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Oscar Cordoba, l'undicesimo uomo

Nel 2001 è stato votato secondo miglior portiere al mondo. Uno degli interpreti più moderni del ruolo, venuto nel 2002 in Italia, dopo i trionfi al Boca, per salvare il Perugia.
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Óscar Córdoba - Illustrazione Tacchetti di Provincia

Lo chiamano “il principio dell’undicesimo uomo”. Consiste nel cominciare la costruzione del gioco dal basso, anzi, dal bassissimo. Con il portiere, che dev’essere abile a farsi trovare nelle linee di passaggio dai propri difensori, leggendo preventivamente la geometria dell’azione, per poi trasmettere con cura ed efficacia il pallone ai compagni, sia con le mani che con i piedi.

Pep Guardiola dice di averlo appreso dal proprio maestro, Johan Crujiff. Difficile dire se sia stata questa l’arma decisiva con cui l’allenatore catalano ha cambiato, bisogna dirlo, il modo di pensare questo sport. Certo è che con Pep il principio dell’undicesimo uomo ha trovato definitiva sublimazione. Basti pensare a come il suo Bayern Monaco si ritrovasse effettivamente con 11 giocatori di movimento in campo, grazie alle abilità di Manuel Neuer. Stessa cosa prima, al Barcellona con Victor Valdes, e ora, al City con Ederson.

Ecco quindi che, a uno come Guardiola, sarebbe piaciuto tantissimo avere tra i pali Oscar Cordoba. Estremo difensore colombiano da questo punto di vista all’avanguardia, perché tanto bravo tra i pali quanto con la palla tra i piedi.

Cordoba, in una lunga e raggiante carriera, ha insegnato ai colombiani che si può essere bravi portieri senza per forza essere pazzi come Higuita. Ha dato prova di coraggio, accettando, dopo anni trascorsi a vincere e rivincere con il Boca Juniors, la chiamata del Perugia di Gaucci, impelagato nella lotta salvezza. Ha cambiato, per certi versi, il modo di vedere il ruolo del portiere, fino a considerarlo non più solo “difensore estremo”, ma come membro aggiunto di uno scacchiere tattico dal quale far partire tutte le idee successive

Oscar, salvaci!

Gennaio 2002. In un ristorante di Perugia si cucina l’asado, non propriamente piatto tipico della cucina umbra. Dalla porta d’ingresso entra prima Rocco Dozzini, di professione avvocato, ma appassionatissimo di calcio sudamericano. Subito dietro di lui l’amico Luciano Gaucci, simpatico e visionario imprenditore, che con la propria ditta di pulizie è riuscito, negli anni, ad entrare prima nel mondo dell’ippica (primo grande amore) e poi anche nel calcio, rilevando le quote di maggioranza del Perugia all’inizio degli anni ’90.

Poco dopo arrivano nel locale anche un manipolo di sudamericani, tra i quali spicca questo ragazzotto, non altissimo, ma di stazza super imponente. Qualcuno degli inservienti lo riconosce, ma stenta a credere ai propri occhi: “ma quello non è mica il portiere del Boca Juniors?”. “See figurati! A Perugia? Ma quando mai!”

E invece è proprio lui, Oscar Cordoba. Portiere titolare non solo degli Xeneizes, ma anche della Nazionale Colombiana, con la quale, pochi mesi prima, ha scritto la storia vincendo una straordinaria Coppa America.

 Il Perugia cerca un nuovo portiere, a seguito dei dissidi tra Andrea Mazzantini e l’allora allenatore, Serse Cosmi, e Dozzini ha suggerito al presidente il nome di Cordoba, considerandolo una sicurezza nel ruolo, vista anche l’esperienza data dai suoi 32 anni d’età.

Stavolta infatti non si tratta di un’altra esotica idea del presidente, che negli anni ha portato allo stadio Curi giocatori finlandesi, ecuadoregni, giapponesi e cinesi, finanche a tesserare il libico Al Saadi Gheddafi, figlio del presidente Muammar, e a provare a inserire in rosa una donna, prima di ricevere lo stop dalla federazione.

La scelta di Cordoba è ponderata, e ha ben più che un senso. E pagherà in dividendi, dal momento che a fine anno il Grifo festeggerà, anche grazie alle parate del colombiano, l’agognata salvezza.

Prima però il presidente vuole capire cosa spinga un portiere che avrebbe legittime ambizioni di puntare a grandi piazze ad accettare di trasferirsi nei colli umbri.

La risposta è semplice: Oscar vuole una nuova sfida. Non ha paura di mettersi in discussione in un campionato che non conosce, e di ambientarsi in una città della quale, fino a poco prima, dubitava dell’esistenza. Vuole scrivere altre pagine della propria storia, dopo essersi riempito la pancia di coppe e riconoscimenti individuali. Ridare slancio a una carriera che lo vedrà in campo per molti anni ancora, dal momento che si ritirerà nel 2009, a 39 anni.

Gaucci capisce che è la scelta giusta. L’accordo tra i due è semplice: “Salvaci! A fine campionato ti darò quanto pattuito e ti lascerò andare altrove”. Così sarà, nonostante il colombiano ammetterà successivamente che avrebbe preso in considerazione anche l’ipotesi di rimanere.

Ma il Perugia è salvo, la missione è compiuta. È tempo di nuove sfide.

Un Boca da sogno

Negli anni precedenti Cordoba si era distinto, in Sud America, come portiere moderno, abile sia con le mani che con i piedi. Nulla a che vedere con lo Scorpione del connazionale Higuita fatto in faccia agli inglesi. Non siamo al circo, ma in un campo di calcio. E quando Oscar approda ai Millionarios, nel 1991, già si parla di lui come di una nuova promessa del calcio latino.

L’abilità con i piedi è dovuta ai suoi inizi da giocatore di movimento, prima che un lungimirante allenatore dell’Atletico Nacional, sua squadra d’origine, lo convincesse a mettersi i guanti e a voltare le spalle alla porta.

Dopo il Nacional, il Deportivo Calì e i Millionarios Cordoba passa all’America de Calì, potendo così inserire nel curriculum di aver giocato nelle 4 principali squadre del calcio colombiano.

Nel 1997 la chiamata che non si può rifiutare, quella del Boca Juniors. Oscar vola a Buenos Aires per far parte di una squadra leggendaria, insieme a gente come Martin Palermo, Caniggia, Riquelme, Samuel. Il primo anno agli xeneizes fa addirittura in tempo a giocare con l’ultima versione calcistica disponibile di Diego Armando Maradona.

Inutile dire che arrivano titoli a ripetizione: 3 campionati argentini, 2 Coppe Libertadores consecutive. Nel 2000 il Boca riesce nell’impresa, mai scontata per una squadra sudamericana, di alzare al cielo la Coppa Intercontinentale, schiantando, nella partita secca di Tokyo, nientemeno che il Real Madrid grazie alla doppietta del Loco Martin Palermo, a rendere inutile la rete delle merengues di Roberto Carlos.

Un periodo florido di soddisfazione, non tale però da accontentare la fame di calcio di questo ragazzo, che nel frattempo si è preso anche la titolarità della porta della Nazionale colombiana, nonostante i Cafeteros, in quegli anni, possano contare su un altro ottimo portiere, come Faryd Mondragon.

Nel 2001 la Colombia alza al cielo una storica Coppa America, battendo in finale il Messico davanti ai propri tifosi, dal momento che era anche Nazione organizzatrice. Un’edizione, a onor del vero, molto particolare, che a pochi giorni dall’avvio vede il clamoroso ritiro dell’Argentina, a seguito delle minacce ricevute dai giocatori dell’Albiceleste (sono giorni, per così dire, molto caldi in quel lato di mondo).

Il Brasile, l’altra pluri-favorita, sceglie invece di partecipare, ma finisce clamorosamente eliminato ai quarti di finale dal modesto Honduras, facendo così terminare con largo anticipo l’esperienza di Emerson Leao sulla panchina della Seleçao.

In quella squadra la cerniera difensiva è pressoché imperforabile. Davanti a Cordoba giocano infatti due illustri ministri della difesa, come Mario Yepes e Ivan Ramiro Cordoba. Frangiflutti micidiali di qualsiasi iniziativa avversaria.

A fine stagione la FIFA lo nomina come secondo miglior portiere del Mondo, dietro al solo Oliver Kahn,

Mamma li turchi

Lasciata Perugia, Cordoba vola in Turchia, per vestire la maglia del Besiktas. Vince subito il campionato, in una sfida contro il Galatasaray, la cui porta è difesa dall’amico e compagno in nazionale Mondragon. Oscar, proprio come un buon vino, durante la propria esperienza europea migliora con il passare degli anni, nonostante continuino a sommarsi le primavere sulle spalle.

Nel 2003 arriva anche il definitivo passaggio di consegne, nel momento in cui Cordoba colleziona la presenza numero 69 in nazionale, superando le 68 messe insieme da Higuita e diventando così il portiere colombiano con più presenze nella storia dei Cafeteros.

Lascia Istanbul da vincente, alzando al cielo una Coppa di Turchia nel 2006, prima di tornare, dopo un anno ad Antalya, in patria per ripercorrere di fatto le proprie origini, vestendo di nuovo le maglie di Deportivo Calì e Millionarios, prima di chiudere, a 39 anni suonati, la propria onorevolissima carriera.

Un percorso fatto di continue sfide, la maggior parte delle quali vinte. E pensare che avrebbe potuto interrompersi tutto nel 1994. C’è lui, a difendere la porta della Nazionale, a USA ’94, quando Escobar gli rinvia maldestramente alle spalle quel maledetto pallone, firmando l’autogol della condanna.

Condanna per la Colombia, ad uscire dalla competizione. Condanna a morte per lui, che verrà brutalmente assassinato nei giorni successivi. Un episodio che lo porta a riflettere, se abbia senso andare avanti. Ma che alla fine gli dà ulteriore forza, e un motivo in più per continuare a farcela.

Avrebbe fatto comodo anche a Pep, questo effettivo undicesimo uomo. Ma chissà, magari nemmeno avrebbe accettato. Affascinato dall’idea di salvare un Perugia qualsiasi

 

Racconto a cura di Fabio Megiorin

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