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Il calcio muore a Gaza?

Non si tratta di ideologie, né di politica, né di rivendicazioni territoriali. Si parla di desideri interrotti, di un pallone che non riesce più a rotolare, di una speranza spezzata tra le macerie. Là dove le storie di calcio si intrecciano ai sogni di ogni bambino, come accade in ogni parte del mondo. Ma lì, oggi, quelle speranze non sembrano avere futuro.
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A Gaza e in Palestina oggi non si gioca più. I bambini non rincorrono alcun pallone, sono troppo affamati per correre e troppo traumatizzati per sognare. Perdono il significato stesso dell’infanzia e il diritto di crescere spensierati. La guerra ferma il gioco e lascia spazio soltanto alle esplosioni.

La Scuola Calcio di Gaza

A Gaza si continua a credere che un domani sia ancora possibile, grazie ad allenatori che, pur senza un campo, radunano i bambini in spazi di fortuna e tengono vivo il sogno di indossare un giorno la maglia della nazionale palestinese o di un grande club. Un gesto semplice, che ricorda a tutti che la vita continua, anche nel buio.

Mohammed Al Sultan, 23 anni, allena nella scuola Al Haddaf, a nord della Striscia. Vuole regalare spensieratezza ai bambini, trasformare la paura in gioco. Anche sotto i bombardamenti li raduna, li fa correre, gridare, ridere. Crede che il pallone sia un’arma contro la disperazione.

Il 16 maggio 2025 la sua casa viene colpita da un raid. Muore con il fratello quattordicenne, la moglie e i due figli. 

A Napoli, la scuola calcio Spartak San Gennaro, gemellata con Al Haddaf, organizza un torneo per ricordarli. I bambini italiani sollevano al cielo papaveri rossi di carta con i nomi di chi non c’è più. Un gesto piccolo, ma capace di attraversare confini.

Il calcio palestinese perde i suoi simboli

A inizio 2024, un attacco aereo israeliano uccide Hani Al-Masdar, commissario tecnico della nazionale olimpica palestinese di calcio. 

Pochi mesi dopo, l’11 marzo, un altro raid colpisce Mohammed Barakat, stella dell’Ahly Gaza, soprannominato "La Leggenda di Khan Younis". Attaccante tra i più forti della Palestina con 114 gol in carriera.

Nelle ultime ore anche Suleiman Obeid, ex attaccante della Nazionale palestinese e idolo del calcio locale, muore sotto il fuoco dell’Idf mentre cerca cibo per la famiglia a Gaza. L’Uefa lo omaggia come il  Pelè palestinese ma, secondo Mohamed Salah, tace sulle circostanze della morte. 

“Come è morto, dove e perché?”, attacca la stella del Liverpool. 

La denuncia di Salah è seguita anche da Eric Cantona, che afferma: “Per quanto ancora lasceremo che continui questo genocidio?.”

La comunità è scossa dai quasi 700 atleti caduti sotto i raid israeliani. Un popolo privato di generazioni di talenti, uno vero e proprio sterminio dello sport palestinese.

Wessam Abou Ali, idolo di tutti i bambini

Però quei bambini, senza più allenatori né stelle di riferimento, continuano comunque a sognare. Immaginano un futuro diverso. Sperano di emulare ciò che resta dei loro idoli.

Su tutti, Wessam Abou Ali. Attaccante nato in Danimarca da genitori palestinesi. Dopo anni nelle giovanili danesi sceglie di rappresentare la Palestina. Un atto di restituzione.

Al Mondiale per Club gioca con l’Al Ahly e segna una tripletta storica contro il Porto. Esulta mimando Handala, personaggio simbolo della resistenza palestinese, un bambino che parla di pace, speranza e riscatto.

Abou Ali, idolo dei più piccoli, celebra con loro ogni sua impresa. 

Però la FIFA resta in silenzio. Nessuna celebrazione ufficiale. Ma agli annali rimane il primo hat-trick nella storia del torneo.

Il numero 9 sulla schiena diventa un simbolo, un talismano contro la rassegnazione. A Gaza i bambini disegnano il suo volto sui muri crepati dalle bombe. Lo imitano nei movimenti, nei sogni. 

Perché se ce l’ha fatta lui, forse ce la fanno anche loro.

Il Mondiale sfiorato

È ancora Abou Ali a trascinare la nazionale palestinese verso lo storico sogno dei Mondiali 2026. Un’impresa solo sfiorata, ma comunque epica.

Il sogno si spezza contro l’Oman, nella maniera più crudele, per un rigore al minuto 97.

Nessuno parla di sconfitta. Resta il riscatto dopo ogni gol. Resta la dichiarazione di esistenza nel mondo del calcio.

La speranza si regge anche su queste storie. Come quella di Abou Ali, che ispira i bambini che corrono tra le macerie anche senza scarpe, anche con una palla fatta di stracci legati con lo spago.

Palestino: una squadra, un legame

Le storie di calcio legate alla Palestina arrivano fino in Sudamerica già all’inizio del secolo scorso. In Cile, nel 1920, nasce il Club Deportivo Palestino, fondato da immigrati palestinesi.

Milita nella prima divisione e indossa maglie con i colori della bandiera palestinese, a volte persino con la mappa della Palestina stampata sul petto. Una provocazione che evoca ricordo, legame e memoria.

Il Deportivo Palestino non è solo un club bensì l’estensione del popolo palestinese in Sud America, scrive così Michelangelo Freda su Rivista Contrasti.

È un simbolo potente per la più grande comunità palestinese fuori dal Medio Oriente. Un club che sogna la Copa Libertadores e spera, un giorno, di dedicarla ai bambini di Gaza che seguono con orgoglio i risultati di questa enclave in terra cilena.

Il silenzio del calcio mondiale

Ma si torna in Medio Oriente. Lì dove le bombe e lo sterminio dei simboli sportivi hanno cancellato anche il campionato locale. Lì dove il calcio si ferma senza che nessuno, nel circo del pallone, sembri accorgersene.

Mentre Gaza brucia, la FIFA resta immobile. Il calcio si proclama paladino dei diritti umani, ma chiude gli occhi. Qui non c’è spazio per l’ideologia.  C’è carestia, un’infanzia spezzata e un’umanità calpestata.

Le parole di Guardiola aprono una breccia

Come Cantona e Salah, anche un’altra voce del calcio interviene fermamente. Nel giugno 2025, Pep Guardiola riceve una laurea honoris causa a Manchester e parla di Gaza. Non da tecnico, ma da padre: “È straziante ciò che vediamo. Non è ideologia, è amore per la vita.” 

Racconta la paura per i suoi figli, i bambini uccisi dalle bombe. Poi guarda la platea: “Fate attenzione: i prossimi bambini di quattro o cinque anni… potrebbero essere i nostri.” 

Cita la storia dell’uccellino che tenta di spegnere un incendio con una goccia d’acqua. “Io sto solo facendo la mia parte,” dice, come quell’uccellino

Il calcio è morto a Gaza?

Anche quei bambini tra le macerie fanno la loro parte.

La guerra toglie tutto. Questo genocidio ruba il futuro. Non ci sono più porte, né allenatori, né scarpe. I campi sono stati trasformati in cimiteri.

Eppure, tra le rovine, c’è sempre un bambino che prende una palla di carta, la lega con uno spago e corre. Non per segnare un gol, ma per dimenticare. Non per vincere, ma per sopravvivere a un dolore che non dovrebbe appartenergli. Succede a Gaza, in Cisgiordania, in Ucraina, in Sudan e in altre parti del mondo. Ovunque un bambino innocente diventa spettatore incolpevole di una guerra che non ha scelto.

Quei bambini che, nonostante tutto, continuano a calciare un pallone rappresentano la speranza più fragile, ma anche quella che non si spezza. Ed è forse in quella speranza, che mai si spezza, che il calcio a Gaza non muore.

Racconto a cura di Giuseppe Vassallo

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