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Senza distanza

Due realtà vicine solo geograficamente. Una rivalità che dura da quasi mille anni. Dai campi di battaglia del Medioevo a quelli di calcio, in quello che oggi viene chiamato “il Derby Lombardo”.
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Derby Lombardo - Atalanta Brescia - Illustrazione Tacchetti di Provincia

È normale che le rivalità sportive più sentite e calde siano quelle relative ai cosiddetti derby, le sfide stracittadine. In cui i tifosi sono costretti tutto l’anno a dividere con gli avversari gli stessi posti: lo stesso bar, lo stesso parrucchiere, lo stesso ufficio. Dove se la domenica tu hai perso e gli altri hanno vinto, il lunedì diventa terribilmente ancor più difficile di quanto già non lo sia.

Esistono tuttavia rivalità accesissime anche tra squadre e popoli che non condividono le stesse vie. In cui la distanza geografica esiste, ma sembra quasi assottigliarsi, nonostante usi, costumi, linguaggi e modi di vivere molto diversi tra loro. E tra queste una delle più sentite, se non addirittura la più sentita, è quella che intercorre tra il Brescia e l’Atalanta, tra la Leonessa e la Dea.

Due città divise tra loro, perché dove non arriva la Val Camonica ecco spuntare il fiume Oglio, a demarcare il confine. Ma animate da dissapori antichissimi, di origine addirittura medievale; traspostisi poi, inevitabilmente, nel calcio.

Gli scontri del Medio Evo

Che non corresse buon sangue tra i due popoli se n’era già accorto Federico Barbarossa, costretto ad intervenire, nel XII secolo, come mediatore su una contesa di terreni, di proprietà bresciana e venduti ai bergamaschi, restituiti poi, su ordine dell’imperatore, alla curia dei primi.

È solo la miccia che innesca una serie di altre aspre contese, che costringono il figlio del Barbarossa, Enrico VI, a intervenire nuovamente per riappacificare gli animi. La pagina più sanguinosa si scrive tra il 27 e il 28 novembre 1237, con la battaglia di Cortenuova, in cui i bergamaschi sconfiggono i Guelfi bresciani al costo però di numerose vittime lasciate sul campo.

Nei secoli seguenti ecco l’assegnazione, da parte degli austriaci della Val Camonica, da sempre bresciana, ai bergamaschi, a suscitare ulteriore tensione laddove non ce n’era assolutamente bisogno.

Nel XX secolo ci si mette pure il calcio ad intervenire con un vero e proprio tackle scivolato. Che riesce tuttavia a far tacere le armi, lasciando che siano 22 giocatori, diretti da un arbitro, in un campo ai cui estremi si trovano due porte dotate di reti, ad accendere gli animi dei due popoli, in quello che per tutti diventa preso il “derby lombardo”. Ed ecco che ogni piccola distanza tesa a separare le due città scompare così, come per magia.

La Dea e le Rondinelle

Il 17 ottobre 1907 Eugenio Urio, i fratelli Amati (Giulio e Ferruccio), Alessandro Forlini e Giovanni Roberti, tutti studenti liceali, fondano la Società Bergamasca di Ginnastica e Sports Atletici Atalanta, ispirandosi all’omonima eroina greca, nota per la sua abilità nella caccia. Fin da subito una delle sezioni ad andare per la maggiore è quella relativa al gioco del calcio. Nel 1920 arriva la fusione con la Bergamasca, un’altra realtà del territorio dedita principalmente alla ginnastica e alla scherma, virando per la prima volta sul nero e azzurro come colori sociali, ed assumendo la denominazione che ha tutt’oggi: Atalanta Bergamasca Calcio.

Ben presto diventerà uno degli orgogli della cosiddetta “Città dei Mille”, capace di unire in un’unica passione tutta la città, sia Alta che Bassa, fino a tutta la profondità delle valli orobiche. Al giorno d’oggi è la squadra provinciale che vanta la più lunga permanenza in Serie A (ben 65), nonché uno dei più floridi vivai del nostro calcio, dal momento che non si contano i giovani campioni cresciuti alla Dea e passati poi a meravigliare le platee di mezza Italia. Un solo trofeo vinto, la Coppa Italia 1962/63, grazie a una tripletta di Angelo Domenghini che annienta il Torino. Ma i recenti anni, con Gianpiero Gasperini alla guida, promettono davvero bene.

Il 17 giugno 1911, invece si fondono l’Unione Sportiva Bresciana e la Gimnasium, ed ecco vedere la luce il Foot Ball Club Brescia. Abbandonato l’arancione-blu iniziale, nel 1927 compare per la prima volta la V bianca su sfondo azzurro, doverosa per poter utilizzare l’impianto sportivo della Voluntas per i propri incontri casalinghi. Il presidente Ranzanici lo rispolvererà poi nel dopoguerra, rendendolo uno dei simboli del club, i cui giocatori, da lì in poi, saranno chiamati le “rondinelle.

Poca gloria per loro ai massimi livelli, nonostante una comunque prestigiosa vittoria ottenuta a Wembley nel 1994 in quel curioso esperimento chiamato Coppa Anglo-italiana contro il Notts County grazie a un gol di Ambrosetti, ma il doppio record, tuttora vigente, riguardante la serie B: club con più presenze nel campionato cadetto, sia in generale (65) che consecutive (ben 18 tra il 1947 e il 1965). Segno, comunque, di una continuità sportiva che altri club si sognano.

Le acredini tra le due squadre nascono subito, nonostante il calcio della prima metà del ‘900 fosse contraddistinto da una maggiore cavalleria rispetto all’attuale. Durante uno di questi derby, negli anni ’30, i tifosi bresciani rilasciano centinaia di conigli rigorosamente colorati di nero e azzurro, i colori dei rivali. Che risponderanno poco dopo facendo indossare ad un maiale la maglia bresciana.

L’uno per l’altro saranno sempre questi: conigli gli uni, maiali gli altri. “Sunì contro conec” per dirla nel rispettivo linguaggio. Solo il primo di tanti sfottò, alcuni dei quali realmente geniali (come il cartellone autostradale con scritto “lavori in corso a Bergamo km 2 e a Brescia km 0”, preparato dai tifosi orobici per festeggiare una vittoria, appunto per 2-0, contro i cugini).

Come spesso purtroppo accade spesso si è ecceduto, con scontri e tafferugli dentro e fuori gli stadi. E con le due curve che, specialmente a seguito della repressione attuata dai governi negli ultimi anni, che si sono spesso ritrovate decimate dalle tante diffide. Fino a ritrovarsi nella protesta contro il sistema stranamente unite, come solo il maledetto Coronavirus ha saputo fare in tempi più recenti.

La corsa di Mazzone

Ma per ogni “battaglia”, anche se in questo caso ovviamente sportiva, che si rispetti ci dev’essere un fermo immagine, una foto, un quadro da tramandare ai posteri, talmente intenso da poter raccontare in un solo frame l’intensità e l’essenza della lotta e dello scontro. Come la battaglia di Legnago fu resa immortale dal celeberrimo dipinto di Amos Cassoli, stessa effetto raggiunto dalle foto di Robert Capa sulle spiagge della Normandia nel giugno del 1944, anche in questo caso la copertina ce l’abbiamo. Ed essendo il 30 settembre del 2001 non può che esserci fornita dalle televisioni.

Stiamo ovviamente parlando della delirante corsa di Carletto Mazzone, allenatore del Brescia, impegnato nel derby casalingo allo stadio Rigamonti, verso il settore ospite occupato dai tifosi dell’Atalanta, impegnati per quasi 90 minuti a pizzicarlo con insulti di tutti i tipi, dopo il clamoroso gol del pareggio finale (3-3).

Un’immagine che racconta tante cose, e che renderà il buon Carletto (o il suo “gemello cattivo” come lui stesso si autodefinirà) idolo totale per i tifosi della Leonessa, e ospite non più desiderato (per così dire) per gli ultrà della Dea.

Una corsa diventata iconica, talmente improvvisa e inaspettata da lasciare tutti, presenti e non, attoniti, e tale anche da far passare in secondo piano l’impresa sportiva appena compiuta dai suoi, capaci di recuperare uno svantaggio all’apparenza incolmabile grazie al talento infinito dell’uomo col codino, Roberto Baggio, venuto a Brescia, in provincia, per deliziare ancora il nostro calcio.

Inevitabile l’espulsione comminata da Pierluigi Collina, il primo a rimanere basito dall’accaduto. Così come inevitabile sarà la “calda” accoglienza riservatagli non solo dal pubblico, ma dall’intera città di Bergamo prima, dopo e durante la gara di ritorno; con la città tappezzata di volantini recanti la faccia dello stesso Mazzone e la scritta “io non posso entrare”, o ancora “divieto di sosta per i cani”.

Più fresco l’episodio dell’estate del 2013, quando Marco Giampaolo viene nominato nuovo allenatore del Brescia, e sceglie di portare con sé, come collaboratore, Fabio Gallo.

Nessun problema, almeno in apparenza. Se non fosse che Fabio Gallo è un ex centrocampista sia del Brescia che dell’Atalanta. Come del resto anche Cristiano Doni (ma questa è tutta un’altra storia…).

Secondo i soliti ben informati, però, il buon Gallo, al momento di approdare a Bergamo, nel 1995, avrebbe detto, testualmente, ai tifosi: “Finalmente trovo una tifoseria vera”.

Apriti cielo! Quando si sparge la notizia del suo possibile ritorno al fianco di Giampaolo la tifoseria si mobilita, e al grido di “Fabio Gallo non lo vogliamo” chiede a gran voce un dietrofront da parte della società. Sarà lo stesso Gallo a fare, signorilmente, un passo indietro. Dicendosi, per quanto convinto di non aver mai pronunciato certe parole, desideroso di non costituire elemento di disturbo nel lavoro del nuovo allenatore. E diventando così, per l’opinione pubblica, il “primo allenatore esonerato dagli ultrà”.

È Brescia-Atalanta. Capita anche questo, nella storia di questa annosa rivalità. Di un derby che derby non è, ma è come se lo fosse. Di due culture così distanti da sembrare quasi inesorabilmente vicine.

Racconto a cura di Fabio Megiorin

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