Walter Samuel, occhi di Bragia
Barcellona, 28 aprile 2010. Il tempo, al Camp Nou, non scorre: si è coagulato in un grumo di tensione irrespirabile. Siamo dentro una specie di imbuto acustico, una bolgia infernale di centomila anime che premono fisicamente contro i confini del campo per spingere il pallone nella porta di Julio César.
L’Inter è ridotta in dieci uomini da un’eternità che sembra geologica, orfana dell’ordine geometrico di Thiago Motta, asserragliata in una trincea immaginaria che separa la gloria dall’abisso. Il Barcellona di Pep Guardiola non sta giocando semplicemente a calcio; sta esercitando una pressione idraulica, costante, asfissiante. Messi, Xavi, Pedro, Dani Alves: sono ondate che si infrangono, si ritirano e tornano con violenza raddoppiata, cercando una crepa, un cedimento strutturale, un respiro mancato.
In mezzo a questa apocalisse tattica, mentre il resto della squadra nerazzurra annaspa cercando ossigeno in un’atmosfera rarefatta, c’è un uomo che si muove con una calma che ha del soprannaturale, quasi fosse sintonizzato su una frequenza diversa da quella del panico collettivo.
Walter Adrián Samuel Luján non corre, presidia. Non spazza via il pallone, lo esorcizza. Ogni volta che la sfera entra nel suo raggio d'azione, cessa di essere un oggetto di gioco per diventare materia inerte, spenta dal suo intervento. Samuel respinge di testa, di stinco, di coscia. Non c’è eleganza nel suo gesto, c’è solo una definitività brutale.
In quella notte catalana, Samuel smette di essere un semplice difensore centrale per trasformarsi in un concetto architettonico, un monito vivente alla vanità dell’attacco. È un frangiflutti di carne e ossa contro cui si sgretola l'utopia estetica del tiki-taka.
È lì, in quella resistenza disperata e commovente, che si compie definitivamente il destino del soprannome che lo ha accompagnato per una vita intera: The Wall, il Muro. Non una barriera passiva, ma una volontà attiva di negazione. Mentre Ibrahimovic, un gigante, viene ridotto a comparsa, Samuel si erge a custode di una verità antica: nel calcio, come nella vita, distruggere è un’arte nobile quanto creare.
La Forgia di Firmat e l’esplosione Xeneize
Per comprendere la genesi di questo monolite che si aggira per i campi d'Europa con l'aria grave di chi sta timbrando il cartellino in miniera, bisogna scendere a sud, molto a sud. Bisogna tornare a Firmat, provincia di Santa Fe, Argentina. La formazione calcistica di Samuel non avviene in accademie asettiche, ma nel vivaio del Newell’s Old Boys, la culla mistica del calcio rosarino. È lo stesso brodo primordiale da cui sono emersi filosofi come Marcelo Bielsa e geni come Lionel Messi, seppur con esiti evolutivi opposti.
Tuttavia, la vera consacrazione, il momento in cui Walter diventa "Il Muro", avviene nel teatro più esigente e crudele del mondo: la Bombonera. Arriva al Boca Juniors nel 1997 e trova sulla panchina Carlos Bianchi, El Virrey. Il Boca di fine millennio non è una squadra costruita per piacere, ma per vincere attraverso la sofferenza. È una squadra di guerrieri, di facce sporche, e Samuel, a poco più di vent'anni, trova humus fertile per il suo calcio. Non ha bisogno di urlare per farsi rispettare dai veterani come Bermúdez o Serna; gli basta uno sguardo, un posizionamento, un anticipo secco.
Vince due tornei Apertura (1998, 1999) e una Clausura, ma è la Copa Libertadores del 2000 a scolpirne il mito. È il 7 giugno 2000, il Boca Juniors è sotto di tre reti nella semifinale di ritorno contro il Club América. L'andata era finita 4-1 per la squadra argentina ma, in terra messicana il Boca sembra ingolfato, spaventato, irriconoscibile. Al minuto 83, però, è proprio Samuel a trovare il colpo di testa che salva il risultato. Stacca, imperioso, lontano dall'area piccola. La palla si alza in direzione del palo lontano. si insacca. Samuel inizia a correre, si toglie la maglia, il suo corpo e un fascio di muscoli che, a braccia aperte, corre verso la sua tifoseria. La sua comunicazione è ridotta all'osso, un linguaggio cifrato fatto di occhiate taglienti e movimenti millimetrici.
La sua ultima partita con la maglia degli Xeneizes è la finale di ritorno contro il Palmeiras, vinta ai rigori. È pronto a portare la sua legge oltreoceano, lasciando dietro di sé il ricordo di un difensore già adulto, immune alle vertigini del successo.
Quanto sei bella...stamattina
Quando sbarca a Roma nell'estate del 2000, la Città Eterna è un calderone di nevrosi e aspettative messianiche. La Lazio ha appena vinto lo Scudetto; la risposta giallorossa deve essere immediata, violenta, definitiva. La famiglia Sensi investe una cifra mostruosa (circa 40 miliardi di lire) per portarlo nella Capitale e Fabio Capello - un uomo che tratta il calcio come una scienza esatta, priva di sentimentalismi- individua subito in Samuel la pietra angolare del suo edificio calcistico.
La Serie A di inizio millennio è ancora il laboratorio tattico più sofisticato del mondo, una giungla dove sopravvivono solo i più adatti, dove l'errore difensivo viene vivisezionato per settimane. Samuel si adatta con una naturalezza sconcertante, come se avesse giocato in Italia da sempre. In una squadra che vanta il talento barocco di Francesco Totti, le accelerazioni di Cafu e l'istinto omicida di Batistuta, Samuel fa da garante dell'equilibrio. La sua stagione 2000-2001 è un trattato di efficienza difensiva applicata.
Il suo gioco è privo di fronzoli, quasi ascetico. Se Nesta è l'eleganza rinascimentale e Cannavaro l'esplosività barocca, Samuel è razionalismo puro. Non cerca l'applauso, cerca l'efficacia. Se l'attaccante passa, la palla resta; se la palla passa, l'attaccante resta. È una logica binaria inoppugnabile.
L'esperienza romana si chiude nel 2004, dopo uno Scudetto storico e qualche amarezza per non aver dato un seguito a quella vittoria tanto attesa nella capitale. Samuel lascia Roma per trasferirsi al Real Madrid. Le aspettative sono quelle di un "anno galattico" che si rivela, però, un corpo estraneo nella sua carriera.
Madrid, con la sua ossessione per lo spettacolo e le camisetas bianche immacolate, non è il posto per un uomo che si sporca i pantaloncini di fango e sangue al primo minuto. È un esilio dorato ma infelice, il preludio necessario al ritorno nella sua vera patria calcistica: l'Italia.
Caron dimonio
Il ritorno in Italia nel 2005, sponda Inter, segna l'inizio di una storia d'amore fondata non sulle parole dolci, ma sulla condivisione di un destino tragico e grandioso. Samuel trova nell'Inter morattiana, quella "pazza", incompiuta ed emotiva, il suo habitat naturale. Diventa il perno di una difesa che vincerà tutto, ma è un percorso lastricato di dolore.
Nel dicembre 2007, infatti, durante il derby, il ginocchio sinistro cede. La rottura del legamento crociato anteriore sembra la fine per un giocatore che basa tutto sulla forza fisica, sull'esplosività nei primi metri e sul duello corpo a corpo. Samuel, invece, torna. Impara a gestire diversamente il suo corpo, a prevedere le giocate con un anticipo mentale che compensa quello fisico. Diventa un maestro dell'ostruzione, del fallo tattico invisibile, della posizione.
È con l'arrivo di José Mourinho che la sua figura assume contorni epici. L'Inter del 2009-2010 è una banda di pirati, di reietti in cerca di vendetta, di campioni scartati altrove. E Samuel ne è il nostromo.
La coppia centrale che forma con Lúcio è un esperimento di chimica instabile che miracolosamente funziona alla perfezione: il brasiliano è il caos, l'anarchia che parte palla al piede a testa alta, un cavallo pazzo che vuole dribblare tutti; Samuel è l'ordine, la cura gravitazionale che rimette ogni cosa al suo posto. Una coppia tanto temibile, in campo, quanto bizzarra fuori. Stramaccioni, che allenerà l’Inter nella stagione 2012/13, racconterà ai microfoni di Dazn di come, i due, parlassero pochissimo fuori dal campo e che la loro intesa si cristallizzava soltanto al momento del fischio di inizio.
Samuel non è un giocatore che sembra divertirsi. Il suo volto è perennemente corrucciato, segnato da cicatrici visibili e invisibili, una maschera tragica prestata al calcio. È un’entità quasi mistica in campo. La severità del suo sguardo rimanda ad un personaggio quasi dantesco, a quell’ “occhi di bragia” con cui Dante descrive Caronte. Samuel è una guardia severa, un mastino pronto ad imporre la sua legge su qualsiasi cosa gli passa davanti. In un calcio che inizia a chiedere ai difensori di essere i primi registi, di avere piedi educati e visione di gioco, Samuel rimane fedele a un credo antico, quasi reazionario: il difensore deve, innanzitutto, essere sgradevole per l'attaccante. Deve rendergli la vita miserabile per novanta minuti.
“Noi la chiamavamo la zona temporale Samuel. Si prendeva qualche minuto, di solito pochi dall’inizio della gara, e poi faceva subito assaggiare i tacchetti: un fallo, non troppo duro ma neanche così morbido, giusto per far capire che aria tirava. Era come se dicesse: io sono qui e sono questo, adesso decidi tu quanto girare al largo.” dice Marco Materazzi, suo compagno di reparto, nel suo libro “Ti racconto i campioni dell’Inter”.
Nella storia
Di quella squadra piena di talento, Samuel diventa uomo chiave. A gennaio 2010 in una partita bloccata, maledetta, che rischia di complicare la corsa scudetto, Walter rompe i ranghi – su ordine perentorio di Mourinho- e si trasforma in una punta aggiunta.
Al 94’ riceve palla al limite, si gira e calcia di sinistro all'angolino come un centravanti di razza. Non esulta con gioia, esulta con rabbia, urlando verso il cielo grigio di San Siro. È il gol del 4-3 di una partita pazza che significherà tanto per la futura vittoria del campionato. Un’anticamera di quello che sarà il più grande successo della sua carriera.
È il 22 maggio del 2010. Allo stadio Santiago Bernabeu di Madrid si sta giocando la finale della Champions League. La doppietta di Diego Milito sta per regalare all’Inter un sogno atteso da quarantacinque anni. È il minuto ’88 quando Bastian Schweinsteiger crossa dalla sinistra del campo. La palla, dopo una deviazione, finisce nella zona di Samuel che, senza fronzoli, la spazza via lontana. È in quel momento che Zanetti, come racconterà più volte in trasmissioni ed interviste, sente di essere vicino alla coppa. Inizia a piangere di gioia e guarda Walter: “Ce l’abbiamo quasi fatta”, gli dice. Samuel lo ammonisce “mancano ancora tre minuti”. Il suo sguardo, però, appare commosso. Pochi minuti più tardi sarà accanto al suo capitano mentre alza la coppa più importante della recente storia nerazzurra.
Quattro anni più tardi, il 10 maggio del 2014, l’Inter gioca in casa l’ultima partita del campionato. È la gara di addio al calcio di Javier Zanetti. Nel momento più bello e commovente, quello dei saluti, il capitano chiama al suo fianco Diego Milito, Esteban Cambiasso e proprio Walter Samuel. I tifosi cantano il suo nome in coro, come, per anni, hanno fatto ad ogni sua prodezza, ad ogni suo miracolo difensivo.
Walter, con il figlio in braccio, entra nel cerchio di centrocampo quasi imbarazzato. Abbraccia il capitano, alza le braccia al cielo, poi, commosso, sorride.
Racconto a cura di Emilio Picciano