Olympiastadion
C’è qualcosa di onirico, quasi irreale, nell’Olympiapark di Monaco di Baviera. Le coperture ondulate che sembrano vele trasparenti incagliate tra le colline artificiali, la luce che filtra ovunque, il silenzio che pervade tutto. In mezzo a tutto questo, sta ancora lì l’Olympiastadion.
Un impianto che è stato gloria, trauma, e sogno architettonico insieme. Uno stadio che ha vissuto tutto: le Olimpiadi della rinascita tedesca, il terrore mondiale, la gloria calcistica, e poi il lento abbandono del mondo del calcio.
Oggi è lì, silenzioso. Non dimenticato, ma di certo messo da parte, almeno per le finalità sportive. Eppure, basta fermarsi un attimo tra le sue gradinate vuote, e tutto torna: il clamore, l’eleganza, la tensione, i record. È ancora uno stadio vivo, anche se parla una lingua diversa dal passato.
L'utopia del '72
Nel 1972 la Germania Ovest sceglie Monaco per le Olimpiadi estive e non vuole compromessi. Architetti come Günter Behnisch e l’inesauribile ingegno di Frei Otto disegnano un’atmosfera unica: campi verdi, coperture trasparenti che sembrano sospese nel cielo, archi leggeri come vele.
Lo stadio costruito per gli eventi principali incarna un nuovo racconto: quello della gioia e apertura, dopo decenni di guerra e tensione.
Olimpiadi e ombra
La partenza è tra le peggiori che si possano immaginare: il 1972 rimane segnato dall’orribile strage di atleti israeliani nel villaggio olimpico, un evento che marchierà per sempre il ricordo di quei giorni. Ma sul campo, tra gare e cerimonie, l’Olympiastadion trasmette una piacevole sensazione di pace e rinnovamento, diventando simbolo di una nuova Germania.
Trionfi bavaresi
Dopo le Olimpiadi diventa tempio del calcio. Dal 1972 il Bayern Monaco lo adotta come casa, e con leggende come Beckenbauer, Müller, Hoeneß vince tre Coppe Campioni consecutive (1975‑77), consacrando l’Olympiastadion nella storia europea.
Negli ultimi decenni del Duemila nello stadio che si fonde con le colline il calcio continua a pulsare: ci sono la finale del Mondiale 1974 (Germania‑Olanda), il torneo europeo 1988, le finali di Champions League del ‘93 e del ‘97.
Il declino e la musica
L’addio del Bayern all’Olympiastadion, nel 2005, rappresenta il distacco da una casa imperfetta ma iconica. Troppo scoperto, troppo freddo d’inverno, poco funzionale, certo. Ma era anche lo stadio dei trionfi europei, dei pomeriggi tedeschi sotto il cielo bianco, delle curve che tremavano di gioia. Con il trasferimento all’Allianz Arena, avveniristica e personalizzata, il Bayern trova modernità, ma perde forse un pezzo d’anima. Lo stadio olimpico è ancora lì, bellissimo e svuotato.
Eppure l’Olympiastadion non è rimasto fermo nel tempo. La gloria calcistica si è spenta, sì, e nei giorni senza eventi l’impianto sembra immerso in un silenzio quasi irreale, come se aspettasse qualcosa.
Ma poi arriva la musica. Palchi colossali, luci, applausi. I concerti lo riempiono di nuovo, lo scuotono, lo reinventano. Il fragore del rock ha preso il posto dei cori da stadio. E in fondo, il suo destino era sempre stato quello: essere spettacolo.
Un racconto sospeso tra passato e presente
Oggi l’Olympiastadion non è più il palcoscenico delle notti europee del Bayern, ma ha trovato un nuovo battito, forse meno glorioso, ma altrettanto vibrante.
È diventato una delle capitali europee della musica live: qui si esibiscono star mondiali, dalle leggende del rock ai fenomeni pop, dai tour epici dei Rolling Stones ai concerti sold-out di Beyoncé, Coldplay, Taylor Swift.
Le gradinate non tremano più per un gol di Elber o una prodezza di Ballack, ma per l’energia di migliaia di voci che cantano all’unisono. Non è un luogo in rovina: è un’arena trasformata. Un’architettura che non si è arresa al tempo, ma ha scelto di cambiare pelle. Oggi l’Olympiastadion è un tempio della musica, e ogni concerto è una nuova finale.
Un'altra forma di bellezza, un altro modo per far vibrare le tribune.
Racconto a cura di Andrea Possamai