La maledizione di Béla Guttmann, il tabù europeo del Benfica
Lisbona, 4 maggio 1962. Prima dei mondiali in Cile giunge una notizia sorprendente: l’allenatore del Benfica Béla Guttmann, fresco vincitore della seconda Coppa dei Campioni consecutiva, è stato esonerato. Le ragioni del divorzio sono da ricercarsi nel mancato pagamento di premi pattuiti in caso di tornei vinti. Ma c’è dell’altro in quell’incontro polemico, qualcosa che in quel momento sanno solo i dirigenti del club e lo stesso tecnico, e che cambierà per sempre la storia del Benfica e del calcio.
Prima ballerino, poi calciatore e giramondo
Béla Guttmann era nato a Budapest nel 1899, nell’allora impero Austro-Ungarico, in una famiglia ebrea. Da giovanissimo, influenzato dai genitori, inizia a insegnare danza, ma la sua vera passione è il calcio.
Gioca in patria, poi in Austria dopo la deriva antisemita nel neonato stato indipendente, e qui vince il campionato tra le file dell’Hakoah Vienna; vola anche negli Stati Uniti, affermandosi come ottimo centromediano metodista. Ha un carattere ribelle, mostrato ad esempio quando in nazionale, alle Olimpiadi di Parigi 1924, si ammutina coi compagni perché il presidente Horthy aveva infiltrato suoi militari in squadra, così l’Ungheria perde 3-0 volutamente contro l’Egitto.
Subisce gli effetti della Grande Depressione del 1929, ma si laurea in Psicologia e chiusa la carriera nel 1933, inizia ad allenare proprio nell’Hakoah, ma il crescente odio nei confronti degli ebrei lo fa scappare in Olanda. Nel 1938/39 vince campionato e Coppa Mitropa con l’Ujpest di Budapest, dopodiché deve di nuovo mettersi in salvo, con le deportazioni che stanno aumentando. Non si sa bene dove sia riuscito a nascondersi, forse scappò dal convoglio che voleva condurlo ad Auschwitz e tornò a Budapest, forse rimase prigioniero in Svizzera. “Mi ha aiutato Dio” è l’unica frase che utilizza per descrivere quegli anni. Durante la guerra si sposa, e sembra volatilizzato.
A conflitto finito risbuca dal nulla, allenando il Vasas Budapest, il rumeno Ciocanul (che lo paga con frutta e verdura), di nuovo l’Ujpest con cui rivince il campionato, la futura Honved con un giovane Puskas. Arriva anche in Italia, al Padova e alla Triestina, che militavano in A, due avventure non fortunate. Dopo Apoel Nicosia, Ungheria e l’argentino Quilmes, va al Milan, nel 1953/54.
Arriva terzo e fa esordire Cesare Maldini l’anno successivo quando viene esonerato a seguito di un periodo di crisi, nonostante i rossoneri fossero primi e vinceranno poi lo scudetto. Quell'esonero lo segnerà a tal punto da pretendere, nei successivi contratti, una clausola ad hoc che preveda l'impossibilità per le società di esonerarlo nel caso in cui la squadra che allena sia al primo posto in classifica.
Nel 1955/56 approda al Lanerossi Vicenza, ma anche qui viene accompagnato alla porta, per un incidente stradale in cui aveva investito due ragazzi. Ritorna alla Honved, ma sembra che i disordini lo accompagnino, visto che scoppia la rivoluzione studentesca contro l’URSS. Va allora in Brasile, e col San Paolo vince il campionato Paulista nel 1957, grazie al suo sistema di gioco, il 4-2-4, che Vicente Feola riprenderà per condurre la nazionale verdeoro alla conquista del mondiale 1958.
In quell’anno, Guttmann si trasferisce in Portogallo, e subentra a novembre per allenare il Porto, messo male in classifica. Compie una grande rimonta e vince il titolo. Gli acerrimi rivali del Benfica lo notano e si fanno avanti. Il buon Guttmann non ci pensa due volte, vede un’offerta economica superiore e non se la fa scappare.
I titoli al Benfica e l’addio al veleno
Approdato a Lisbona, Guttmann si adatta di più al calcio europeo e fa esordire a poco a poco un giovane mozambicano naturalizzato, Eusebio. I giocatori, tutti portoghesi, lo seguono nelle sue trame il cui credo fondamentale è “Pasa-repasa-chuta, marca e desmarca" (passa-ripassa-tira, marca e smarca). Nel 1960 arriva il titolo nazionale, così la stagione successiva i rossi possono disputare la Coppa dei Campioni. Il cammino fa ben sperare, vengono sconfitti Hearts, l’Ujpest (ex squadra dell’allenatore), i campioni danesi dell’Aarhus e il Rapid Vienna. In finale, il 3 maggio 1961 a Berna, c’è il Barcellona di Sandor Kocsis e Luis Suarez, che ha eliminato il Real agli ottavi. La gara si rivela spettacolare, Guttmann può mettere in atto il suo detto: “Non mi interessa se gli avversari segnano un gol, perché noi ne segneremo uno più di loro".
Kocsis sigla l’1-0 per i blaugrana, Aguas pareggia dieci minuti dopo, è il suo 38° centro in stagione. Sessanta secondi e il Benfica mette la freccia con l’autogol del portiere Ramallets. Nella ripresa, al 55’, ci pensa un altro fuoriclasse dei lusitani, Coluna, a siglare il 3-1. Barcellona all’assalto, gol di Czibor e ben quattro legni colpiti, ma non cambia più nulla. 3-2 e Benfica campione d’Europa, la prima squadra a fregiarsi del titolo dopo cinque anni di dominio Real.
Doppietta campionato-coppa per i portoghesi, che non riusciranno a vincere però la Coppa Intercontinentale contro il Penarol. Concederanno il bis europeo dodici mesi dopo, il 2 maggio ad Amsterdam stavolta contro i Blancos di Di Stefano, Puskas e Gento. È la prova del nove, da affrontare con in campo l’ormai fenomeno Eusebio, appena ventenne.
Il Real Madrid parte a mille: doppietta di Puskas dopo 23 minuti, Aguas e Cavèm riportano in gara gli uomini di Guttmann, ma il Colonnello ungherese cala il tris. La coppa sembra destinata a ritornare a Madrid. Nell’intervallo però, il tecnico dei lusitani appare tranquillo: “Sono morti, la partita è vinta”. Cavèm viene dirottato su Di Stefano e il Real non tocca più palla. I portoghesi si scatenano: Coluna pareggia dopo sei minuti nella ripresa, poi sale in cattedra il giovane Eusebio: rigore e punizione in tre minuti, 5-3. Gli ultimi ventidue giri di orologio sono una passerella. Il Benfica è campione d’Europa per la seconda volta di fila.
Questa volta il campionato non viene conquistato e alla domanda sul perché postagli dai dirigenti, Guttmann se ne esce con una delle sue frasi ad effetto: “Il Benfica non ha il culo per stare seduto su due sedie”.
Qui cambia tutto: il Benfica non gli elargisce i premi in denaro per i trofei vinti, quasi lo prendono in giro. Voci di corridoio parlano di quattromila dollari in escudos portoghesi, cifra ritenuta irragionevole. Le ruggini risalivano già al 1961 per la sconfitta in Intercontinentale, quando il tecnico aveva accusato la società di aver organizzato male il viaggio.
Vistosi negare il compenso per quanto conquistato sul campo, Béla Guttmann non se ne va solo sbattendo la porta, ma lanciando un anatema destinato a rimanere nella storia quanto i suoi successi: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte di fila campione d’Europa, e il Benfica non vincerà più la Coppa dei Campioni senza di me”
Ci sono dubbi sulla seconda parte, perché qualcuno sostiene che abbia detto che nessuna squadra lusitana avrebbe vinto due volte la coppa (non per forza consecutive), ma questa versione viene di solito smentita, e tra l’altro sarebbe anche stata disattesa dai rivali del Benfica, il Porto, campione europeo nel 1987 e nel 2004.
Mentre sottolinea come il terzo anno sia il più complicato per un allenatore e che non può avere più a che fare con 14 Commendatori (soprannome che era stato dato a lui e ai giocatori da Antonio Salazar, dittatore portoghese in carica all’epoca, all’indomani della seconda impresa continentale) l’allenatore ungherese prende le sue cose e lascia Lisbona sdegnato, col presidente Vital e soci che ridono di quella uscita piena di ira. Ma quella che sembra una frase buttata lì per la rabbia ha delle conseguenze a dir poco incredibili.
La maledizione colpisce
Il Benfica riparte da una base solidissima e sa che la sua forza è nel gruppo ormai consolidato e vincente. Così dodici mesi più tardi, col cileno Fernando Riera in panchina, arriva la terza finale consecutiva in Coppa dei Campioni. A contendere lo scettro ai rossi c’è la seconda squadra italiana, dopo la Fiorentina nel 1957, ad aver raggiunto l’atto conclusivo dell’ambito trofeo europeo, il Milan, guidato dal Paròn Nereo Rocco. 22 maggio 1963, a Wembley i lusitani scattano meglio dai blocchi di partenza e al diciottesimo Eusebio timbra il gol dell’1-0.
Sembrano poter amministrare il vantaggio, poi Rocco azzecca una mossa tattica: piazza il giovane Trapattoni in marcatura asfissiante sull’autore del gol. Nella ripresa i rossoneri attaccano con convinzione e ribaltano il risultato con la doppietta di José Altafini, capocannoniere di quel torneo. Il Benfica deve cedere il titolo al Milan, al suo primo successo in coppa Campioni, ed Eusebio e compagni per la prima volta assaporano la delusione della sconfitta in finale.
L’anno successivo i portoghesi vengono estromessi agli ottavi, ma il 27 maggio 1965 si ripresentano per la quarta finale in cinque anni. L’avversario è l’Inter di Helenio Herrera, quella Grande Inter già vittoriosa nella precedente edizione, che si gioca le sue carte a San Siro, a casa propria. La pioggia battente non favorisce un bello spettacolo, ma al 43’ il nerazzurro Jair lascia partire un destro velenoso, che il portiere Costa Pereira, forse anche per come è fradicia la sfera, si lascia sfuggire da sotto le braccia. Si tratta del gol vittoria, i nerazzurri difendono il titolo.
Coluna ed Eusebio, fuoriclasse dei portoghesi, piangono e si rendono conto che è la fine di un ciclo. Anche il clamoroso ritorno di Guttmann nel 1965/66 non sortisce alcun effetto, anzi, l’allenatore ungherese si è già avviato verso un inesorabile declino senza successi, quasi come se il suo sortilegio gli abbia riservato un effetto boomerang. Difatti, ai quarti di coppa il Manchester United demolisce il Benfica, con il tecnico che tinge di giallo la conferenza stampa, definendo vecchia e con la pancia piena la sua squadra, volendo fare pressione psicologica sugli inglesi, ma venendo frainteso dai suoi stessi calciatori.
Arriviamo al 1968, e i gloriosi anni 60 riservano la quinta finale di Coppa. Otto Glòria, allenatore brasiliano, offre una nuova speranza a un Benfica in parte rinnovato ma con i suoi mozambicani oriundi Eusebio e Coluna ancora lì, a inseguire la terza gioia. Il Manchester United, fatale due anni prima, si riconferma anche in questa occasione. Dopo i tempi regolamentari, terminati 1-1 per le reti di Bobby Charlton e Graça, Wembley è teatro di una disfatta per le aquile, sconfitte ai supplementari 4-1. Terza finale consecutiva persa, la maledizione sembra prendere corpo.
Lo spirito di Guttmann non ha pietà
Passano ben 15 anni, il Benfica per diverse stagioni non è più riuscito a raggiungere risultati di rilievo in Europa, pur vincendo in patria. Fino al 1983, quando si tenta la fortuna in Coppa UEFA. A guidare la truppa c’è un giovane Sven - Goran Eriksson, vincitore della competizione l’anno precedente col Goteborg, in campo si fanno notare Filipovic e il futuro atalantino Stromberg. A contendere il trofeo, nel doppio confronto in finale, è l’Anderlecht, con punta di diamante il futuro interista Ludo Coeck.
L’andata, disputata il 4 maggio 1983 all’Heysel, arride ai belgi, grazie all’ 1-0 di Brylle. Ma al ritorno del 18 maggio al Da Luz si può sperare di rimontare. Al 32’ Shèu illude gli 80mila tifosi delle aquile, sei minuti dopo ammutoliti dal pareggio di Lozano. Non accadrà più nulla, l’Anderlecht vince la Coppa UEFA. La maledizione di Béla Guttmann non conosce differenza tra UEFA e Coppa dei Campioni. Nel 1988 il Benfica disputa la sua sesta finale nella coppa ora dalle grandi orecchie.
Il 25 maggio capitan Antonio Veloso e il figlio di Aguas, Rui, fronteggiano il PSV Eindhoven di Guus Hiddink, che vanta due giovani promesse, Ronald Koeman e Wim Kieft. La sfida è tiratissima, e viene risolta solo ai rigori, quando la fortuna decide nuovamente di voltare le spalle ai portoghesi: proprio Veloso si fa parare il suo penalty, fissando il risultato sul 6-5. Di nuovo una beffa.
Le aquile rosse sono comunque forti e nel 1990 ci riprovano. Ventisette anni dopo la prima volta, la finale di Coppa Campioni sarà Milan – Benfica, in questa circostanza al Prater di Vienna. I rossoneri sono i difensori del titolo e stanno vivendo il loro periodo d’oro, con l’avvento di Arrigo Sacchi, una difesa impenetrabile (Maldini, Baresi, Tassotti, Costacurta) e il trio olandese Gullit-Van Basten-Rijkaard. I lusitani hanno nuovamente Eriksson allenatore, Aldair in difesa e un ottimo svedese in attacco, Mats Magnusson.
Ma è pure il prepartita che tempo dopo farà storia: Eusebio, la bandiera del club, si reca al cimitero ebraico viennese ventiquattro ore prima della partita. Va a cercare la tomba di un signore morto nove anni prima, che con lui ha vissuto imprese esaltanti e lo ha lanciato nel grande calcio. Quell’uomo è Béla Guttmann, che negli ultimi anni di vita abitava nella capitale austriaca. La “Pantera Negra” si inginocchia di fronte al suo mister, al suo maestro, depone dei fiori, lo prega di spezzare la maledizione e di far vincere il Benfica, gli chiede scusa a nome di tutto il club di Lisbona quasi trent’anni dopo quella profezia oscura. Il 23 maggio, al 68’, Rijkaard fa capire che Guttmann dal cielo non ha perdonato.
Attesa angosciante
Quella del 1990 è tuttora l’ultima occasione che il Benfica ha avuto per sedersi sul trono europeo. Ha poi disputato altre due finali di quella che ormai si chiama Europa League, nel 2013 e nel 2014, anch’esse finite male. Nella prima i lusitani arrivano all’atto conclusivo ad Amsterdam contro il Chelsea, il 15 maggio. Jorge Jesus ha dato solidità alla difesa, guidata da Luisao e Garay, più le geometrie di un giovane Matic a centrocampo; i londinesi avevano vinto la loro prima Champions nel 2012, e ora agli ordini di Benitez cercano riscatto per una stagione opaca, con Cech, Ivanovic, Lampard e Torres tra gli altri.
I lusitani giocano bene ma subiscono il gol del Niño all’ora di gioco. Al 68’ Cardozo pareggia su rigore e quando i supplementari sono a un passo, sull’ultimo angolo della gara al 93’ svetta Ivanovic: è ancora una volta amarezza, in quella che è stata una stagione da incubo, con la sconfitta in finale di coppa di Portogallo e il campionato perso all’ultima giornata.
Il 14 maggio 2014 a Torino c’è Benfica – Siviglia. I rossi giocano complessivamente meglio e hanno le migliori occasioni, ma la gara si prolunga sullo 0-0 fino alla lotteria dei rigori, quando Cardozo e Rodrigo si fanno respingere i loro rigori. 4-2 per gli spagnoli, seconda battuta d’arresto in due anni per i lisbonesi, terza su tre se consideriamo quella del 1983. Nemmeno la realizzazione di una statua in onore di Béla Guttmann al Da Luz proprio nel 2014 ha sortito effetto. Sono ben otto le finali perse, sei in coppa Campioni, dove non si afferma da quel 1962.
E il colmo è che pure nella nuova Youth League, la Champions dei Primavera, il Benfica ha perso tre finali su tre (2014, 2017 e 2020). A far forse sperare flebilmente in un cambiamento è però il riscatto che gli stessi giovani del Benfica hanno ottenuto nel 2022, quando hanno vinto per 6-0 contro il Salisburgo la loro prima Youth League.
Ha davvero del clamoroso questa storia, che riguarda poi una delle migliori compagini europee, quella che ha vinto per 38 volte il proprio campionato, una squadra che vanta giocatori forti anche in tempi recenti. Eppure, fino ad oggi questo tabù non è caduto.
Premonizione, psicologia, potere delle parole, malefizio, avversari più quotati, qualunque cosa sia è diventata la leggenda più famosa sulle sconfitte in serie di una società di calcio, che di certo risuona sempre nella mente di tifosi e tesserati del Benfica, quando si avvicinano a dei traguardi e ricordano cosa ha previsto per loro un allenatore giramondo che li ha portati alla gloria e poi, per quattromila dollari e l’orgoglio ferito, ha presagito un futuro nero e mai rosso in Europa, almeno fino al 2062.
Racconto a cura di Carmelo Bisucci