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Carlos Tévez, Carlito's Way

Carlos Tévez è stato il sogno di rivalsa, un simbolo di resilienza, un manifesto vivente della garra. Bandiera, icona, simbolo di un popolo e delle sue tifoserie.
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Carlos Tevez - Illustrazione Tacchetti di Provincia

È il 13 luglio 2015. Buenos Aires è in totale fermento. La Bombonera è gremita: non ci sono più posti liberi e un numero considerevoli di tifosi è all’esterno dello stadio. Il clima è quello di una partita di cartello: tifosi ovunque, cori, entusiasmo esplosivo. Eppure è un semplice lunedì lavorativo e in programma non c’è alcuna gara. Il mondo Xeneizes è in totale trepidazione perché, di li a pochi minuti, Carlos Alberto Martínez Tévez farà il suo ritorno al Boca Juniors. 

“Era ora di tornare al Boca. Fisicamente e mentalmente sono al meglio. Il mondo Boca mi ha divorato.” dice visibilmente emozionato dal centro del campo. Carlitos ha 31 anni, è al top della sua carriera, gli anni alla Juventus lo hanno riconsacrato top player a livello mondiale. Ha sfiorato la Champions con i bianconeri e, dal tetto d’Europa, ha scelto di ritornare in patria. 

Dal Fuerte all’Olimpo

L’Argentina in cui nasce Carlitos è una nazione che vive un momento cruciale della sua storia: la sconfitta nella guerra delle Malvinas-Falkland, la crisi della dittatura militare e l’allontanamento del generale Videla sono l’antipasto di una transizione democratica difficile e sofferta. 

I primi mesi di vita di Tevez sono degni di un dramma cinematografico: la madre è al settimo mese di gravidanza quando il padre biologico, Carlos, viene assassinato a colpi di arma da fuoco; pochi mesi più tardi il piccolo Carlitos che, anagraficamente, nasce come Carlos Martínez, viene abbandonato dalla madre. Ha solo undici mesi quando l’acqua bollente di un bollitore e la coperta di nylon in cui viene avvolto gli provocano ustioni multiple le cui cicatrici ne definiranno per sempre il volto. Sono gli zii materni, Adriana e Segundo, che di cognome fa Tévez, ad adottarlo. Carlos cambierà il cognome proprio in onore dello zio che sarà poi, a tutti gli effetti, suo padre. 

L’Ejército de los Andes è un barrio difficile in cui muovere i primi passi: la povertà e la criminalità sono pane quotidiano. Il piccolo Carlos trova nel calcio la sua via di fuga dalle tentazioni della malavita. Ha solo undici anni quando Ramón Maddoni, autentica leggenda dello scouting argentino – sono state sue scoperte, tra le tante, Riquelme, Cambiasso, Redondo – lo prende sotto la sua ala protettiva. Tevez inizia a giocare nelle giovanili dell’All Boys, squadra del barrio Floresta di Buenos Aires e, ben presto, viene notato dalle società di spicco del calcio argentino. Ma lui è già un tifoso, un fanatico del Boca e non intende giocare altrove se non lì: rifiuta tutte le proposte fino all’arrivo di quella “azul y oro”.

Ha solo diciassette anni quando esordisce in Primera Division. Il primo anno serve per ambientarsi nel “calcio dei grandi”, il secondo, per diventare imprescindibile. In soli tre anni, è idolo indiscusso del mondo Boca e si laurea miglior giocatore del Sudamerica nelle stagioni 2003 e 2004. Il Boca Juniors, con lui, vince quasi tutto quello che può vincere: il campionato argentino, la Copa Libertadores. la Coppa Intercontinentale nel 2003, la Copa Sudamericana nel 2004. È acclamato dagli Xeneizes per lo sconfinato talento, per la garra che mette costantemente in campo e per lo stretto legame con le sue origini. Un legame che gli vale ben due soprannomi: l’Apache, in ricordo del barrio dove è cresciuto e “el jugador del pueblo”, perché non ha mai rinnegato le sue origini.

Il rapporto con i tifosi, con il “suo” popolo, saranno una costante della sua carriera. Nell’estate 2004 completa la “conquista” dell’Argentina consegnandole, indossando la maglia numero dieci, la prima Olimpiade della sua storia. È il giocatore più ambito di tutto il Sudamerica e le campane europee cominciano a risuonare a casa Tevez. Prima di cambiare continente, però, passa clamorosamente al Corinthians. Non scorre buon sangue tra argentini e brasiliani e il suo arrivo viene perciò accolto con molto scetticismo dai tifosi del Timão. Gli basta un anno per diventare un totem: vince il campionato, diventa il primo giocatore non brasiliano ad essere nominato miglior giocatore della stagione e, per la terza volta consecutiva, vince il Pallone d’Oro del Sudamerica. 

A poco più di vent’anni e con il SudAmerica ai suoi piedi, Carlitos fa le valigie: al termine di una controversa trattativa, gestita dal suo procuratore Kia Joorabchian, sbarca a Londra, al West Ham, in compagnia del suo compagno di squadra e nazionale Javier Mascherano.

In terra d’Albione

L’approdo in Europa di Tevez e Mascherano è peculiare. Al West Ham sembra esserci un rallentamento nelle relative carriere: Mascherano trova poco spazio nel centrocampo degli Hammers mentre Carlitos fatica a trovare una posizione che gli permetta di rendere al meglio. Il talento è innegabile ed evidente ma scelte tecniche lo costringono ad adeguarsi ad un ruolo, quello di ala, che poco si adatta al suo stile di gioco. 

Per il centrocampista, l’esperienza londinese terminerà addirittura a metà stagione, Carlitos, invece, andrà via in estate. Diventano, quindi, rivali: Javier prenderà le redini della regia al Liverpool, Tevez, formerà un tridente da sogno con Cristiano Ronaldo e Rooney al Manchester United.

L’arrivo dell’Apache ai Red Devils è deflagrante: vince la Premier League segnando 14 reti in 34 presenze e alza al cielo la Coppa dalle grandi orecchie contro i rivali del Chelsea. È un attaccante atipico, l’argentino. Fisicamente ha la “stazza” del Diez: 173 cm di altezza, brevilineo, baricentro basso, tecnica da primo della classe, eppure, Carlos, ha il gol nel dna. Non è il tipico bomber da valanghe di marcature. È un giocatore associativo, sa rifinire, trova spazio per i compagni, attacca l’area quando serve, calcia magistralmente con entrambi i piedi e, soprattutto, è quasi impossibile togliergli palla. 

Nonostante la poca possanza fisica è complicatissimo contrastarlo, difende palla come pochi, è calcisticamente cattivo, quando si avventa sul pallone sembra volerlo distruggere. Quando lo si vede giocare è la manifestazione vivente di quella che, in Sudamerica, viene chiamata “garra”, cioè la grinta, l’inesauribile voglia di dare sempre il massimo, di non lasciare alcuna riserva alle proprie energie. 

Alti e bassi

L’anno successivo bissa il successo in Premier ma non è cosi brillante come il precedente. Carlos ha molti dubbi sul suo futuro. Sono le dinamiche preferite da Kia Joorabchian, tentacolare nel suo gestire contratti e trattative. Dopo soli due anni lascia il “Teatro dei sogni” ma, questa volta, il trasferimento fa molto, molto rumore. 

La nuova proprietà del Manchester City ha intenzione di portare subito il club ai vertici del calcio inglese. La proposta è di quelle che non si può rifiutare. A pesare di più, però, è la responsabilità che viene affidata a Tevez: da subito uomo immagine e bandiera del club. Carlitos non si accontenta, vuole sentire il peso del suo ruolo, vuole essere al centro del progetto, vuole una sfida sempre più grande della precedente e, questo, lo United non riusciva più ad offrirglielo. 

L’esperienza con i Citizens è un’altalena di picchi e tonfi. Tevez è l’uomo su cui la dirigenza punta per entrare nell’elite della Premier. I primi due anni sono caratterizzati da grandi giocate e tanti gol. Sotto la guida del nuovo tecnico, Roberto Mancini, il City raggiunge la qualificazione in Champions League che mancava da ben quarantasei anni e vince l’FA Cup 2010/2011 mettendo fine  al digiuno di trofei che durava dal 1976. 

È proprio Carlitos ad alzare la coppa con la fascia di capitano al braccio. Qualcosa, però, si rompe nella stagione successiva: Tevez si rifiuta di subentrare dalla panchina durante la sfida contro il Bayern in Champions League. Per Mancini è un gesto ingiustificabile. Per sei mesi viene relegato in panchina. Da quel momento, l’etichetta di bad boy diventa difficile da rimuovere: a nulla servono la riappacificazione con Mancini e la vittoria in Premier League anche se non da protagonista.

All'ombra della Mole

“Non ho mai conosciuto in vita mia un calciatore più splendidamente ossessionato dalla tensione per la vittoria. Per Carlos vincere è tutto” dice, descrivendolo, Kia Joorabchian. Leggendo queste parole è facile associare questa mentalità ad uno specifico club italiano che del “vincere come unica cosa che conta” ne ha fatto un mantra. 

Il 26 giugno 2013 Tévez, dopo un’infinita trattativa, ai limiti della telenovela, il cui picco è una famosa cena con Galliani a Rio, si trasferisce, a sorpresa, alla Juventus. Alla firma, sempre per rimarcare il desiderio di essere protagonista, di sentire la pressione, accetta il peso della maglia numero dieci, rimasta ancora inassegnata dal recente addio del capitano Alex Del Piero.

Quello che si vede in maglia bianconera è, con ogni probabilità, la miglior versione di sempre di Tévez. Segna un numero spropositato di gol decisivi con una varietà imbarazzante di soluzioni: di destro, di sinistro, dalla distanza - come il “missile terra aria” contro il Milan- o portandosi dietro tutta la difesa, come nella leggendaria progressione in solitaria contro il Parma. 

Anche a Torino, però, resterà solo due anni. Il richiamo della sua Argentina è troppo forte per lui.  Al suo ritorno in patria, sarà di nuovo protagonista, vincerà il campionato e vedrà sfumare il sogno Libertadores in una finale leggendaria contro i rivali del River.

Jugador del pueblo

Quel giorno lì, quello del ritorno a La Bombonera, c’è anche Diego Armando Maradona sugli spalti. Diego è sempre stato un suo sostenitore: negli anni in cui Carlitos veniva escluso dalla nazionale a causa di alcuni dissapori con i commissari tecnici, “el pibe de oro” si schierava più volte con lui. Maradona alza le braccia al cielo esponendo uno striscione che recita “Grazie per aver rinunciato ai soldi per il tuo amore per la maglia del Boca". 

Il giorno prima della presentazione, ha chiesto ai tifosi di portare cibo non deperibile per il Merendero Bichito de Luz, una mensa che accoglie ogni giorno 150 giovani di Fuerte Apache. Queste due parole, esposte più volte sotto la maglia dei club al momento del goal, non rappresentano mai il passato. Sono parte fondante del suo Dna. Sono anche state il motore di un desiderio di rivalsa, di un moto di ribellione che ha visto nella “pelota” il suo seme di speranza. 

L’Apache non dimenticherà mai da dove proviene, non dimenticherà la “sua gente”, quella che ne richiedeva a gran voce la convocazione, quella che avrebbe sacrificato addirittura Messi per vedere Carlitos rappresentare il suo paese. Jugador del pueblo, di nome, di fatto.

Racconto a cura di Emilio Picciano

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