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La notte che non passa mai

Ci sono ferite che il tempo non rimargina, partite che non si dimenticano. Per i tifosi della Roma, la notte del 30 maggio 1984 rappresenta uno spartiacque emotivo. All'Olimpico di Roma, davanti al proprio pubblico, i giallorossi sfiorano la Coppa dei Campioni, ma devono arrendersi al Liverpool ai calci di rigore. Una notte amara, segnata da tensione, orgoglio e rimpianti.
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cover-roma1984

Per capire cosa significasse quella partita, bisogna immergersi nell'Italia del 1984: Paolo Rossi è ancora l'eroe del Mundial spagnolo, Nino D'Angelo canta "Un jeans e una maglietta" nelle radio e i bambini sognano con i cartoni animati giapponesi appena arrivati in TV. Roma è una città elettrica, attraversata da uno slancio culturale e calcistico che la fa sentire al centro del mondo. Il calcio italiano è in pieno rinascimento, i club investono, lo stadio è ancora il luogo sacro della domenica, e la Coppa dei Campioni ha un fascino quasi mitologico.

Un sogno costruito passo dopo passo

La Roma di Liedholm è una squadra solida, elegante, tecnica. Ha vinto lo scudetto l'anno prima, ha calciatori raffinati come Falcão, Conti, Cerezo, Di Bartolomei. E ha anche uomini d'esperienza come Aldo Maldera, terzino affidabile e generoso, e un giovane centrocampista che solo molti anni dopo diventerà famoso per altro: Carlo Ancelotti. Sì, proprio lui, prima di diventare un super mega allenatore e collezionare Champions League, era un uomo chiave in mezzo al campo. Purtroppo, sia Ancelotti che Maldera saranno costretti a saltare la finale per infortunio, e la loro assenza peserà tantissimo.

Con questi tasselli in campo, la Roma ha un'identità precisa, un gioco propositivo e un pubblico che la sostiene come un popolo segue un esercito in guerra. Quell’anno la corsa europea è quasi magica: in semifinale, la Roma elimina il Dundee United con una rimonta epica, ribaltando lo 0-2 dell'andata con un 3-0 da brividi, sotto il diluvio dell'Olimpico. Tutto sembra scritto: la finale si giocherà a Roma. La città sogna.

L'avversario più temuto

Dall'altra parte c'è il Liverpool di Joe Fagan, una squadra esperta, solida, abituata alle grandi notti europee. In porta c'è Bruce Grobbelaar, eccentrico ma reattivo numero 1 zimbabwese, mentre in difesa giocano mostri sacri come Alan Hansen e Phil Neal. A centrocampo comanda Graeme Souness, leader tecnico e carismatico, affiancato da Sammy Lee. In attacco ci sono il talento di Kenny Dalglish e la velocità di Craig Johnston. I Reds hanno già vinto tre Coppe dei Campioni negli ultimi sette anni e arrivano a Roma con la freddezza di chi sa come si vincono queste partite. Il Liverpool forse non incanta, ma non sbaglia mai. È cinico, resistente, temibile nella gestione dei momenti chiave.

Il 30 maggio 1984

All'Olimpico si radunano più di 69.000 spettatori. Il clima è bollente, il tifo è continuo. Dopo venti minuti, il Liverpool passa in vantaggio: cross dalla destra, colpo di testa di Whelan e deviazione fortuita ma letale di Neal, che firma l'1-0. La Roma accusa il colpo, ma non si disunisce. Poco prima dell'intervallo, Bruno Conti inventa un cross morbido e perfetto per Pruzzo, che stacca con tempismo e grazia, mandando la palla alle spalle di Grobbelaar per l'1-1. L'Olimpico esplode.

Nel secondo tempo regna l'equilibrio. La tensione è altissima, ma le occasioni vere scarseggiano. I due portieri si limitano all'ordinaria amministrazione, mentre a centrocampo si combatte su ogni pallone. 

Si arriva così ai supplementari, e poi ai rigori. 

È qui che Bruce Grobbelaar entra nella leggenda, non tanto per le sue parate quanto per il modo in cui destabilizza gli avversari: sulla linea di porta mette in scena un vero e proprio spettacolo, ciondolando le gambe in modo buffo, quasi teatrale, in quella che diventerà famosa come la tecnica delle "spaghetti legs". Un’irriverenza che funziona. Innervosisce i tiratori romanisti: Bruno Conti calcia alto sopra la traversa, Graziani scheggia il montante.

L'assenza di Aldo Maldera, grande rigorista e potenziale risorsa per la lotteria finale, si fa sentire come non mai. La Roma segna con Di Bartolomei e Righetti, ma il Liverpool è glaciale. L'ultimo rigore, quello decisivo, lo calcia Alan Kennedy. Parte con passo lento, incrocia il sinistro: Tancredi intuisce, ma non arriva. È il colpo finale. Il Liverpool è campione d'Europa. La Roma si ferma a un passo dal sogno, sotto lo sguardo incredulo del proprio popolo.

Di Bartolomei, il capitano silenzioso

La disavventura calcistica dell’Olimpico, che pure rimane confinata nell’ambito dello sport, è purtroppo intrecciata a una tragedia molto più profonda e umana.

Il capitano Agostino Di Bartolomei, impeccabile nei 120 minuti e glaciale sul dischetto, esce a testa alta. Ma dentro porta una ferita che non si chiuderà mai del tutto. Quel rigore segnato, in una serie che i suoi compagni non completano, diventa un'icona tragica.

Dieci anni dopo, il 30 maggio 1994, proprio nel decennale di quella finale, Di Bartolomei si toglierà la vita. Dopo il ritiro, il mondo del calcio lo aveva dimenticato: nessun ruolo dirigenziale, nessuna chiamata da parte della sua Roma o di altri club. Si era trasferito a Castellabate, in Campania, cercando una nuova vita lontano dai riflettori.

La sua scelta estrema non può essere ricondotta a un solo episodio, ma in tanti si sono chiesti cosa sarebbe cambiato se quella maledetta finale fosse stata vinta. Forse la sua storia avrebbe preso una piega diversa. Ma il punto non è (solo) quello: il dramma di Agostino è anche il simbolo di un sistema che troppo spesso abbandona gli uomini, dimenticando che dietro ogni calciatore c'è una persona fragile, che può cadere e ha bisogno di essere ascoltata, sostenuta. Di Bartolomei era un uomo introverso, pensieroso, probabilmente in difficoltà, ma non ha trovato il supporto psicologico che forse avrebbe potuto salvarlo. Ed è anche per questo che la sua figura oggi è così potente: perché ci ricorda che nessuna gloria sportiva basta, da sola, a colmare un vuoto umano.La disavventura calcistica dell’Olimpico, che pure rimane confinata nell’ambito dello sport, è purtroppo intrecciata a una tragedia molto più profonda e umana.

Il capitano Agostino Di Bartolomei, impeccabile nei 120 minuti e glaciale sul dischetto, esce a testa alta. Ma dentro porta una ferita che non si chiuderà mai del tutto. Quel rigore segnato, in una serie che i suoi compagni non completano, diventa un'icona tragica.

Dieci anni dopo, il 30 maggio 1994, proprio nel decennale di quella finale, Di Bartolomei si toglierà la vita. Dopo il ritiro, il mondo del calcio lo aveva dimenticato: nessun ruolo dirigenziale, nessuna chiamata da parte della sua Roma o di altri club. Si era trasferito a Castellabate, in Campania, cercando una nuova vita lontano dai riflettori.

La sua scelta estrema non può essere ricondotta a un solo episodio, ma in tanti si sono chiesti cosa sarebbe cambiato se quella maledetta finale fosse stata vinta. Forse la sua storia avrebbe preso una piega diversa. Ma il punto non è (solo) quello: il dramma di Agostino è anche il simbolo di un sistema che troppo spesso abbandona gli uomini, dimenticando che dietro ogni calciatore c'è una persona fragile, che può cadere e ha bisogno di essere ascoltata, sostenuta. Di Bartolomei era un uomo introverso, pensieroso, probabilmente in difficoltà, ma non ha trovato il supporto psicologico che forse avrebbe potuto salvarlo. Ed è anche per questo che la sua figura oggi è così potente: perché ci ricorda che nessuna gloria sportiva basta, da sola, a colmare un vuoto umano.

Più di una partita

Roma-Liverpool 1984 è ben più di una partita persa: è una pagina dolorosa di un romanzo popolare. Una favola che si interrompe sul più bello. Un monito, una memoria, un'identità collettiva. Ancora oggi, per ogni tifoso della Roma (o perlomeno per quelli più “stagionati”) quella finale è un nodo alla gola. Non solo per la sconfitta, ma per ciò che rappresentava: la possibilità di diventare grandi, di iscriversi per sempre all'élite del calcio europeo. Ogni volta che la Roma sogna una coppa, quell'immagine torna: i rigori, le lacrime, il silenzio dopo l'urlo.

Questa storia è dedicata ad Agostino Di Bartolomei, che quella notte segnò il suo rigore con freddezza, la stessa freddezza che incontrò nel resto della sua vita.

La sua memoria resta una guida, un simbolo, una ferita aperta che chiede ancora al calcio – e a tutti noi – di non dimenticare mai l’uomo dietro l’atleta. 

Perché chi c'era quella notte, chi l'ha vissuta o solo ascoltata nei racconti di famiglia, sa che la Roma è anche questo: la bellezza e la tragedia, il sogno e la caduta, l'amore che non ha bisogno di vittorie per essere eterno.

Racconto a cura di Andrea Possamai

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