Valeron, il Robin Hood di La Coruña
Alto, magro e asciutto. Educato, pacato, attento a ogni minimo dettaglio, anche quando parla. «Non ho mai dato un calcione a un avversario con cattive intenzioni». E’ la verità, nient’altro che la verità. Perchè Juan Carlos Valeron è così, schietto e sincero, un buono che non si inalbera praticamente mai, nemmeno quando l’avversario lo prende da dietro e gli spacca il perone.
E’ successo nel 2002. Valeron gioca da fenomeno, come sempre, lì sulla trequarti: passaggi filtranti, giochi di prestigio, tocchi magici. Imprendibile. A inizio ripresa il Valladolid decide di tagliare la testa al toro e gli piazza Peña alle calcagna, fino al misfatto, un bruttissimo fallo che cambierà la carriera al talentoso di Arguineguin, Gran Canaria. «Sono cose che succedono nel calcio», dirà Juan nel post partita, dall’ospedale. «Anche il mio avversario non la sta vivendo bene», subissato di critiche e minacce di morte. Un bel pensiero da parte del nostro protagonista, animo nobile, credente (molto, a Dio) e rispettoso.
Il Re di La Coruña
«El Flaco» Valeron, o semplicemente «El Mago», perchè vero prestigiatore con la palla tra i piedi, ha due particolarità: è stato allenato da un italiano, Arrigo Sacchi, all’Atletico Madrid, e ha indossato la stessa maglia, quella del Deportivo La Coruna, per ben tredici stagioni (422 partite ufficiali), squadra con cui ha vinto una Coppa di Spagna e due Supercoppe di Spagna, oltre all’Intertoto e un campionato di Serie B.
Senza mai alzare la voce è riuscito a farsi rispettare da tutti, avversari e non. Il suo talento gli ha permesso di realizzare imprese straordinarie, come disegnare fútbol e vincere in casa del Bayern Monaco in Champions League per tre a due nel settembre 2002 oppure, ancora meglio, due anni dopo ai quarti, rimontare (4-1, 4-0) ed eliminare il Milan di Ancelotti in un Riazor demoniaco. Con un gol, tra gli altri, proprio di Juan Carlos Valeron, di testa, non propriamente la specialità della casa.
Lui amava l’imbucata, viveva per il passaggio, quello coi giri giusti e l’effetto ad hoc, odiava le scorrettezze. «Il calcio è come la vita, quando le cose non vanno per il verso che vuoi e sei a un passo dal perdere tutto non puoi ricorrere a scorciatoie. Bisogna accettare la sconfitta». Ma restare fedeli al proprio stile. Sempre.
Valeron ha appeso gli scarpini al chiodo l’8 maggio 2016 con la «camiseta» del Las Palmas addosso, il club che lo ha lanciato nel professionismo agli esordi. La chiusura di un cerchio da film. Oggi allena i piccolini del Depor con la speranza che un giorno possano far tornare «Super» quella realtà.
Iniesta pagherebbe per vederlo giocare
Juan Carlos non è stato solo tecnica ma anche coraggio. Lui chiedeva palla, se la faceva dare, la cercava come una bella donna. Gli piaceva averla tra i piedi, toccarla, spostarla e metterla dove vuole, quando vuole, come vuole.
«Rischiare» è il suo motto e Iniesta è l’idolo di sempre che, udite udite, ha persino ammesso un piccolo segreto: «Pagherei per vederlo giocare». Juan Carlos Valeron arrossisce ogni volta che l’aneddoto riemerge a galla. «Un onore». Umile. E timido, soprattutto quando tutto lo stadio (ed è capitato più di una volta) si alzava in piedi e applaudiva a scena aperta, in suo omaggio.
Giocatore di provincia per modo di dire, perchè Valeron è stato nobiltà in purezza: «rubava» estro e fantasia ai top player delle grandi squadre e lo dava in pasto a realtà, come quella di La Coruna, assetate di bellezza. Ci pensava lui, regalando ai suoi tifosi e a tutti gli amanti del calcio, vere e proprie opere d’arte.