaci di tenere testa alle grandi potenze del calcio italiano. Il Padova di Rocco è un gruppo unito da un forte spirito di cameratismo e da una gioia di vivere contagiosa. Infatti, i giocatori passano le giornate a ridere e a scherzare perché dentro e fuori l’Appiani Nereo Rocco, prima, durante e dopo gli allenamenti, inventa scherzi e battute.
Il "Paròn", oltre a formare una squadra rigorosa dal punto di vista tecnico-tattico, è un maestro nel motivare i suoi ragazzi, nel tirare fuori il meglio da ognuno di loro. Il suo calcio è fatto non solo di difesa ad oltranza, catenaccio, palla lunga e pedalare, ma anche di battaglie, vittorie e trionfi: all’Appiani il Padova batte la Juve, il Milan e l’Inter del Mago Herrera.
Nella stagione 1957-58, il Padova di Rocco raggiunge il suo apice, conquistando un incredibile terzo posto in Serie A, alle spalle di Juventus e Fiorentina. La coppia d'attacco Hamrin-Brighenti, con i suoi gol, fa sognare un'intera città. Si narra anche che le urla e i boati proveniente dallo stadio dopo ogni loro gol fanno tremare le statue in Prato della Valle. È una squadra che entra prima nella storia e poi nella leggenda. I capitani sono Gastone Zanon, Ivano Blason e Aurelio Scagnellato, detto Lello. E poi il portiere Toni Pin, Azzini, Celio, Menti, Boscolo, Milani, Nicolè. E l’uccellino Hamrin, Sergio Brighenti, l’elegante argentino Humberto Rosa. Uomini forti, duri, leali e allegri. Insomma, “poareti” ma belli.
Il calcio di Rocco, però, non è fatto solo di tattica e vittorie, ma anche di aneddoti e battute, alcune mai dette ma diventate cult perché “suonano” bene e fanno divertire la gente e “quei mona de giornalisti”. Una frase indimenticabile ma mai effettivamente pronunciata diventa l’emblema del suo stile: “Ciò, daghe a tuto quel che se move su l’erba. Se xe el balon, no importa”. Un’altra, questa confermata, detta durante un derby contro il Vicenza. Prima della partita, Rocco ordina al suo giocatore Zanon di marcare attentamente il giovane Campana (il futuro fondatore e presidente dell'AIC, l'Associazione Italiana Calciatori), dicendogli di "toccarlo el giusto" ma quando il suo giocatore scaraventa quello vicentino contro la rete di recinzione, Rocco si alza dalla panchina urlando: "Cio', te go dito de tocarlo, non de coparlo".
In quegli anni, l'Appiani non è solo il campo delle gesta sportive ma anche il luogo dei riti domenicali, un momento di aggregazione per tutta la comunità. Prima della partita, i tifosi si ritrovano al bar, parcheggiando le Vespe davanti alla "baracchetta" di Via 58° Fanteria. L'attesa, i cori, la tensione che si respirava avvicinandosi allo stadio, fanno parte di un rito laico che si ripete ogni domenica. Persino i giocatori, dopo la messa al Santo, si recano a piedi allo stadio per assorbire il calore del tifo della città. Il prepartita diventa così un momento sacro, una celebrazione dell'amore per il calcio e per la propria squadra.
Dopo i fasti dell’epopea di Nereo Rocco, il Padova e lo stadio Appiani vivono un periodo di alti e bassi, caratterizzato da cambiamenti e un lento declino. Dopo quegli anni indimenticabili e leggendari, arrivano le vacche magre. Il Padova piomba addirittura in Serie C attirando sempre meno pubblico allo stadio. Poi rincomincia una lenta risalita che nella stagione 1993-1994 porta all’ultima promozione dei Biancoscudati in Serie A, arrivata dopo lo spareggio con il Cesena.
Da “fossa dei leoni” ad "acquario" dall'Appiani all'Euganeo
La promozione in Serie A e la necessità di dotare la società di un impianto più moderno e capiente, adeguato alle normative di sicurezza, di parcheggi e per gestire in maniera efficace l'afflusso e il deflusso degli spettatori nei giorni delle partite, decreta l’abbandono definitivo, dopo 70 annni, del Padova all’Appiani. L'ultima partita ufficiale nello stadio nel centro cittadino è il pareggio 0-0 contro il Palermo il 29 maggio 1994.
La squadra patavina si trasferisce così nel nuovo stadio Euganeo, un impianto moderno che rispecchia le esigenze logistiche della Serie A ma che non riesce a replicare l'atmosfera magica dello storico stadio.
Un addio sofferto, uno strappo nel cuore per molti tifosi biancoscudati, che non vedono di buon occhio la struttura architettonica dello Stadio Euganeo con le tribune troppo lontane dal campo, troppo dispersivo, un "acquario" rispetto alla “fossa dei leoni”. L'Euganeo, con la sua pista di atletica e la sua freddezza, non riesce, ancora oggi, a replicare l'atmosfera magica dell'Appiani.
L'addio all'Appiani segna un declino per il Calcio Padova, incapace di ritrovare la propria identità nel nuovo stadio. Le gestioni societarie successive, le difficoltà economiche e i problemi burocratici non fanno altro che allontanare ulteriormente il club dalla sua storia e dalle sue radici.
L'Appiani, nel frattempo, viene lasciato in balia del tempo abbandonato al suo destino. Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati fatti dei tentativi per riqualificare l'area, per restituire un po' di dignità a un luogo che ha fatto la storia del calcio italiano. La tribuna est, abbattuta tra le proteste dei tifosi, è stata sostituita da un terrapieno inerbito, mentre l'area circostante è stata riqualificata con la creazione di una pista ciclabile.
Anche se l’Appiani non potrà più ospitare partite professionistiche, l'obiettivo è quello di farlo rivivere, di trasformarlo in un luogo dove i giovani possano allenarsi, un luogo che possa continuare a raccontare la sua storia.
Nonostante l'abbandono, l'Appiani è rimasto vivo nel cuore dei tifosi, un simbolo di un'epoca passata, di un calcio fatto di passione e di legame con la città. I ricordi delle partite all'Appiani, del tifo incessante e dell'atmosfera unica che si respirava in quello stadio sono ancora molto presenti nella memoria dei padovani. Il suono dei cori, l'odore dell'erba, l'emozione della partita, tutto è impresso nel cuore di chi ha vissuto quel luogo magico.
L'Appiani è stato definito "un monumento", "un tempio del calcio antico", "un'enciclopedia di storia calcistica", e "un monumento nazionale" e anche se il tempo passa e le cose cambiano, l'Appiani rimane un simbolo di eternità, un monumento alla passione, un tesoro prezioso per la città di Padova e per tutti gli amanti del calcio.
Racconto a cura di Biagio Gaeta