Jay Jay Okocha, lo stregone con due nomi
All’anagrafe di Enugu, ammesso e non concesso che, nel 1973, di anagrafe a Enugu ne esistesse anche solo mezza, il suo nome è Augustine Azuka. Tutti quanti però oggi lo conosciamo come Jay-Jay, associato al cognome, Okocha, quello è rimasto.
Come si passa da Augustine Azuka a Jay-Jay (il trattino in mezzo non è casuale, ma rigoroso)? Non è dato saperlo.
Qualcuno, probabilmente a ragione, sostiene che fosse il nomignolo con cui, in famiglia, venivano chiamati i due fratelli maggiori, James ed Emmanuel. I tifosi del Bolton, che hanno goduto delle sue gesta quando già la sua carriera si avviava al tramonto, hanno sempre avuto un’idea diversa: “The man was so good the named him twice”. Talmente forte che lo chiamarono con due nomi.
Ebbene sì, vi stiamo parlando di Jay-Jay Okocha. Per qualcuno il più forte giocatore africano della storia. Se non lo è stato, vi sfidiamo a trovare dei nomi alternativi tra giocatori non più in attività (perché Momo Salah rischia di far saltare il banco).
Una delle tante perle che l’Africa Nera ha dato al calcio internazionale.
Guerra, fame e calcio
Enugu, dicevamo. Nigeria. Anzi, Biafra, una volta. Terra di tribù e selvaggina. Ma anche terra di guerra, e di fame. E forse i due termini, “guerra” e “fame” mai sono stati così vicini come in questa terra, dove sono divenuti addirittura sinonimi.
Augustin Azuka nasce qui. Tra le macerie e la carestia. Dove l’unico momento in cui non ti accorgi della povertà che ti circonda è quando giochi a calcio. Sì, bisogna parlare di “giocare a calcio”, non di “giocare a pallone”. Perché qui il pallone non c’è.
E allora? Poco male. Si gioca con qualsiasi cosa sia di forma tonda: un frutto, un sacchetto accartocciato, un pentolino. A volte il pallone, quello vero, chissà da dove, compare sul serio. E allora è un giubileo.
Jay-Jay cresce qui, forse il posto più difficile del mondo dove essere bambino. Dove chi ci vive ha un solo desiderio: andare via. Magari, un giorno…
Il primo a riuscirci è suo fratello Emmanuel. Che trova, chissà come, un impiego in Germania.
Parte col magone di chi sa di lasciare una famiglia a decine di migliaia di chilometri di distanza. Ma il fratellino gli fa una promessa: “Ti verrò a trovare presto, non ti preoccupare”. E così sarà.
Ti va di giocare?
Jay-Jay va così in Germania, e per caso finisce per accompagnare un amico all’allenamento del Borussia Neunkirchen, terza divisione tedesca. Ovviamente non si limita ad accompagnarlo, ma rimane a vedere la seduta.
A un certo punto, per la proverbiale partitina finale, uno dei collaboratori del mister si accorge che manca un uomo. Si avvicina a Jay-Jay e gli chiede: “Ragazzino, ti va di fare due tiri con noi? Non importa se sai giocare o no, ci basta che tu faccia numero”. Okocha, che in Nigeria già gioca, a discreti livelli, ovviamente accetta.
Fare numero? Quella partitina Jay-Jay Okocha non la giocherà. La dominerà.
Al termine della seduta l’allenatore non ha dubbi: “Vai a parlare con quel ragazzino e strappagli il biglietto di ritorno per la Nigeria. Lui, da qui, non si muove”.
Fuori tempo. Fuori categoria.
Un anno per far capire a tutti di essere ampiamente fuori categoria. Un altro anno, al Saarbrucken, per sentirsi ancora il vestito troppo stretto.
Poi il grande salto. A Francoforte, per giocare con l’Eintracht in Bundesliga.
Non uscirà più dal grande calcio, fino al ritiro. Giocherà in Turchia, Francia e Inghilterra, con le maglie di Fenerbahce, PSG e Bolton. Praticamente, gli è mancata solo la serie A, ma c’è chi giura che ci sia andato molto vicino.
Annate incredibili, dove Jay-Jay, che sembra essere stato trasportato, tramite macchina del tempo, da un’altra epoca, con il suo capello demodè e quel baffo pronunciato, mette in mostra tutto il suo repertorio, di pregi e difetti.
Pregi: dribbling letale, uno dei migliori saltatori d’uomo della storia; velocità; visione di gioco; calci piazzati e, più in generale, tiri dalla distanza.
Difetti: andatura decisamente scoordinata, fisico non integerrimo, poca abilità nel sapersi vendere.
I suoi tifosi lo hanno, da sempre, chiamato “Il Mago”. In realtà, visto che di Africa Nera si tratta, sarebbe più giusto parlare di “Stregone”.
Lo Step Over
Ogni essere dotato di poteri magici, si sa, ha un incantesimo segreto, che tiene come marchio di fabbrica, e che lo fa distinguere dagli altri.
Nel caso di Jay-Jay Okocha si tratta del cosiddetto “Step Over”.
Di che si tratta? Forse più semplice a farsi che a dirsi. No, stiamo scherzando.
Si porta avanti il pallone con la suola, si finge di imprimergli un calcio con il piede opposto salvo poi far passare il piede sopra e, una volta ottenuto l’effetto di mandare fuori tempo il difensore, continuare la corsa.
Un colpo tutto suo, copiato poi da celeberrimi colleghi negli anni a venire. Uno su tutti: Ronaldinho. Che incontrerà Jay-Jay Okocha ai tempi del Paris Saint Germain, rimanendone letteralmente folgorato.
I britannici, storicamente gelosi, sostengono che in realtà sia stato Ryan Giggs a inventare quel tipo di finta. Mentono sapendo di mentire. Anche perché, diciamocelo: solo uno caracollante come Okocha poteva pensare a una skill del genere, non di sicuro uno sempre probo come il buon Giggs.
Argentina is good, Nigeria is gold
Oltre ad un incantesimo particolare, poi, uno stregone deve poter poi farsi ricordare per qualcosa di straordinario, speciale, forse anche soprannaturale. Quasi come dovesse giustificare il proprio dono.
Ce l’abbiamo!
Nel 1996 Jay-Jay Okocha trascina la Nigeria a una clamorosa medaglia d’oro alle olimpiadi di Atlanta.
Un commissario tecnico semisconosciuto come l’olandese Jo Bonfrere, ma una compagine in cui di talento ce n’è da vendere: da Taribo West a Babangida, da Ikpeba a Babayaro, passando per Nwankwo Kanu. Una macchina da guerra, di cui Okocha è indubbiamente il cervello. La orchestra lui, la muove a suo piacimento. E, quando la partita non si sblocca, tocca a lui prendere per le orecchie il coniglio ed estrarlo dal cappello.
Al Sanford Stadium di Athens tutti pensano che i nigeriani siano lì per portare le paste. Troppo squilibrio contro l’Argentina del Pupi Zanetti, di Valdanito Crespo, del Cholo Simeone, del Burrito Ortega e del Piojo Lopez. E invece vincono loro. Le pantere nere.
E qualcuno ipotizza che da quella vittoria per il continente africano sarebbe iniziata una nuova era, una specie di rinascimento, quantomeno sportivo. Si sbaglieranno, e di grosso anche. Purtroppo.
Molti invece, più pragmatici, inseriscono proprio la Nigeria tra le possibili outsider per la vittoria finale ai Mondiali di Francia ’98. La spedizione si trasformerà in un mezzo disastro, con la cocente eliminazione per mano della Danimarca (ben lontana da quella che stupì l’Europa nel ’92).
L’eredità di Jay-Jay
Cosa ci resta di Jay-Jay Okocha? Qualcosa ci rimane.
La consapevolezza e l’esempio che, anche se nasci nel peggior posto del mondo, se ci credi e hai talento puoi arrivare ovunque. Ma devi lavorare, te lo devi meritare.
Ci rimane il sogno di un popolo, che dopo anni di devastazioni ha toccato il cielo con un dito, in quel giorno dorato ad Athens.
Ci rimane il ricordo del talento di uno stregone del centrocampo, che pareva in grado, da solo, di vincere la partita. Mescolando il pentolone o agitando la bacchetta.
Ci rimane anche un nipote, Alex Iwobi, che, con alterne fortune, sta tentando di tenere alto l’onore della famiglia.
Ci rimane un nome, anzi due. Quella sigla diventata formula magica. Quell’antesignano marchio di fabbrica che testimonia forza e classe, talento e fantasia.
Jay-Jay. Che tu sia lodato, stregone dal doppio nome!