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L'arte di perdere

Nel 2006 l’Arsenal a Parigi toccò il cielo e lo vide svanire. Da allora danza in bilico tra sogno e rimpianto, eterna incompiuta tra le grandi d’Europa.
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Henry e Wenger - Arsenal Barcelona 2006 - Illustrazione Tacchetti di Provincia

C’era un tempo, non troppo lontano, in cui l’Arsenal non era solo una squadra. Era una promessa. Un’idea di bellezza, di calcio giocato come forma d’arte. Ma era anche una maledizione sottile, che continua ancora oggi: quella di arrivare sempre a un passo dal traguardo, senza mai raggiungerlo del tutto. Da quando nel 2004 vinse la Premier League con gli “Invincibili”, l’Arsenal non ha più toccato la vetta. Corre, si impegna, sfiora la gloria, ma finisce quasi sempre secondo. O terzo. O fuori dai giochi all’ultimo. È una storia che si ripete come una condanna mitologica: come Sisifo, costretto a spingere un masso fino alla cima della montagna, solo per vederlo rotolare giù, ogni volta. E forse, quella sera del 17 maggio 2006, allo Stade de France, è proprio lì che tutto è cominciato. Il momento in cui il sogno si è spezzato, e con esso ha preso forma l’eterno ritorno dell’Arsenal all’“almost”, al quasi. Quella notte, la promessa si sarebbe potuta compiere. Oppure avrebbe potuto infrangersi in mille pezzi.

Una squadra diversa

La stagione 2005-2006 sembrava disegnata dal destino. L’Arsenal, che non dimenticava i fasti della sua imbattibilità leggendaria in Premier League (i celebri “Invincibili” del 2003-2004), non stava dominando in patria. Ma in Europa… oh, in Europa era tutta un’altra storia.

Era diventata una squadra pragmatica, persino cinica. Wenger, il romantico, aveva plasmato una versione europea dei Gunners che difendeva con disciplina monastica. Sconfissero il Real Madrid al Bernabéu con un lampo solitario di Thierry Henry, spazzarono via la Juventus con una lezione di superiorità tecnica e mentale, e resistettero al Villarreal nella semifinale più sofferta della loro storia. Dieci partite consecutive senza subire gol: un record. Un messaggio. L’Arsenal c’era. E quella volta sembrava davvero il loro momento.

Parigi, la città delle luci

Parigi non era casa per Wenger, nato tra i vigneti e le ombre gotiche di Strasburgo. Ma era la capitale del suo Paese, la vetrina perfetta per l’incarnazione del suo calcio. 

Di fronte c’era il Barcellona, una squadra che – ironia crudele – avrebbe incarnato negli anni successivi la stessa idea estetica che Wenger aveva cercato di seminare per primo in Inghilterra: possesso, tecnica, armonia. Era una squadra piena di artisti del pallone: Ronaldinho, il giocoliere col sorriso, Eto’o, la freccia dirompente, un giovane Andres Iniesta e Xavi, architetti silenziosi della geometria. C’era anche un promettentissimo attaccante argentino di 19 anni chiamato Lionel Messi che era già un campione ma che, fortunatamente per gli uomini di Wenger, era reduce da un infortunio e non era riuscito a farcela per la finale.

E poi c’era ovviamente l’Arsenal. Audace, entusiasta. Una cosa che non molti ricordano è che in quegli anni l’Arsenal aveva una rosa giovanissima: l’età media della formazione iniziale si aggirava spesso intorno ai 23, massimo 24 anni. Una squadra certamente acerba, certamente imperfetta, ma con un’anima che ardeva come poche. 

C’era Cesc Fàbregas, a soli 19 anni già architetto del centrocampo. C’era Ljungberg, l’ala che correva come se avesse un fuoco dentro. C’erano Campbell, Touré, Hleb, Flamini, uomini che quella stagione avevano dato tutto, spesso fuori ruolo, pur di restare in piedi. E soprattutto, c’era Thierry Henry, il totem. Il capitano. Il simbolo stesso del calcio secondo Wenger. Elegante come un ballerino classico, ma spietato come un predatore.

I Gunners erano pronti.

Quando il destino cambia direzione

Arriviamo così all’istante zero, all’inizio. L’inizio che non ti aspetti. Al minuto 18, l’episodio che riscrive il copione: Jens Lehmann travolge Eto’o, l’arbitro non ha dubbi, cartellino rosso. È la prima espulsione nella storia di una finale di Champions League. Wenger è costretto a togliere il playmaker Robert Pirès per inserire Almunia in porta.

Eppure, come spesso accade nei racconti più folli, l’inferiorità numerica diventa una scintilla. Al 37’, da una punizione dalla trequarti, Thierry Henry pennella un cross perfetto e Sol Campbell, il gigante silenzioso, svetta tra mille maglie blaugrana. È 1-0 Arsenal. Lo Stade de France esplode, e per un attimo – solo per un attimo – il tempo si ferma.

Nel secondo tempo, in dieci contro undici, l’Arsenal resiste con le unghie e con il cuore. Henry avrebbe perfino l’occasione del 2-0, ma Valdés gli nega la gloria. E poi, lentamente, il Barcellona si avvicina, come un’onda lunga e inesorabile.

Al 76’, l’ingresso in campo di Henrik Larsson cambia tutto. Il veterano svedese, con due tocchi geniali, spezza i sogni dell’Arsenal. Prima serve Eto’o per il pareggio, poi smarca Juliano Belletti – un terzino che in blaugrana non segnava mai – per il sorpasso. 2-1. Il mondo si capovolge. Il sogno si sbriciola.

Il dopo: la fine dell'innocenza

Quando l’arbitro fischia la fine, Parigi esplode di festa… ma solo per il Barcellona. L’Arsenal, invece, sprofonda in un silenzio che fa rumore. Nessuna rabbia, solo occhi lucidi. Wenger si volta verso la panchina, immobile. Non urla, non protesta. Sa che non ci sarà un’altra occasione come questa.

Questa finale rappresenterà l’ultima vera vetta europea dell’Arsenal. L’estate successiva, molti degli eroi fanno le valigie. Highbury chiude i battenti. La squadra si trasferisce all’Emirates, ma qualcosa si perde lungo il tragitto: il romanticismo, forse, o semplicemente la convinzione che quel sogno possa ancora realizzarsi.

Thierry Henry lascia l’anno dopo per proprio quel Barcellona. Ljungberg, Pirès, Campbell… tutti van via nel giro di poco. Wenger rimane, ma la magia si è dissolta. Non ci sarà mai un’altra notte come quella. Mai un’altra occasione così vicina alla leggenda.

Una ferita che non si rimargina

Per i tifosi dei Gunners, quella notte di maggio resta una cicatrice incisa nella storia. Non perché furono battuti. Ma perché, per una volta, sembravano davvero destinati a vincere. Perché c’era qualcosa di profondamente giusto nell’idea che Wenger sollevasse quella coppa. Perché c’era poesia in quel viaggio. E invece è rimasto solo un "e se".

E se Lehmann non avesse commesso quel fallo? E se Henry avesse segnato il secondo? E se, in qualche universo parallelo, fosse stato l’Arsenal a sollevare la coppa?

Ma il calcio non perdona. Ricorda, ma non consola. E quella sera, a Parigi, la bellezza perse. O forse, più semplicemente, non bastò.

E da allora, ogni stagione sembra un’eco di quella notte. Ogni corsa verso il titolo, ogni finale sfiorata, ogni sogno naufragato all’ultimo secondo. L’Arsenal continua a spingere il suo masso verso la cima. E ogni volta, proprio quando la vetta sembra a un passo, il masso rotola giù.

Eppure chi ama il calcio, chi ama le storie che bruciano di umanità e bellezza, sa che prima o poi arriverà il momento giusto.

Forse un giorno non lontano quel masso raggiungerà finalmente la cima. E stavolta ci resterà. E allora non sarà solo una vittoria. Sarà il compimento di una storia lunga, dolorosa e bellissima. Una vittoria per l’Arsenal. Ma anche per tutti noi che, ogni tanto, scegliamo ancora di credere nei sogni.

Racconto a cura di Andrea Possamai

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