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Athletic Bilbao, un miracolo lungo 113 anni

Meriterebbe di essere trama di un film la storia dell’Athletic Club, la squadra di Bilbao che, dal 1911, schiera solo giocatori baschi. Vincendo e ispirando l’intero mondo del calcio con la propria "Filosofia".
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Athletic Club Bilbao - Illustrazione Tacchetti di Provincia

L’Athletic Club, o Athletic Bilbao, come viene impropriamente appellato da chiunque non sia tifoso dei Lehoiak (i Leoni) o semplicemente non ne conosca la loro storia, è un club davvero unico al mondo. È la squadra da sempre riuscita a rimanere ai più alti livelli del calcio spagnolo ed europeo schierando in rosa solo giocatori baschi, o comunque originari o anche solo cresciuti nella regione, e quindi comunque figli, naturali o acquisiti, della propria terra, che da sempre difende i propri usi e costumi, senza mai celare desideri di autonomia o, perché no, di indipendenza.

Vero, i puristi si sono detti contrariati dalle recenti “aperture” del club, che da oramai diversi anni consente di vestire la gloriosa maglia rossobianca anche a chi magari basco, nel vero senso della parola, non è. Ma la verità sta nei numeri, che dimostrano l’eccezionalità di questo fenomeno. 

Immaginate che un giorno la Roma decida di far vestire la maglia giallorossa solamente a calciatori nati nella Capitale. Circa 2,2 milioni gli abitanti della comunità sita nel nord della Spagna, alle pendici dei Pirenei. Aggiungeteci qualche centinaio di migliaio di baschi “acquisiti”, e risultato sarà, più o meno, i 2,7 milioni che popolano la città del Colosseo.

Ecco perché quello dell’Athletic si può a tutti gli effetti considerare un vero e proprio “miracolo sportivo”. Un prodigio nato la bellezza di 113 anni fa. Ed ecco perché la storia di questo club merita di essere raccontata dall’inizio alla fine.

Gli inglesi in Biscaglia

Bisogna quindi prendere ancora un po' di rincorsa in più per cominciare. E andare indietro fino agli ultimi anni dell’800.

Ci sono ovviamente di mezzo gli inglesi. E chi se no? I sudditi della Regina Vittoria, infatti, credono nell’economia della Biscaglia. E nel porto del capoluogo di questa regione, la stupenda Bilbao, cominciano a confluire tante navi provenienti dal Regno, cariche di uomini e materie prime.

Dove ci sono gli inglesi nel dopo-lavoro, ovviamente, si gioca a calcio, l’invenzione destinata a cambiare il nuovo secolo che è oramai alle porte. I bilbaini si appassionano a questo nuovo sport, e cercano di imparare sempre più dai propri maestri. Viene quindi organizzata un'amichevole: britannici contro autoctoni. Risultato scontato, ma non così netto come si potrebbe pensare: 6-0 per gli inglesi.

Di batoste ne arrivano molte altre, fino a che i baschi non capiscono che, per competere veramente, devono darsi un’organizzazione. Nasce quindi il Bilbao Foot-Ball Club (scritto proprio così) e, nel 1898, vede la luce anche l’ Athletic Club, con l’obiettivo di dimostrare al mondo che da quelle parti si sa giocare anche a pallone, non solo a pelota (o per meglio dire “pilota”). 

Bisogna stabilire innanzitutto i colori sociali. Ci sarebbe il bianco-blu, i colori della Biscaglia. I cugini inglesi allora dicono: “Signori, dalle nostre parti c’è una squadra che gioca in biancoblu, con delle splendide maglie a scacchi. È il Blackburn Rovers” che, quando il 1900 deve ancora cominciare, ha già sistemato in bacheca ben 5, dico 5, FA Cup (per intenderci: in tutta la sua storia, ad oggi, ne ha vinte 6). Vai, vada per le magliette del Blackburn!

La situazione cambia qualche anno dopo, quando un dirigente del club, tale Juan Elorduy, recatosi in Gran Bretagna per fare rifornimento di divise, scopre che i sarti della Regina in quegli anni hanno decisamente battuto la fiacca: non ce ne sono. E quindi? Che si fa?

Elorduy telegrafa in sede: “ci sarebbero le magliette del Southampton. Bianche e rosse, i colori della città di Bilbao”. Non emergono grosse alternative, ed ecco che l’Athletic comincia a vestire di Rojiblanco (anzi, di Zurigorriak).

Ben presto si capisce che c’è posto a Bilbao per una sola realtà, e in poco tempo arriva la Bizkaia, una specie di fusione tra l’Athletic e il Foot-ball club. La neonata squadra si dimostra subito davvero molto forte, tanto che nel 1902 alza al cielo la Copa de la Coronacion (antesignana dell’odierna Coppa del Re) battendo in finale il Barcellona. Quando il trofeo cambia nome, l’Athletic vince altri due anni, prima di cedere il passo al giovane cannibale Madrid (all’epoca non ancora Real). 

Il turning point decisivo arriva però nel 1909. Quando la coppa lo vince il Club Ciclista. Dietro questo nome, che parrebbe più adatto a una conviviale ciurma di cicloturisti, si nasconde in realtà quella che oggi conosciamo come Real Sociedad: la seconda squadra basca, fondata pochi mesi prima a San Sebastian, a un’ora e un quarto di macchina da Bilbao.

Inizierà non solo una delle più accese rivalità che ancora oggi scuote il calcio iberico, tra due realtà oltretutto molto vicine in usi e costumi. Ma sta pure per cambiare il modo di pensare in casa Athletic.

La svolta basca

La Coppa del Re del 1910 il Ciclista non la gioca; o per meglio dire, ne gioca un'altra. Il club, infatti, entra subito in disaccordo con gli altri della lega. La squadra, nel frattempo rinominata Vasconia, decide non solo di non iscriversi al torneo, ma anzi, di fondarne uno parallelo.

Quando viene chiesto alla Federazione quale delle due volesse riconoscere come ufficiale, negli uffici della RFEF volano le balle di fieno. Dunque, decisione salomonica: vanno bene tutte e due!

Da una parte, dunque, i tre club che la coppa l’hanno già vinta: Athletic, Madrid e Vasconia. Dall’altra il Barcellona insieme all’altra squadra di Madrid, l’Espanyol, e il Deportivo de La Coruna. Se, nel secondo triangolare, i blaugrana fanno man bassa, dall’altro torna a vincere il Bilbao.

L’anno successivo, nel 1911, gli animi si placano, e la Coppa del Re torna unita. L’Athletic vince ancora, e sono 4 trofei in bacheca. Ma quell’anno qualcosa succede, ed è lì che si marca il confine.

Deportivo, Real Sociedad e Academia de Ingenieros decidono di ritirarsi. Il motivo è semplice: secondo questi club quei Martins e Sloop, che l’Athletic annovera tra le proprie fila, sono in realtà inglesi irregolarmente tesserati. La federazione, temendo un’altra edizione “monca” come quella precedente, ferma tutto per un paio di giorni. Poi è costretta gettare la spugna: si gioca, anche senza queste 3. Che, dopo il successo del Bilbao, parlano apertamente di scandalo, di vittoria irregolare, di furto.

Ora, se conoscete i baschi sapete bene che non sono esattamente le persone più indicate alle quali stuzzicare l’orgoglio.

In risposta alle critiche l’Athletic tuona: “Ah dite così? Allora sapete che c’è? Dall’anno prossimo rinunciamo agli stranieri: la maglia dei Lehoiak la vestiranno solo ed esclusivamente giocatori baschi”.

Il San Mames e la Filosofia

Una decisione drastica, netta, controcorrente. Per qualcuno anche scellerata.

L’Athletic decide, infatti, da quel momento non più di giocare per vincere. Ma di provare più che altro a continuare ad esistere. Iker Muniain, capitano e leader storico negli anni recentissimi della squadra, lo ha detto chiaramente: “Qui arrivare secondi equivale comunque a vincere, anzi forse conta anche qualcosa in più”.

La campagna acquisti comprende, inevitabilmente, un raggio limitatissimo di opzioni: o si fanno giocare i prodotti del settore giovanile, o si vanno a cercare calciatori nei campi di periferia, creando sodalizi con le varie società del territorio (e se è difficile farlo ora, figuriamoci ad inizio del secolo scorso).

Ma è una scelta, una presa di posizione, che lega indissolubilmente la squadra alla propria gente. Da lì in poi si parlerà, infatti di "Filosofia Athletic". I giocatori che i tifosi vanno a sostenere sono i propri figli e nipoti, gente del posto, della città, del quartiere. Allo stesso tempo, chi gioca per i Leohiak è spesso il primo tifoso della squadra.

Un legame che il club, poi, negli anni continua a coltivare. Se è vero che, ancora oggi, i giocatori del Bilbao, per contratto non possono sottrarsi ad autografi e selfie con i propri fan. E se è vero che, ancora oggi, la società aggiorna con costanza e perizia quotidianamente i propri sostenitori su programmi degli allenamenti, hotel sede dei ritiri, spostamenti, eventi mondani a cui i calciatori partecipano.

A rinsaldare ulteriormente questo legame viscerale, il 21 agosto del 1913 vede la luce il San Mames. Uno stadio che inizialmente prevede 3500 posti a sedere, e alla cui inaugurazione partecipa anche il Re Alfonso XIII. La prima partita vede di fronte Athletic Club e il Racing de Irun. Il primo gol nella nuova casa lo segna un certo Rafael Moreno Aranzadi, meglio conosciuto come Pichichi. Un cannoniere da un gol a partita, nato proprio a Bilbao, ma che diviene presto una sorta di eroe nazionale, quando condurrà la Nazionale Spagnola a uno straordinario bronzo olimpico nelle Olimpiadi del 1920 organizzate in Belgio (i Mondiali nasceranno solo 10 anni più tardi). Morirà a soli 29 anni per un tremendo attacco di tifo. La Liga Spagnola ancora oggi lo ricorda, con un premio che porta il suo nome, e che ogni anno viene assegnato premia il miglior marcatore stagionale della Primera División (La Liga) del campionato di calcio spagnolo.

Nel corso degli anni successivi il San Mames subirà vari interventi di ristrutturazione, che alzeranno la capienza a 40mila spettatori. Il che non lo rende uno degli stadi più grandi d’Europa, ma sicuramente uno dei più caldi, sia per via del tifo (quello sano, non quello che si è portato via troppo presto Aranzadi), ma anche per la vicinanza delle tribune al terreno di gioco, che fa sembrare agli avversari di sentire il fiato dei tifosi sul collo.

Verrà presto soprannominato La Catedral; non solo perché edificato su un appezzamento di terreno dove una volta sorgeva una chiesa, dedicata, appunto San Mamete di Cesarea, ma anche per quella sorta di sacralità che emana, e per il timore e la soggezione che incuteva negli avversari.

Anche oggi, che è stato demolito nel 2013 per far posto a un pluriaccessoriato e modernissimo impianto omonimo, costruito a fianco al vecchio, molti tifosi rimpiangono il vecchio stadio, sicuri del fatto che non possa esistere Athletic senza la propria Catedral

Pentland: tra guerre e rivoluzioni

Da un punto di vista sportivo, la squadra, dopo anni bui concomitanti con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, conosce un nuovo periodo di gloria a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. Il merito è tutto di Frederick Pentland. Inglese, nato a Wolverhampton, ex attaccante, tra le altre, di Blackburn e Middlesbrough, una volta appesi i proverbiali scarpini al chiodo passa subito ad allenare. Prima la Nazionale Tedesca (ma dopo il 1914, il fatto che un britannico alleni la Germania non diventa proprio più possibile per ovvi motivi), poi quella francese alle Olimpiadi del 1920, dove non strappa l’argento alla Spagna per una storia che andrebbe raccontata a parte. Quindi, dopo un breve periodo al Racing Santander, l’arrivo a Bilbao.

Pentland rivoluziona l’Athletic non solo sul campo (“Basta palla lunga per favore, passaggi corti e bassi”), ma anche nelle strutture: l’allenamento va fatto ogni giorno, e i giocatori devono essere professionisti, ciò vuol dire che devono essere pagati per giocare.

Con lui in panchina l’Athletic stampa un “rotondo” 12-1 al BARCELLONA (avete capito bene) nel 1930/1931, ovviamente al San Mames, ancora oggi la vittoria più ampia nella storia della Liga. Nella stessa partita Agustin Sauto Arana, detto Bata, realizza una delle migliori prestazioni individuali nella storia del football, mettendo a segno 7 gol.

L’anno prima l’Athletic ha messo a segno il primo doblete della storia spagnola, portandosi a casa sia il campionato che la coppa.

Poi entrano, a gamba tesissima, gli anni della Rivoluzione. Il campionato viene sospeso per 3 anni, alla ripresa la squadra va, di fatto, rifondata. Nel 1943 arriva il quinto titolo in Liga, il che permette al club di fare suo per sempre il trofeo. Lo vince come Athletic de Bilbao, in quanto un decreto governativo dell’anno precedente impediva alle squadre di avere nomi non spagnoli. 

Arriverà poi l’esordio nelle Coppe Europee e altri titoli nazionali, sparsi qua e là.

Ma, come detto, il vero miracolo l’Athletic lo realizza continuando semplicemente ad esistere, restando sempre fedele alla propria filosofia. Mai retrocesso, unico club, insieme alle onnipotenti Barcellona e Real Madrid, sempre presente in Liga fin dall’anno della sua ufficiale istituzione (1928). Terza società più titolata di Spagna, con 8 campionati, 24 Coppe del Re (l’ultima delle quali vinta l’anno scorso con Valverde in panchina) e 3 supercoppe di Spagna.

In Europa ancora manca il bersaglio grosso. Due le finali raggiunte: una di Coppa Uefa nel 1977, castigato dalla Juventus grazie al timbro di Tardelli all’andata a Torino e alla rete di Bobby Gol Bettega nel ritorno al San Mames (partita comunque persa dai bianconeri di Trapattoni per 2-1); la seconda ferita è più recente, ed è datata 2012, quando i baschi, guidati dal genio argentino del Loco Bielsa, escono sconfitti nella finale secca di Europa League nel derby contro l’altro Atletico, quello di Madrid, con doppietta di Falcao e gol di Diego.

Il Nuovo Athletic

Negli anni ’80 il Bilbao vince i propri ultimi campionati (mettendo in mostra anche un discreto portiere di nome Andoni Zubizzareta, ne sentiremo parlare), prima di denotare straordinaria intelligenza, lungimiranza e lucidità accorgendosi che il gioco, nel frattempo, è cambiato. Dimostrando oltretutto grande umiltà nel fare una profonda analisi interna, ponendosi degli interrogativi, anche a costo di scatenare l’ira delle frange più irriducibili dei propri sostenitori:

“Ha senso continuare così? Il progetto è ancora sostenibile? Manteniamo la nostra “Filosofia” che tutto il mondo ci ammira?”

La risposta è “sni”. Il club continua sulla propria strada, ma nel 1990 estende le possibilità di tesseramento per i Lehoiak anche ai giocatori formatisi nella cantera di un altro club basco. È anche una risposta a chi gli accusa di essere dei razzisti.

Più tardi l’apertura anche a giocatori figli di genitori baschi. Il caso più eclatante è quello di Bixente Lizarazu, nato in Acquitania, al di là dei Pirenei, ma di chiare origini basche. Ma anche quello di Fernando Amorebieta, nato in Venezuela da padre basco pure lui. Poi largo anche ai baschi di seconda generazione: ed ecco Aymeric Laporte, altro Aquitano di chiare origini dell’Euskal Herria.

I più puristi storcono il naso, ma l’Athletic non può fare diversamente, in un calcio in cui le big vengono sempre più spesso a fare la spesa in casa Bilbao e in un campionato in cui per diversi anni hanno giocato, con le maglie ovviamente di Real e Barça, due dei più forti giocatori che il dio del Pallone abbia mai creato.

Una volta i soldi arrivati dai giocatori ceduti venivano investiti per migliorare le strutture. Ora non basta più. Se si vuole che il miracolo continui.

E sta continuando. Della recente rosa della Spagna Campione d’Europa 2024, 3 giocatori militano tuttora nell’Athletic: il portiere Unai Simon, il difensore Dani Vivian e l’attaccante Nico Williams, quest’ultimo fratello di Inaki, anche lui attaccante del Bilbao, capace di giocare per 7 anni di fila senza saltare mai una partita, da molti considerato come un futuro crac del calcio mondiale.

Una squadra che ha perso, recentemente, alcuni dei leader storici, come Iker Muniain e Raul Garcia, e in cui altri pilastri dello spogliatoio si accingono a seguirli (35 anni sia per De Marcos che per Ander Herrera) l’anno scorso è riuscita, come detto, a tornare al successo, mettendo le mani su una storica Coppa del Re (vittoria ai rigori contro il Maiorca).

Con Ernesto Valverde, uno che all’Athletic non solo ha giocato, ma ha pure cresciuto i giovani allenando le giovanili, i tifosi, la cosiddetta “aficion de San Mames” possono continuare a sognare in grande. Anche se si sa che basterebbe loro semplicemente continuare ad esistere.

Perché già quello sarebbe un discreto miracolo, che dura da 113 anni.

Racconto a cura di Fabio Megiorin

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